Inconscio e arte in Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch, pittore olandese attivo tra fine 1400 e inizio 1500, è noto per la complessità delle sue opere. Il suo linguaggio artistico è sicuramente singolare, caratterizzato da figure oniriche e luoghi curiosi, popolati da creature fantastiche e mostruose. Questo artista eclettico è protagonista di una mostra a Palazzo Reale (Milano) in quanto emblema di un Rinascimento alternativo, contrapposto al Rinascimento che fa perno sul mito della classicità. L’altro Rinascimento di Bosch è composto da mondi onirici, composizioni affollate, in cui loci amoeni, ovvero luoghi incantevoli, sono dipinti vicino a città incendiate e sono popolati da mostriciattoli, uomini con volti spaventosi e ibridi animali. Nonostante ciò, da lontano le sue creazioni possono sembrare ordinari dipinti rinascimentali.

Bosch è un artista davvero enigmatico: la sua vita tranquilla di uomo religioso si contrappone a un’arte in cui vengono alla luce demoni con sembianze di uomini, animali e/o oggetti. Queste figure informi passano dalla mente dell’artista alla tavola, immersi in ambienti fantasiosi e inquietanti, e sono figure che ben si inseriscono nella cultura del tempo di Bosch: rappresentano speranze e timori che si respiravano in un Medioevo agli sgoccioli. Il pittore mette in scena un mondo la cui unica certezza era la miseria di ogni singolo individuo, dovuta a una morale sempre conflittuale. Questo conflitto interno non è, però, legato solamente agli uomini di quel periodo, ma è presente in ciascuno di noi come continua guerra tra bene e male. Quello di Bosch è un monito: il male non è qualcosa di relegato all’aldilà, bensì è presente nella nostra realtà. La follia dell’umanità ci ricorda e il peccato e il male sono abissi in cui chiunque può cadere. Bosch, dunque, rappresenta le conseguenze di una vita totalmente lasciva e dedita al male, come vediamo nel Trittico del Giardino delle delizie (1480-1490).

Al di là delle motivazioni razionali che legano Bosch alla sua arte, non possiamo non pensare che egli sia un perfetto esempio di alcune riflessioni della psicanalisi sull’arte. Freud, per esempio, dedica una serie di saggi all’arte come sublimazione e come terapia. Il processo di sublimazione consiste nel rendere i nostri impulsi, anche quelli più infimi, attraverso un veicolo socialmente accettato. Gli aspetti dei processi creativi non sono mai sotto controllo cosciente dell’artista proprio perché l’arte permette di rappresentare le proprie pulsioni, anche quelle più profonde, come afferma Dalton Peggy, psicoterapeuta contemporanea. L’artista prende sempre ispirazione dal suo inconscio creando un mondo di finzione, quasi fosse un gioco infantile. E quale esempio migliore di mondi di finzione creati dall’arte se non le opere boschiane?

L’arte è, dunque, una sorta di terapia, sia per l’artista che per noi spettatori, poiché possiamo interfacciarci con il nostro io, toccando corde nascoste ed emozioni spesso messe a tacere. Freud usa il termine perturbante per descrivere ciò che si prova fruendo un’opera d’arte. Si percepisce, cioè, qualcosa di spaventoso e familiare, per usare un ossimoro caro al fondatore della psicoanalisi: si vuole tenere lontana l’opera ma, allo stesso tempo, si è attratti da essa perché rappresenta il nostro io, più nascosto e più vero. Questa contraddizione spiega chiaramente le sensazioni provate di fronte a un’opera boschiana. Bosch, infatti, è – come ciascun artista o ciascuna persona che crei arte, anche solo per piacere – «uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia» (S. Freud, Precisazione sui due principi dell’accadere psichico, 1911). L’arte di Bosch ci ha lasciato, dunque, diverse eredità: il legame tra arte e sogno o incubo ha colpito i surrealisti, che si sono ispirati particolarmente alle opere boschiane, tanto che il pittore olandese viene considerato precursore del movimento. Inoltre, grazie al suo rappresentare vizi e conflitti interiori, Bosch ci permette di riflettere sulla funzione dell’arte, soprattutto in stretto legame con le nostre pulsioni.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit Johannes Plenio via Unsplash]

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Il dubbio nell’arte: il surrealismo psicoanalitico di Max Ernst

<p>F6EBYP Max Ernst - The Fireside Angel (The Triumph of Surrealism)</p>

Instancabile pensatore e prolifico artista, Max Ernst è una delle più eminenti personalità del XX secolo e protagonista d’una nuova e suggestiva mostra a Palazzo Reale (MI) a partire dal 4 ottobre 2022. In questo grande pittore tedesco naturalizzato francese convivono diverse sfaccettature, a partire dalla formazione filosofica che s’intreccia con la passione per la storia dell’arte e per il mondo onirico. Sotto l’influsso di De Chirico, del movimento dadaista ed in seguito di quello surrealista e dopo diversi studi su Freud e l’inconscio, inizia ad esprimere la propria vocazione artistica nei collages, nei quali convivono paesaggi onirici, figure ambigue, surreali, eterogenee.

Ernst vive tra il 1891 ed il 1976, riporta sulla propria pelle le ferite di un’epoca lacerata dalle guerre, teatri di violenza e sofferenza tanto fisica quanto psichica, che lo spingono ad immaginare una realtà inattuale, differente da quella presente da lui vissuta. A tal proposito vi sono diversi bizzarri aneddoti sulla sua vita, tra cui la sua strana passione per il mondo ornitologico nata da un episodio infantile: il suo pappagallo morì il medesimo giorno della nascita della sorellina, evento grazie al quale Ernst si convinse che l’anima dell’uccello si fosse trasferita nella neonata. Affermava persino di essere nato da un uovo d’aquila che sua madre aveva messo in un nido e nei suoi lavori appare frequentemente LopLop, una sorta di uccello supremo con cui si identificava.

Il processo creativo di Ernst trova ispirazione proprio nella capacità che i volatili hanno di abitare tra terra e cielo, facendosi trasportare da raffiche di libertà durante i loro voli. Questa metafora richiama il suo stile pittorico, eccentrico e basato su giustapposizioni di figure che prendono forma grazie ad un lessico che non può essere ingabbiato nella logica tradizionale. L’arte, per Ernst, è uno strumento che permette di scandagliare i fondali della realtà in tutta la sua arcana varietà, muovendosi sul palcoscenico della vita che mette in scena se stessa dopo essersi spogliata di quella parvenza di integrità che tenta di coprire i propri aspetti più scuri e catastrofici. L’arte è, per Ernst, ciò che permette di immergersi nel buio, andando oltre la luce; egli diceva, infatti, che «per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, ma per comprenderla bisogna chiuderli» (A. Morandotti, Minime, 1980). Solo dopo aver scoperto il buio è possibile incontrare il dubbio; non a caso questo potrebbe essere uno dei principi cardini della filosofia, l’unico in grado di porci in ascolto di noi stessi, di fermare il flusso inesorabile del tempo comprendendo che non sempre la verità risiede nell’apparenza e nell’immediatezza. Il dubbio può mettere in difficoltà l’essere umano, in quanto lo priva delle proprie certezze, ma è l’unico modo che egli ha di accettare la vita nella sua totalità e nelle infinite possibilità che gli si presentano dinanzi, parafrasando Heidegger.

L’arte di Max Ernst incarna proprio questo principio: la vita che agisce nella sua totalità secondo la logica tradizionale ma che possiede delle venature inconsce, ambigue, oniriche che possono essere riportate sulla tela. Ed ecco che l’arte si qualifica non come la raffigurazione passiva di ciò che ci circonda, ma come un metodo di approfondimento del mondo e delle sue sfuggenti sfaccettature. Come scrive Jung nella sua opera del 1964, infatti: 

«Le idee creative rivelano il loro valore per il fatto che, come chiavi, servono a dissuggellare connessioni di fatti prima incomprensibili, e consentono quindi all’uomo di penetrare più a fondo nel mistero della vita» (C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, 2020).  

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Google immagini]

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Guarire con la filosofia

Fin dall’antichità, filosofia e medicina sono apparse come materie strettamente collegate, affondando sin da subito le radici l’una nell’altra: Aristotele, Ippocrate e Galeno sono alcuni tra i più famosi esempi del sodalizio tra queste due discipline. Epicuro definisce la filosofia come pharmakon, rimedio per raggiungere la felicità dell’anima, così come in seguito Seneca e Cicerone; Boezio la immagina come una bella e austera donna  venuta a portare consolazione al suo spirito provato.

Pare che attualmente i legami tra filosofia e medicina risiedano più nell’ambito della bioetica e della morale in generale, volti a giudicare come giusti o sbagliati prassi strettamente cliniche, le quali risultano però, sul piano pratico, difficilmente influenzabili e modificabili: il tutto comporta una spiacevole gerarchizzazione in senso piramidale delle discipline, che vede il pensiero filosofico occupare il gradino più basso.

Eppure c’è una disciplina, forse non unanimamente accettata come scienza naturale dalla comunità degli esperti, che medicalmente cura i disturbi che le competono con un percorso terapeutico che pone l’individuo a confronto con gli aspetti più profondi dell’esistenza umana: la psicoanalisi. Nata dalla mente e dalla penna di Sigmund Freud e diramatasi in tante correnti e applicazioni pratiche quasi quante ne furono le teste che la studiarono per prima, la psicoanalisi è la teoria che ricerca le spiegazioni dell’agire umano nell’inconscio, ovvero quella parte della psiche che contiene impulsi, emozioni, modelli comportamentali e tutto ciò di cui il soggetto non ha consapevolezza ma che contribuiscono a costituirlo. Tale teoria rappresenta la terza grande “umiliazione narcisistica” per l’uomo (dopo la rivoluzione copernicana e il darwinismo), forse la più grave, perché è quella che toglie la centralità all’Io nelle dinamiche di composizione e azione del soggetto.

Sebbene in un primo momento il modello di studio neurobiologico, l’avvento della psichiatria con la prescrizioni di farmaci e la liberalizzazione della sessualità sembrava avessero smontato i presupposti della dottrina di Freud, in realtà proprio attraverso questi elementi, la piscoanalisi iniziava il suo processo di rivoluzione interna, analizzando il nucleo di quella svolta freudiana che al suo stesso creatore era rimasta velata. Autore di questo cambiamento è senza dubbio Jaques Lacan, psicoanalista e psichiatra sì, ma anche e soprattutto filosofo che ha individuato, nel percorso di analisi dell’inconscio, non solo un metodo per combattere problematiche psichiche sul piano clinico, quanto piuttosto un percorso d’avvicinamento a una verità traumatica che libera la propria voce. L’inconscio non grida frasi senza senso, ma si esprime attraverso un linguaggio; l’Io non deve mirare a dominare l’Es, pensandolo come un guazzabuglio di eventi rimossi, ma può cercare di avvicinarsi per disvelare e accettare una realtà che è già. Per Lacan nevrosi, psicosi e perversioni non sono, quindi, unicamente patologie ma veri e propri atteggiamenti filosofici che il soggetto malato assume nei confronti della realtà e che modificano la sua personalità.

Lo scopo della terapia psicoanalitica, quindi, come quello della filosofia, non è unicamente quello di portare il paziente al raggiungimento di benessere, soddisfazione personale o successo sociale, quanto piuttosto condurlo di fronte a quella sua verità, che include anche le coordinate del suo desiderio. E così, proprio come la ricerca filosofica, quella piscoanalitica alla scoperta di se stessi dura, come minimo, tutta una vita.

A questo punto, però, qualcuno potrebbe chiedere: perché mai intraprendere un percorso potenzialmente infinito e sicuramente indefinito di analisi di sé, che non comporta vantaggi immediati o che, addirittura, potrebbe condurre l’individuo che scava in se stesso a vivere momenti di crisi profonda? Non tutti potrebbero voler scoprire la propria verità, soprattutto a costo di attraversare i sentieri della sofferenza e del dubbio. Sicuramente la strada non è spianata, ma il rischio di vivere in superficie è anche quello di vivere immersi nel non-senso e nell’inautenticità. Psicoanalisi e filosofia insieme potrebbero invece restituirci pienezza e consolazione, comprensione e quindi maggiore capacità di accettazione di noi stessi, del mondo e soprattutto dell’Altro: “chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come”.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credit Paxabay]

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Nello specchio: tra linguaggio letterario e cinematografico. Intervista ad Arturo Donati

Il 2018 è l’anno delle ricorrenze: centoventi anni, ad esempio, dal primo numero della rivista Ver Sacrum, fondata appunto nel gennaio 1898 come organo ufficiale della Secessione viennese e cento anni dalla morte dei principali fautori di questo movimento − quali Gustav Klimt, Otto Wagner, Egon Schiele, Koleman Moser − deceduti a causa della pandemia di influenza spagnola nel 1918.

«Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freit»: questo il celebre motto della Wiener Secession iscritto sul prospetto del Palazzo della Secessione di Vienna su suggerimento del critico Ludwig Hevesi. «A ogni epoca la sua arte, a ogni arte la sua libertà» dunque: la rivendicazione della necessità di svolte e di fratture rispetto al passato e dell’intrinseco bisogno di autonomia e di specificità proprie di ogni nuova Weltanshauung, in quanto per dare forma a un nuovo mondo – o per esprimere e interpretare un nuovo senso del mondo – sono inadeguati i modi e i segni superstiti del passato.

Le etichette critiche, inevitabili per tracciare l’andamento carsico dell’arte in senso lato, si situano sullo sfondo di un significato storico e, anzi, è in corrispondenza dei grandi eventi storici che assistiamo alla creazione di grandi movimenti artistici.

L’indubbia vitalità narrativa, quella smania di raccontare, per citare Italo Calvino nella Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno (1947), «un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero […] la capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio», concomitante la fine della seconda guerra mondiale, è stata registrata come “Neorealismo”. Calco dell’equivalente tedesco “Nuova oggettività” (Neue Sachlichkeit) − con cui si designa il movimento artistico sorto in Germania negli anni Venti come reazione all’Espressionismo – l’espressione “Neorealismo” viene applicata in Italia dapprima in ambito cinematografico per indicare la novità del film di Luchino Visconti, Ossessione (1943), tratto dal romanzo The postman always rings twice di James Cain.

«Come definire il neorealismo?»: foto-arturo-donatiquesta la domanda che Gilles Deleuze si pone in apertura del secondo tomo di Cinéma, L’image-temps (1985) nel primo capitolo Al di là dell’immagine-movimento. E inizia così, sfogliando le pagine deleuziane, l’intervista ad Arturo Donati, professore di filosofia, critico letterario, appassionato di Wittgenstein e di Cristina Campo.

 

Quale dinamica esiste secondo lei tra il neorealismo cinematografico e la scrittura neorealistica?

Innanzitutto intenderei il neorealismo in chiave simbolica, declinando cioè il “neo-” come la possibilità, conclusa, di un diverso rapporto tra l’uomo e le cose ‒ e non come modalità di vano recupero del pre-simbolico. Nel neorealismo cinematografico c’è stato un decisivo superamento della letteratura. Se lo scrittore lavora sul proprio immaginario e lo offre al lettore, il regista, invece, organizza la lettura dell’altro. Assistiamo quindi a una crisi metaforica nella proposta cinematografica intesa come tradimento della letteratura. Tuttavia, nel periodo di ricostruzione generale dei linguaggi successivo agli eventi bellici, lo smarrimento collettivo invoca la possibilità di immaginare la natura della crisi come esterna alla singolarità umana, cioè di cercare – per dirla con Jung ‒ un movente fuori di noi per la crisi del Novecento. L’allentamento del senso di comunità determina una perdita di sensibilità quindi un indebolimento del linguaggio letterario. I registi appaiono come i nuovi demiurghi che completano l’alterazione degli idola della letteratura. Per osmosi però si ricava un rigenerato bisogno di scrittura: si ritorna sempre all’uomo e si svela la deriva. Si pensi al Pasolini regista, che entra in crisi quando tenta di esprimere con il cinema più di quanto possibile con la scrittura. All’acme della sua pretesa esaurisce e smarrisce l’immaginazione diventando osceno (obsc/enum), con Salò o le 120 giornate di Sodoma, opera che segna la dissipazione ideologica del senso critico.

 

Secondo lei è preferibile un’opera d’arte totale, una Gesamtkunstwerk wagneriana, o – si potrebbe dire ‒ a ogni arte la sua specificità?

La domanda è immensa. Lapidariamente: considero la specificità un frammento rapito all’universale indiviso, unico l’occulto demone dell’arte, infiniti i fuochi fatui e le bellezze apparenti.

 

Deleuze parla di visioni estetiche e di oggettivismo critico a proposito di Antonioni: «In Antonioni il metodo della constatazione ha sempre questa funzione di collegare i tempi morti e gli spazi vuoti […] Quando tutto è stato detto, quando la scena principale sembra conclusa, vi è quello che viene dopo…». In che termini secondo lei la macchina da presa può essere usata in funzione simbolica, per constatare cioè e insieme suggerire?

In Deleuze c’è una lettura delle mutazioni interiori e quando scrive che il rapporto di stabilità con il reale è finito lo pensa in termini di linguaggio e di capacità di comunicazione. Antonioni è proprio il regista dell’incomunicabilità che con genialità fa riflettere sulla perdita del valore simbolico della parola. Quando viene meno la parola, la corporeità nel suo malessere somatizza l’impossibilità di un discorso comune e il malessere diventa simbolico. Il simbolo ci accompagna e, se il principio di realtà decadente è il dominio delle cose, il simbolo è la luce dentro la caverna che consente all’uomo di restare nella lettura orizzontale del reale di una storia − direi − senza avvenire. Il neorealismo, termometro della crisi, che l’intellettualismo alimenta, legge antonomasticamente il disagio quale nuovo principio di realtà. Antonioni, situandosi al di là della macchina da presa, compie una lettura radicale e verticistica della crisi, in bilico tra cinismo e compassione, consapevole di essere alla fine della linea di fuga. Il regista appare come nuovo esploratore narrante di un mondo orizzontale, custode di una liberazione esiliata nel privato. Talvolta si va infatti al cinema per vedere non una storia ma in ossequio al regista che denuncia nuove malattie in un clima di rassegnata partecipazione proprio della società del disagio, dove l’analisi disincantata della patologia sociale si accompagna alla frammentazione incosciente delle responsabilità personali. Antonioni è stato comunque un apripista in grado di costringere lo spettatore a pensare: dalla sua impietosa analisi del contemporaneo emerge una cultura profonda e il coraggio di uno sguardo sul mondo di cui la macchina da presa è anche il nuovo simbolo.

 

Parlando di psicoanalisi, nevrastenia e linguaggio, cosa ne pensa dell’affermazione di Lacan «L’inconscio è strutturato come un linguaggio»?

Wittgenstein direbbe che il linguaggio dell’inconscio non ha una grammatica. Non c’è una strada precostituita di uscita ma è lo psicanalista a fare un’indagine per entrare nella sfera interiore e trovare un punto di equilibrio. Il compito di chi indaga su se stesso non è però trovare risposte perché non c’è una chiave di lettura del pensiero, dell’interiorità poetica. Cerchiamo infatti la radice del pensiero che non è biologica né emotiva Nel proporre una logica di indagine in assenza di una logica interiore, la psicoanalisi propone una scansione, un viaggio, ma non un processo di conoscenza. L’analisi è una forma di accomodamento, la psicoanalisi instaura una metafisica senza essenza ed è una metodologia della preoccupazione dell’uomo, la cui vita quotidiana è ormai un ritirarsi nel privato. È questa – ahimè ‒ la nuova onda: il mondo orizzontale, il non attribuire valore al perché delle cose.

 

E quanto alla Nouvelle Vague in relazione al panorama italiano, in particolare al apporto tra Godard e Bertolucci: La chinoise e l’engagement oppure The Dreamers e un cinema sognante?

A me Bertolucci ha deluso con Novecento che pretende di leggere tutta la storia in un film insopportabile − tralasciando la bellezza delle immagini − e pretenzioso, sbrigativo e non problematico. I francesi forse sono troppo soggettivi, pretendono di soffrire più di tutti e di spiegare al meglio la sofferenza ma seguono almeno un principio di realtà in relazione a un soggetto non a un’ideologia: c’è sempre un soggetto attivo, anche se preponderante, le tranches de vie sono più credibili anche nell’ingenuità dei francesi di porsi sempre al centro.

 

Rimanendo nel panorama europeo, quali considerazioni sulla cinematografia di Bergman? E sul potere reversibile dello sguardo inteso come specchio al rovescio?

In bilico tra profezia biblica e mistica esistenziale, l’arte di Bergman impone lo specchiarsi nella verità della storia compiuta che sentenzia così l’uscita dal tempo. Il suo genio converte lo stupore infantile in dramma senile di un vecchio costretto a conoscersi sulla soglia della morte da una donna, fantasma evocato dalla memoria, come in Persona. Bergman spesso stringe il quadro fotografico sull’individuo e mostra un dolore forte e così soggettivo da raccontare quel che resta di umano in cui ancora riconoscersi. La vita è racconto di ricordi e compassione per lo smarrimento tra agonia del tempo e attesa di Dio, come in Il posto delle fragole. L’altezza di un regista fa così crescere la letteratura.

 

Regista e/o film preferiti?

 Di Bergman ho detto. Ho ammirato molto Federico Fellini per la sua capacità di andare controcorrente e di insistere sul perfezionismo degli artifici, denunciando indirettamente la tendenza retorica dei grandi registi del suo tempo. Ho vissuto una lunga amicizia con Gianfranco Draghi, psicanalista di scuola junghiana, che fu per il regista un consulente psicologico. Mi raccontò delle notti insonni dell’artista. La regia dell’interiorità ha un costo altissimo, il principio di verità della realtà nell’artista risiede nel profondo. Non si può raccontare un mondo reale se non dopo averlo artefatto totalmente – come riusciva a Fellini – e la deriva post moderna può essere raccontata magistralmente anche secondo il paradigma dell’uomo comune.  Non c’è un film che ho amato più di tutti, ma sedimenta nella mia memoria una galassia di scene che felicemente si coniugano con il mio vissuto.

 

Rossella Farnese

 

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Aristotele e l’inconscio

La psicoanalisi ha senso solo considerando l’inconscio strutturato come un linguaggio (Lacan). Con linguaggio, intendiamo: articolazione di elementi discreti, organizzati in un ordine chiuso: una logica. Quali sono, allora, le regole della logica? Risponde Aristotele: quelle grammaticali.

Seconda premessa: la conoscenza deriva dal sillogismo. In esso, due coppie di termini sono unite da un medio comune: se A è in relazione a B, e B è in relazione a C, allora A sarà in relazione a C, in ragione di B.

Immaginiamo di interrogare un bambino a proposito di una sua paura, supposta irragionevole: un mostro. Il bambino ammetterà presto che quel mostro non esiste. Ciononostante, la parola mostro (B) gli serve per indicare qualcosa (A), che non sa definire, e che lo angoscia (C). Mostro, cioè, non va preso nel suo valore semantico, ma in funzione rappresentativa. Questo non vuol dire che sia una parola scelta a caso.

Se la psicoanalisi, a differenza della psicologia, è lo studio di ciò che, innominabile per sé, fa problema a un soggetto dato – o anche, posto un meno davanti alla frase, ma senza mutarne la logica – se la psicoanalisi, a differenza della psicologia, è lo studio di ciò che manca a un soggetto dato e che lo rende, per ciò, desiderante, il sillogismo sarà allora lo strumento per venire a patti con questo oggetto, o con la sua mancanza. In presenza, o in assenza, cioè, esso (A) sarà mediato, al soggetto (C), da alcune rappresentazioni particolari (B). Quali? Quelle che, nella vita quotidiana, non dovrebbero esserci: sogni, lapsus, motti di spirito, atti mancati, sintomi.

Si tratterà di predicati dell’inconscio, e non di errori, nella misura in cui, a differenza di questi, si ripeteranno. Presi come metafore articolate metonimicamente (Lacan), secondo le leggi della condensazione e dello spostamento (Freud), reperibili nei nessi grammaticali (Aristotele), faranno balenare il metodo sotteso a questa follia. È l’ipotesi su cui si regge la pratica psicoanalitica.

Lo psicoanalista è chiamato in causa da un soggetto il cui sillogismo, a un certo punto, gli si è ritorto contro, causandogli una sofferenza insopportabile e inconcepibile. Si tratta di un interrogativo duplice, che non deve per forza partire da entrambi i poli allo stesso momento, ma che articola il versante del senso con quello della sofferenza.

Se l’esercizio del sillogismo prende, con Aristotele, il nome di dialettica, lo psicoanalista dovrà allora essere in grado di sostenere la posizione del dialettico, cioè non aggiungere alcunché alle parole di chi si rivolge a lui, nella convinzione che il risultato sia lo stesso, poiché non lo è.

La dialettica, però, ha un effetto collaterale: causa un’apparenza di sapere. Se è per questo che Socrate interrogava, ma non rispondeva, l’analista, che è tale se è supposto sapere, dal paziente, la causa di ciò che lo tormenta, dovrà attenersi alla medesima regola. Rispondendo, infatti, passerebbe dalla posizione del dialettico a quella del didattico. Medio della psicoanalisi è la dialettica. Didattico, semmai, è l’effetto sul soggetto: un sapere sul proprio desiderio, e un saperci fare.

È in ragione di un puro dialettico, quindi, che il paziente di un’analisi diviene analizzante, cioè passa, dalla condizione di oggetto di una sofferenza, a quella di soggetto al lavoro sul proprio inconscio, diviso com’è fra l’io della volontà cosciente (C) e un desiderio (A) mediato da rappresentazioni (B) che, ricordiamole, esistono per essere equivocate. Quando avviene che una stessa nozione (B) appartenga a due termini (A e C) e che qualcuno ignori uno dei due rapporti di predicazione (A-B o B-C) e sia invece a conoscenza dell’altro (B-C o A-B), infatti, lo stesso rapporto (A-C, tramite B), alla conclusione, sarà conosciuto e ignorato a un tempo. Equivoco, cioè, vorrà dire: non essere convinti di ciò che si conosce (A-C).

In conclusione, perché ci sia psicoanalisi, non basta la regola fondamentale. Dal lato dell’analista, con un agire che sia attivamente passivo, o passivamente attivo, e mai passivamente passivo (che sarebbe inutile, quando non dannoso) o attivamente attivo (che sarebbe didattico, quando non impositivo), bisogna garantire le condizioni affinché la dialettica possa essere esercitata correttamente. Dal lato del soggetto analizzante, perpendicolarmente, si tratta di prendere atto del proprio desiderio e di ciò che lo causa, credere a ciò che si sa, e agire di conseguenza. È il versante etico della psicoanalisi secondo Lacan, quella traduzione del freudiano Wo Es war, soll Ich werden che, senza Aristotele, sarebbe forse esistita, ma non avrebbe potuto essere scritta.

Antonino Zaffiro

Dott. Antonino Zaffiro, Psicologo – Psicoterapeuta a Latina (Albo Prof.le Reg. Lazio, n. 10728), Partecipante alle Attività della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, Membro della Società Filosofica Feronia.
Contatti: antoninozaffiro1977@gmail.com

[Immagine tratta da Google Immagini]

La parola “io”: patologia del nostro tempo

«La parola Io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno…»

Giorgio Gaber

Il culto dell’Io pervade il nostro tempo e le nostre esistenze. Se il XX è stato il secolo della psicoanalisi, il XXI è senza dubbio l’epoca che sta conducendo alle estreme conseguenze la psicologia dell’Io. Riportando l’attenzione sul singolo e sull’esplorazione del proprio inconscio, Freud e seguaci hanno senz’altro aperto un varco all’interno della conoscenza dell’uomo, della sua storia personale e dei propri meandri più remoti e celati, realizzando una vera e propria rivoluzione nel panorama culturale e sociale del Novecento. Il nostro tempo, tuttavia, sembra aver operato una vera e propria stortura rispetto alle iniziali scoperte della psicoanalisi. Se quest’ultima aveva ridestato l’attenzione dell’uomo verso il proprio interno affinché si rivolgesse poi rinnovato verso l’esterno, la società contemporanea, con le sue spinte culturali, economiche e politiche sembra celebrare quotidianamente l’Io e l’affermazione del suo potere come condizione esistenziale par excellence.

«La parola Io / questo dolce monosillabo innocente / è fatale che diventi dilagante / nella logica del mondo occidentale / forse è l’ultimo peccato originale»1. Con queste parole Giorgio Gaber canta la crisi dell’uomo contemporaneo, la quale si fonda propriamente sull’esaltazione del narcisismo. L’atteggiamento che tende ad esaurire la personalità nell’esclusiva considerazione di se stessa, è proprio quanto la psicoanalisi aveva individuato come il denominatore comune delle malattie mentali. I messaggi sociali, culturali ed economici veicolati dai social media fanno apparire l’Io come la sola e vera realtà. L’unica, sulla quale le nostre vite si debbano fondare. Tuttavia, sono tragicamente sotto gli occhi di ciascuno le conseguenze di questa finzione chiamata Io. Suicidi, omicidi, femminicidi, infanticidi, criminalità organizzata, attacchi terroristici. In tutti questi casi a dominare è la parola Io. Essa invita ad agire seguendo il proprio interesse egoistico, il proprio godimento personale, senza tenere in alcuna considerazione la presenza e il rispetto per l’altro. A ragione, facendo parlare il narcisista, Gaber scrive: «son disposto a qualsiasi bassezza per sentirmi importante». Questo è lo specchio di una società seriamente malata, che ha abdicato la dimensione originaria della relazione in favore del narcisismo, che sfocia in egoismo.

Secondo l’epistemologia genetica di Piaget, l’egoismo è una fase dello sviluppo che dovrebbe terminare intorno al terzo, quarto anno d’età. In questo periodo il bambino riconosce di non essere solo al mondo e di dover partecipare alla Vita, condividendola con altri simili, confrontandosi con loro e riconoscendo che la propria libertà è limitata ma proprio per questo preziosa. Il tempo ipermoderno sembra aver disconosciuto questo centrale passaggio dello sviluppo socio-individuale. L’egoismo, che oggi non viene superato nella prima infanzia, si trascina fino all’età adulta e permea tragicamente i nostri comportamenti. Riferendosi a questo Gaber scriveva: «negli adulti, diventa più allarmante e cresce la parola Io». L’esaltazione, che il nostro tempo fa della parola Io, suggerisce un potere esibito dal singolo come espressione di forza. È proprio così che si afferma il dominio dell’uomo sull’altro uomo. È in questo modo che il potere diviene violenza, sopruso, abuso, annientamento. Possibilità senza vincoli. Libertà senza legge. Solo così, infatti, il narcisista può affermare se stesso e il proprio essere. Solo così può provare l’ebbrezza di essere il centro del mondo. Solo così può nutrire la falsa illusione di bastare a se stesso e di non avere bisogno dell’altro. Salvo poi cadere in un profondo e sterile isolamento, prodromo della depressione, malattia dilagante nella nostra epoca.

È tempo di riconsiderare l’uomo come essere-in-relazione. La storia del pensiero, da Platone ad Aristotele, da Agostino a Tommaso D’Aquino, da Montainge ad Hegel, ci ricorda come l’uomo è un essere che può vivere solo in relazione con l’altro da sé, in un legame intersoggettivo autentico, in cui si perde parte della propria libertà per ritrovarla, più ampia e completa, nel legame con l’altro, con gli altri. È dunque necessario prendere le distanze dalla pervasività della parola Io in favore del Noi. Far dominare il Noi al posto dell’Io, significa riaffermare l’Umanesimo del quale siamo figli2. Significa stabilire relazioni di qualità, basate su rispetto, attesa, ascolto e comprensione dell’altro. Significa abbandono di parte delle proprie pretese egoistiche, per unirsi all’altro. Affinché questa unione avvenga, come suggerisce lo psichiatra Andreoli, è necessario riconoscere la propria fragilità. A partire da questa presa di coscienza è possibile cercare l’altro, fragile anch’egli ed unirsi a lui, che al contempo ci cerca poiché a sua volta si è riconosciuto fragile.

Nel panorama contemporaneo sembra sempre più difficile abbandonare l’egoismo, accettare le ferite narcisistiche. La società nella quale viviamo prospetta infatti la felicità nell’Io, proprio laddove, come abbiamo mostrato, non può realizzarsi. Essa infatti può compiersi solo quando l’uomo trascende se stesso, in favore di qualcosa che non è se stesso, che sta fuori di sé, che sta oltre. Ecco perché il filosofo danese Kierkegaard ebbe a dire: «la porta della felicità si apre verso l’esterno, cosicché può essere rinchiusa solo andando fuori da se stessi».

Alessandro Tonon

NOTE:
1. La presente e le seguenti citazioni son tratte da G. Gaber, La parola Io, nell’album Io non mi sento italiano, 2003.
2. Su questi temi rimando alla mia intervista al professor Vittorino Andreoli.

 

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Intervista a Vittorino Andreoli: alla scoperta dell’uomo

Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale, è stato direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave ed è membro della New York Academy of Sciences. Uomo di scienza e di grande cultura umanistica, si è sempre occupato di studiare e comprendere in profondità i segreti della mente, per poter aiutare concretamente l’uomo alleviandone le sofferenze con straordinaria competenza scientifica, sensibilità, delicatezza e coerenza. Sempre alla ricerca dell’umanità dell’uomo, negli anni ha analizzato per la magistratura grandi criminali che hanno scosso l’opinione pubblica italiana, fra i quali Pietro Maso e Donato Bilancia.

Fra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La mia corsa nel tempo (Rizzoli, 2016); La gioia di vivere (Rizzoli, 2016); Ma siamo matti (Rizzoli, 2015); L’educazione (im)possibile (Rizzoli, 2014); I segreti della mente (Rizzoli, 2013); Le nostre paure (Rizzoli, 2010); La fatica di crescere (Rizzoli, 2009).

Professore, nel corso della sua vita si è sempre occupato di esseri umani. A suo parere qual è la condizione dell’uomo contemporaneo?

Anzitutto c’è una condizione che è del tutto umana: l’uomo ha delle peculiarità per le quali è propriamente homo sapiens sapiens. Questi due sapiens non mi piacciono, ma sono l’indicazione per collocarci nell’albero delle specie che aveva disegnato Darwin. Quindi la condizione umana è quella di un animale. C’è una famosa e bellissima espressione di René Dubos (neuroscienziato francese, ndr) che ha scritto So human an animal (1968). Siamo dunque degli animali e abbiamo, in quanto specie umana, la caratteristica della coscienza, una capacità di porci questioni che si legano al cogito di Cartesio e all’Io penso di Kant. Siamo portati a porci domande a cui non sappiamo dare risposte. Attraverso la coscienza abbiamo la consapevolezza dei limiti della specie: la morte, la domanda dal nulla all’esserci, il limite drammatico del dolore, particolarmente quello inevitabile. Io credo che ci siano delle caratteristiche legate propriamente alla condizione dell’essere uomo e a queste caratteristiche e a questo senso del limite e del mistero si legano poi alcune condizioni del tempo presente. Le caratteristiche dell’essere del tempo presente sono: l’insicurezza, la paura, la percezione di un futuro che non si riesce nemmeno a immaginare, la violenza che ha una dimensione che non era mai stata così nel passato, inoltre c’è la paura che la nostra storia su questa terra finisca. Stephen Hawking afferma che sarà una grande fortuna se questo pianeta avrà ancora l’uomo fra mille anni. Questa è un’affermazione drammatica perché, dal punto di vista della fisica e della cosmologia, sappiamo che il pianeta va verso l’estinzione poiché il sole è una stella che nel giro di due miliardi di anni finirà. Ma tra due miliardi di anni e mille anni passa una bella differenza. Hawking non lega tanto questa ipotesi al consumo dell’energia stellare, quanto piuttosto alla paura che l’intelligenza artificiale possa creare dei comportamenti distruttivi per l’uomo. Attualmente i limiti e le paure sono davvero di grande portata.

I suoi ultimi scritti, su tutti La gioia di vivere (2016), si occupano di esplorare in linea teorica ma anche praticamente gli ingredienti per poter condurre un’esistenza all’insegna del benessere e della gioia. Come mai ha sentito l’esigenza e l’urgenza di trattare questi temi, paradossalmente essendosi sempre occupato delle sofferenze dell’anima?

Devo premettere una considerazione: io amo l’uomo e lo amo indipendentemente da quelle che sono le qualità buone o cattive. Io mi sono occupato di casi estremi e ho sempre trovato l’uomo. L’ho trovato persino in Donato Bilancia, che ha ammazzato 17 persone in 6 mesi. In quanto uomo, io ne ho sempre grande considerazione. Amo l’uomo e il mio sogno è quello di un uomo che riesca a vivere insieme secondo l’umanesimo. Quell’insieme di principi che in ciascun tempo devono essere applicati perché si possa vivere meglio. Amo l’uomo, sogno e so che può vivere in un modo che sia dell’umanesimo. Questo significa rispetto dell’altro, significa far dominare il Noi e non più l’io.
Per quanto riguarda la gioia, la spinta è una visione tragica del tempo presente. Io sono un tragico, non solo perché mi dedico ai casi estremi, non solo perché ho amato i tragici greci fin da piccolo, ma proprio perché la mia percezione tragica si sta espandendo e sta arrivando a previsioni quasi apocalittiche, è allora che ho ritenuto necessario promuovere la gioia, la vita. La gioia è certamente l’elemento fondamentale che io ritengo mancare nel residuo di umanesimo che questa società ha ancora in sé. Perché domina l’io, sostenuto anche dalle psicologie. Con Freud nasce la psicologia dell’Io, e tutti noi che l’abbiamo sostenuta (e per questo c’è persino un po’ di senso di colpa) abbiamo finto che sia possibile parlare dell’uomo singolo, mentre l’uomo è sempre relazione ed è sempre storia. Quindi ho pensato che era tempo di cambiare gli occhiali e di vedere il mondo in modo diverso e qui mi sono appoggiato, da una parte a un grandissimo filosofo come Kant, dall’altra ad un grandissimo psichiatra come Karl Jaspers. Kant ha detto: “il mondo com’è non lo conosciamo però ne percepiamo una rappresentazione” che dipende da quelle categorie a priori che per noi sono la biologia del cervello. Così ho cominciato a illustrare quali sono le caratteristiche del mondo della gioia, di questa visione del mondo e di come si fa a promuoverla. Perché, a differenza dei filosofi della tradizione io sono un operativo, uno che vorrebbe cambiare la storia di un uomo e in fondo questo è lo scopo che ho sempre messo nella mia professione. Mi pare che bisogna guardare il mondo in modo diverso da come ce lo presentano i giornali, i politici. Ormai è consuetudine svegliarci in una visione che è catastrofica e qui si inserisce la mia idea che bisogna cominciare a guardare i Nessuno e non il potere. Io sono contro il potere inteso come verbo “posso e quindi faccio”, mentre sono per la condivisione e quindi per il Noi. Perché io per vivere ho bisogno degli altri. Gli egocentrismi sono una lettura sbagliata. L’io è una finzione rispetto al Noi.

Quindi, come possiamo ‘fare la gioia’?

Bisogna avere la percezione della fragilità. Io sono fragile e in quanto fragile ho bisogno dell’altro. Se ho bisogno dell’altro devo avere verso l’altro un’attesa, una ricerca, devo trovarlo, devo legarmi e questo naturalmente porta a dare maggiore importanza al pronome Noi. Pensiamo al legame di coppia, al legame con i figli, al legame con la comunità, con gli uomini. Se c’è qualcosa di filosofico nel mio pensiero è estremamente semplice, non se ne può più di complicazioni. Pensi alla solitudine del tempo presente, ai vecchi, all’abbandono. Oggi c’è la voglia dell’altro ed è su questo che noi dobbiamo fondarci. Per questo, i miei richiami alla filosofia sono dentro all’umanesimo. Questa è una filosofia che non si distacca nemmeno un istante dall’essere terapeutica. Il De tranquillitate animi (Seneca, ndr) è un’ottima seduta di un buon psichiatra, così come i dialoghi platonici, che sono esempio di una relazione che oggi è fondamento delle psicologie e della psichiatria. I dialoghi platonici ci dicono: “c’è un problema, vediamo di analizzarlo”. Platone non fa esercizi di razionalità, quanto piuttosto di un’arte relazionale per vivere. La filosofia dev’essere insegnamento di vita. Oggi c’è una filosofia da riproporre come “terapia”. Parola educativa e parola terapeutica sono per questo molto affini. Mi meraviglio ancora di come la filosofia sia stata distolta completamente dal contesto della classicità. Io amo la civiltà occidentale e dopo i nichilismi, la filosofia non può essere che una filosofia della vita.

Binswanger affermava che l’oggetto della psichiatria è l’uomo. Egli veniva dal sostrato filosofico della fenomenologia, così come Jaspers e Minkowski.

Essi sono dei filosofi, dei fenomenologi. Lei ha colto un punto importante: l’unione fra filosofia e insegnare vivere, che ha trovato nella fenomenologia un terreno estremamente ricco. Io sono e voglio essere un clinico, però ho avuto la grande fortuna di respirare l’atmosfera fenomenologica e di aver avuto un amico come Minkowski che è stato un grande filosofo e psichiatra.

Qual è quindi il suo rapporto con la psichiatria fenomenologica e quale invece quello con la psicoanalisi?

Debbo fare una premessa: io voglio cambiare l’uomo. Da me vengono persone che stanno male, che desiderano stare meglio e chiedono il mio aiuto. Io sono un operativo e in questo sono un empirico, per questo voglio fare qualsiasi cosa per poter aiutare. Naturalmente non mi propongo mai, ma quando interpellato cerco di rispondere sempre. La fenomenologia è una filosofia straordinaria. Io ho conosciuto dei fenomenologi, per esempio Cargnello, che avevano anche responsabilità di cura. Le posso dire che con la fenomenologia non è facile curare perché è troppo lontana dalla clinica che è empirica, mentre la fenomenologia è molto teorica. Molti mi dicono che sono un fenomenologo, ma io sono un clinico, un empirico, uno che vuole far star meglio, uno che vuole essere-con per far star meglio colui che gli sta vicino. Le mie radici sono nella fenomenologia, ma le mani vanno in una disciplina scientifica, perché ho bisogno di strumenti per agire.
Per quanto riguarda la psicoanalisi è inutile che stiamo a discutere l’importanza di Freud e il suo apporto storico. Ma sono molto critico rispetto alla psicologia dell’Io. Il principio freudiano per cui se una persona presenta delle anomalie occorre trovare la radice dentro di lui… beh su questa convinzione sono molto critico perché l’io è una finzione, mentre credo nel Noi. Se colui che ha i conflitti, invece di guardarlo solo dentro lo metto in relazione con un’altra persona, questi in relazione cambia.
Io sono un clinico che ha bisogno della scienza (mi sono dedicato per molti anni in laboratorio allo studio del cervello). Sono un clinico tradizionale però con strumenti attuali. Mi spiace dover dire che di clinici oggi non ce ne sono più e per questo la psichiatria è in una crisi spaventosa. Ma oggi bisogna aiutare l’uomo. Un valido ausilio a questo può venirci da un filosofo come Schopenauer che nell’Ottocento ha capito cose molto utili anche all’uomo d’oggi, nella crisi del tempo presente.

Qual è il suo parere su Franco Basaglia?

È molto semplice. Basaglia è sicuramente un uomo della storia. Non ho simpatia per tutti quelli che ne fanno un uomo del presente. Nella storia ha un significato preciso e storicamente apprezzabile. Ho conosciuto molto bene Basaglia. Non sono mai andato in piazza per lui, ma l’ho sempre rispettato. Da lui nasce lo stimolo per una legge (legge 180, ndr) che io ho seguito. Il primo ottobre 1980, giorno in cui venivano chiusi i manicomi, cioè non vi entrava più nessuno, io ho lasciato il manicomio dove in fondo ero un personaggio di significato e sono andato rispettando la legge 180. Basaglia, essendo un grande trascinatore, ha messo in moto un movimento che ha contribuito a dare una svolta alla psichiatria, anche se è stato più nel chiudere senza sapere cosa aprire. Nel mio libro Un secolo di follia (1991) a Basaglia ho dedicato quindici righe perché io credo nella psichiatria scientifica. Credo nel come si debba fare la psichiatria, credo quindi nella scienza. Per esempio, Cesare Lombroso oggi non è accettabile, ma storicamente è un grandissimo autore. È un uomo della storia. Perché dicendo che il matto, il criminale, ha una degenerazione cerebrale ha allontanato gli spiriti del male. La donna delinquente (saggio di Lombroso, ndr) è certamente un libro che oggi va condannato, ma che storicamente ha allontanato questa dominanza del male e poi fino ad allora il cervello non lo studiava nessuno, perché c’era l’anima da qualche parte, mentre lui ha detto che tutto va riportato al cervello. Oggi sembra ridicolo perché è noto, però storicamente è stato importante. Nell’ambito della psichiatria scientifica, con radici nell’umanesimo e nella fenomenologia, Basaglia non ha tanto spazio, però storicamente è stato il protagonista di un mutamento storicamente utile. Quindi merita alcune righe nella storia.

Qual è il suo rapporto con la religione e in particolare con il Cristianesimo? Secondo lei la vita può avere un senso al di là della fede in Dio?

Il tema della religione meriterebbe un ampio spazio di riflessione e dialogo. Vi sono due punti di riferimento circa le mie considerazioni in merito. Primo: il libro Il sacro di Rudolf Otto, del 1917, il quale dice che nell’uomo, oltre alle categorie della razionalità, ci sono delle categorie per quello che è il mistero, il sacro. Tutti gli uomini hanno le categorie per percepire il sacro, che è mistero, senso del limite, tutto ciò che si lega alla morte. Otto dice che il religioso è la risposta che si tende a dare del sacro. Il sacro avverte il mistero della morte, la religione dice che invece c’è il paradiso, o il Nirvana, o le metempsicosi, o il nulla. Io credo veramente che esista il sacro e che le religioni siano dei tentativi di risposta.
Il secondo pilastro è la figura di Gesù di Nazareth. Indubbiamente tra i grandi della storia e forse il più grande uomo che io conosca storicamente, persino più di Socrate, Platone, Montaigne. Io l’ho studiato come uomo e l’ho trovato grande come tale. Se poi c’è qualcuno che dice che è anche Dio, sarà ancora di più. Ma io mi occupo di uomini… e certamente lo ascolterei.
Altro punto di riferimento è la Chiesa, della quale non amo il culto e non condivido diverse espressioni, ma della quale ho comprensione. La Chiesa è una struttura molto umana che si è attaccata a Gesù e che penso a Gesù non piaccia molto. L’immagine e l’esempio di Papa Francesco mi piacciono. Amo molto i preti ai quali ho dedicato molta attenzione.
Io sono un non credente nel significato che dice che non ho l’esperienza di Dio, che non l’ho mai incontrato. Se Dio venisse a trovarmi, dopo aver fatto le debite ricerche, certamente la mia vita cambierebbe, probabilmente diventerei un credente. Non sono ateo e ho rispetto per quelli che credono (anche questo fa parte del Noi). Sono un non credente, ma pronto a credere se avessi l’esperienza di Dio.

Alessandro Tonon

[Immagine tratta da Google Immagini]

È meglio viaggiare tra le stelle o nel profondo dell’anima? Jung risponde

Per quanto la missione europea ExoMars non sia perfettamente riuscita, rimane comunque vero che imprese come questa confermano ogni giorno di più l’impressione che la rotta sia ormai tracciata: il pianeta Terra al­l’uo­mo non basta più, ed è quindi arrivata l’ora di incominciare a pensare a una nuova dimora per l’umanità. Le prospettive e gli scenari che si stanno aprendo sono senz’altro emozionanti, ma non tutti guardano con entusiasmo all’avventura che la specie umana si accinge a compiere nello spazio profondo. Pochi mesi prima di morire, Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, dichiarò ad esempio in un’intervista: «i voli spaziali sono solo un’eva­sio­ne, una fuga da noi stessi, perché è più facile andare su Marte o sulla Luna che non penetrare il proprio essere». Era il gennaio del 1961; appena otto anni dopo l’uomo avrebbe mosso i primi passi sulla superficie lunare con la missione Apollo 11.

La frase di Jung può, oggi come allora, destare qualche perplessità, ma non bisogna pensare che il famoso psicologo svizzero fosse un uomo incapace di guardare al futuro. Il percorso che Jung intende proporre all’Occidente non è infatti alternativo rispetto a quello già imboccato dal progresso tecnico e scientifico, ma è piuttosto un sentiero complementare a esso: egli sta suggerendo al­l’uo­mo moderno di ricordarsi di viaggiare nel profondo della propria anima, oltre che tra le stelle del cielo. Ciò che Jung cerca di dire a tutti noi è che c’è un mondo – anzi, un vastissimo universo – da esplorare non solo al di sopra delle nostre teste, ma anche all’interno della nostra stessa mente. Secondo Jung, infatti, «l’anima contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l’universo con [tutte] le sue galassie», e solo scoprendo che cosa alberga all’interno di sé, l’uomo potrà veramente esprimere tutte le proprie potenzialità.

Jung, nel corso della sua lunga e fortunata carriera, ha scritto letteralmente fiumi di parole per cercare di descrivere le infinite costellazioni che ognuno di noi (e l’umanità nel suo complesso) porta nel proprio intimo. «È [proprio] questo» – egli afferma – «che intendo per psicoanalisi: scandagliare l’anima alla ricerca dei fattori psicologici nascosti». Si può senz’altro dire che egli sia stato l’autore di una delle teorie sulla psiche più profonde e ardite che siano mai state concepite. A differenza di Freud, che riteneva che l’inconscio fosse «soprattutto materiale rimosso, una sorta di discarica per le esperienze spiacevoli», Jung credeva che esso fosse «un fattore reale, autonomo, capace di agire in modo indipendente [dalla coscienza]». Per Jung, infatti, oltre all’in­con­scio personale individuato da Freud, che è diverso per ognuno di noi perché consta delle esperienze negative e traumatizzanti che abbiamo cercato di rimuovere e censurare, esiste anche un inconscio collettivo, che è identico per tutti gli esseri umani.

Tale tipo di inconscio è popolato dagli archetipi, che sono a tutti gli effetti dei ‘fossili psichici’, ovvero esperienze umane universali che, con il passare di innumerevoli generazioni, si sono cristallizzate e sedimentate nella struttura mentale della nostra specie. Scrive Jung: «così come l’essere umano ha un corpo, che in linea di principio non si differenzia da quello degli animali, anche la sua psicologia possiede per così dire dei piani inferiori, nei quali dimorano ancora gli spettri di epoche passate dell’umanità, come le anime animali del periodo del­l’an­tro­popi­teco, poi più in basso la ‘psiche’ dei sauri a sangue freddo e, infine, al livello più profondo, il mistero trascendente e il paradosso dei processi psicoidi del [sistema nervoso] simpatico e […] parasimpatico».

Jung sottolinea spesso che gli archetipi sono entità cariche di energia psichica, che, se viene sfruttata nel modo corretto, può portare gli uomini a conseguire grandi risultati, ma, se non viene adeguatamente espressa e incanalata, può portare la psiche umana a ‘ristagnare’ e a marcire, o anche ad andare in ‘corto­cir­cui­to’ e a incendiarsi, ossia a cadere preda della follia. Si può in questo senso paragonare l’inconscio a una pentola a pressione, che, se usata con saggezza, può cuocere a dovere quanto viene messo al suo interno e produrre così del buon cibo, ma, se viene ‘scoperchiata’ al momento o nel modo sbagliato, può esplodere e distruggere in un istante non solo la mente dei singoli, ma anche quella di interi popoli, se a ‘saltare in aria’ è non l’inconscio personale ma l’in­conscio collettivo.

«L’inconscio collettivo», sostiene Jung, «è più pericoloso della dinamite, tuttavia c’è il modo di maneggiarlo senza correre troppi rischi». Le attività artistiche, religiose e culturali permettono infatti al­l’e­­ner­gia contenuta negli archetipi di defluire verso la coscienza nel modo corretto, evitando che essa si accumuli in quantità eccessive per poi deflagrare all’improvviso in forma vulcanica e violenta. Proprio per questo, secondo Jung, dovremmo coltivare di più le doti creative che usualmente reprimiamo e teniamo nascoste: ciò, infatti, permette al nostro organismo di ripulirsi dalla «spazzatura psichica» che conserva al suo interno e di «fare spazio al libero gioco della fantasia».

Lo scopo non è necessariamente quello di esibirsi in chissà quali grandi opere o azioni, ma di trovare una nuova consapevolezza di sé, che si può rivelare anche nell’impegno che mettiamo nelle cose semplici e nei piccoli gesti quotidiani che rendono bella la vita, come preparare il caffè la mattina o piantare un cavolo nell’orto: «volgiamo lo sguardo della coscienza dentro la psiche per scoprire che cosa vi si cela. Cerchiamo di capire che cosa possiamo fare, ciascuno nel suo piccolo. Se pianto un cavolo nel modo giusto, ecco che nel mio pezzettino di orto ho reso un servizio al mondo. Che cosa potrei fare di meglio?».

«L’uomo in pace con se stesso», conclude Jung, «dà il suo infinitesimale contributo al bene del­l’uni­ver­so. Ognuno presti […] attenzione ai suoi conflitti interiori e personali e avrà ridotto, [anche se solo] di un milionesimo di milione, la conflittualità del mondo». Come a dire che se vogliamo veramente avere cura dell’universo e del pianeta che abitiamo, dobbiamo innanzitutto partire da noi stessi. In fin dei conti, anche sbrigare qualche faccenda nel nostro giardino o fare una carezza a chi ci vuol bene è un modo per esplorare e conoscere un po’ meglio il firmamento infinito che ci avvolge e ci ospita.

Gianluca Venturini

Sono nato a Treviso nel “lontano” 1989. Al Liceo Berto di Mogliano Veneto ho scoperto la filosofia. Fu in qualche modo amore a prima vista, ma non potevo immaginare che da lì a qualche anno sarebbe diventata una delle grandi “luci” della mia vita. Stregato dalla profondità inaudita dei pensieri che scaturivano da tale disciplina e conquistato dalla grande libertà intellettuale che essa rendeva possibile, decisi di seguirne le tracce iscrivendomi all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove mi sono laureato prima in Filosofia nel 2011 e poi in Storia nel 2013. Attualmente sto completando gli studi che mi porteranno a conseguire la laurea magistrale in “Filosofia della società, dell’arte e della comunicazione”.

BIBLIOGRAFIA:
C.G. Jung, Opere, vol. 8: La dinamica dell’inconscio, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
C.G. Jung, Opere, vol. 14: Mysterium coniunctionis, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
C.G. Jung, Jung parla. Interviste e incontri, a cura  di W. McGuire e R.F.C. Hull, trad. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2009.

“Solo per pazzi” -essere uomo, essere lupo

Fosse profonda saggezza o schietta ingenuità, chi sapeva vivere così nell’attimo fuggevole, chi abbracciava così il presente e sapeva apprezzare ogni piccolo fiore sul margine della via, ogni piccolo valore dell’istante che fugge, doveva certo dominare la vita.

Leggere un libro talvolta aiuta a vedere le cose della vita da un’altra prospettiva e permette di entrare in contatto con se stessi attraverso la riflessione che le parole, via via susseguendosi, scatenano.

Alcuni libri possono cambiare la vita perché scavano nel profondo Io, arrivando a toccare la coscienza, risvegliando antichi sentimenti, sensazioni sopite, nascoste, dimenticate, dando voce alle immagini della nostra fantasia.

Il lupo della steppa di Hermann Hesse è uno di quei testi che entrano dentro, scivolano nell’anima e diventano un tutt’uno con essa.

Soltanto per pazzi’, ci dice Hesse prima che iniziamo a leggere il suo libro. Una dedica insolita che mi ha subito fatto pensare che lo scrittore avesse scelto il suo pubblico, sapendo già che solo dei “pazzi” avrebbero potuto calarsi nei panni del protagonista Harry.

Ma come non immedesimarsi in questo personaggio così attuale?

Un uomo bloccato e condizionato da un senso di impotenza che non gli permette di essere felice, caratterizzato da un profondo dissidio interiore tra la razionalità umana (ordine, cultura, spirito) e l’istintività del lupo (caos, passione).

Un contrasto che porta all’isolamento totale perché si vede l’impossibilità di riconoscersi nella società e di essere riconosciuti dalla stessa, in quanto essa limiterebbe la libertà di spirito dell’uomo e del suo essere una molteplicità di Io diversi.

Da quando lo scrittore “ci dà in mano” il manoscritto del protagonista “Memorie di Harry Haller” e il personaggio inizia a parlarci in prima persona di come un giorno qualunque, avesse sentito il

desiderio selvaggio di sentimenti forti,

per uscire dalla solita routine, non possiamo fare a meno di entrare in piena empatia con lui.

Il lettore, infatti, da questo momento inizia il viaggio attraverso la sua coscienza, alla ricerca del lupo che interiormente gli appartiene, cercando di capire chi esso sia.

Nel lupo della steppa avveniva questo: che nel suo sentimento faceva ora la vita del lupo, ora quella dell’uomo, come accade negli esseri misti, ma quando era lupo, l’uomo in lui stava a guardare, sempre in agguato per giudicare e condannare… e quando era uomo il lupo faceva altrettanto […] Specialmente molti artisti appartengono a questa categoria. Costoro hanno in sé due anime, due nature, hanno un lato divino e uno diabolico, e le loro capacità di godere e di soffrire sono così intrecciate, ostili e confuse tra loro come in Harry il lupo e l’uomo.

Un contrasto che vive anche l’uomo moderno, tra la rigidità delle condizioni imposte o scelte attraverso un gioco di morali condizionanti, e la necessità di essere animale, di vivere l’istinto, di seguire l’odore, la sensazione…l’indipendenza.

Eppure, è un circolo vizioso: quando il lupo raggiunge questa autonomia (o libertà), si rende conto che essa stessa è per lui una condanna, in quanto innaturale e questo lo porta all’isolamento perché nessuno, se non un pazzo, ha la capacità di condividere la sua vita siffatta.

Trovare un compromesso tra le due parti? Certo, sarebbe la soluzione per vivere nella coerenza con se stessi e con gli altri, ma l’uomo non può farlo perché è un essere in continuo divenire

è un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito, tra l’uomo e il lupo

L’uomo si trova, dunque, condannato a vivere nella società, immerso negli stereotipi del perbenismo che spesso sfociano nel qualunquismo, cercando la via di mezzo tra gli opposti che lo contraddistinguono.

Eppure nella vita arriva sempre il momento in cui ci si ritrova a fare i conti con se stessi e ad uscire, volenti o nolenti, dagli schemi, a liberare il lupo che è ingabbiato dentro di noi, come per il protagonista Harry che da un momento all’altro, grazie all’incontro fortuito con Hermine, si ritrova a vivere di istinto, di sensazione, di emozioni semplici ma forti: mangia, beve, balla, ride come non faceva da moltissimo tempo e solo grazie a lei.

Hermine è una donna non colta ma molto astuta che vive di passione e istinto ed è in grado di capire Harry dal primo sguardo e di scorgerne i suoi desideri più nascosti.

Questa Hermine l’ho avvertita come un grandissimo occhio che mi ha osservato mentre la leggevo, mentre cercavo di catturarla con l’immaginazione senza però riuscirci; è un personaggio che ci fa vedere, nelle lacerazioni di Harry, i nostri conflitti interiori che, anche se non lo vogliamo ammettere, ci appartengono.

Nonostante questa scoperta, o meglio, il riconoscere il nostro oscuro dualismo, riusciamo alla fine a trovare la via della salvezza proprio seguendo passo passo tutte le contorsioni positive e negative della vita di Harry: egli stesso comincia a capire che la soluzione risiede solo nella forza dell’umorismo, nel prendere la vita per quello che è, un gioco.

Lei deve imparare a ridere, questo è richiesto. Deve comprendere l’umorismo della vita, l’allegria degli impiccati. Deve imparare ad ascoltare questa maledetta musica della radio della vita e ridere di questo strimpellio.

E proprio alla fine di questo viaggio, il lettore, insieme ad Harry, si ritrova pronto per la vita, per affrontarla al meglio perché conosce ormai le regole del gioco e le sue contraddizioni; infatti, dopo l’excursus nel magico teatro solo per pazzi, Harry si rende conto che solo l’umorismo è la chiave di svolta per soprassedere la rigidità delle convenzioni e delle regole, perché

Vivere nel mondo come se non fosse il mondo, rispettare la legge standone al di sopra, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non ci fosse rinuncia: tutte queste esigenze si possono realizzare unicamente con l’umorismo.

Essendoci questa via d’uscita positiva dal mondo della ‘steppa’, Hesse ci tiene a precisare che il libro non tratta la storia di un uomo disperato, ma della guarigione dalla disperazione di un uomo che ha saputo credere nel potere della casualità e si è fatto trasportare dalla passione, riuscendo a capire in extremis che la felicità non può essere data dal rinnegare il proprio dualismo ma dall’assecondarlo.

L’insegnamento forte da trarre da questo capolavoro è che di fronte alla complessità della vita, nelle sue infinite contraddizioni, tra gioie e disgrazie, non bisogna mai prendersi troppo sul serio, perché l’uomo stesso è contraddittorio, caratterizzato da infiniti Io, infinite personalità diverse ed opposte tra loro e solo se si è consapevoli di questa condizione si riuscirà a vivere serenamente.

A colui che abbia visto la scissione del proprio io facciamo vedere che può ricomporre i pezzi in qualunque momento e nell’ordine che più gli aggrada, raggiungendo in tal modo una varietà infinita nel gioco della vita. Come il poeta con un pugno di personaggi crea un dramma così noi con le figure del nostro io sezionato costruiamo gruppi sempre nuovi con nuovi giochi, nuove tensioni, nuove situazioni. (…) La figura che oggi diventa insopportabile, domani sarà secondaria e innocua. La cara figurina che per un po’ le è parsa condannata alla disdetta, nel gioco successivo la farà principessa. Buon divertimento!

Valeria Genova

[citazioni dal testo Il lupo della steppa di Hermann Hesse]

Gilles Deleuze, a vent’anni dalla morte

A 20 anni dalla morte di Gilles Deleuze poco è cambiato sulla scena della filosofia mondiale, in questo ultimo ventennio ha soffiato un vento rarefatto e non si sono registrati epocali novità.
Del postmoderno si dice spesso che sia l’epoca delle citazioni, destinata a vivere guardando indietro; a questo riguardo Deleuze fu un pensatore che seppe andare controcorrente, non risparmiandosi una metodica schizofrenica sperimentazione: egli fece di una solida formazione da storico della filosofia non una zavorra, ma un trampolino, avendo a disposizione per questo scopo un armamentario di concetti e concezioni, di cui, come utensili del mestiere, sapeva servirsi.

Fu tra i primi negli anni ‘60 a liberare Nietzsche dall’ombra del nazismo, lo rese attuale, dandone una lettura coerente, sistematica e parecchio convincente. Ne mostrò il potenziale intrinseco, il non detto, l’ombra, proprio là dove si pensava di aver già detto tutto ciò che c’era da dire.
Da giovane professore universitario guidò a posteriori il ’68 oltre le mere rivendicazioni che premono a chi ha da poco acquisito un certo potere, sapendogli dare la forma di un Evento, una veste filosofica, salvandolo forse da quel macello di buone intenzioni chiamato Storia.

L’opera paradigmatica del suo rapporto con i moti del ’68 fu l’Anti-Edipo, scritta a 4 mani con l’amico Felix Guattari: questa ha come avversario teorico la psicoanalisi, vista come scienza dedita alla forzata reintroduzione del complesso edipico come norma dell’inconscio, quando questo è invece libero e creativo. Detto altrimenti, secondo i due autori lo psicanalista ha il compito di riportare ogni problema del paziente alla dimensione mitico-parentale, pur facendo salti mortali e improbabili congiunzioni.


“La fuga schizofrenica stessa non consiste solo nell’allontanarsi dal sociale, nel vivere ai margini: essa fa fuggire il sociale attraverso la molteplicità dei fori che lo rodono e lo trapassano, sempre in presa diretta su di esso, sempre in atto di disporre ovunque le cariche molecolari che faranno saltare quel che deve saltare, cadere quel che deve cadere, assicurando in ogni punto la conversione della schizofrenia come processo in forza effettivamente rivoluzionaria”

Per una filosofia tesa ad esaltare la forza dell’uomo e le sue capacità inesplorate, tutto ciò che inibisce, riporta alla colpa o “sgrida” è da evitare in quanto oppressivo strumento del potere. In quest’ottica la tristezza non ha nessuna dimensione nobile, niente di intelligente: chi si intristisce vede perdere ogni energia e se non riesce a spezzare il circolo vizioso ne rimane sopraffatto.
Così lo schizofrenico viene preso come modello di libera esteriorizzazione delle pulsioni, perché nessun pensiero viene trattenuto o filtrato, ma in esso tutto fluisce libero.

Non manca del tutto il bersaglio la critica secondo la quale gli autori, Deleuze in particolare, non avessero la minima conoscenza diretta di uno schizofrenico. Guattari, avendo invece collaborato con la clinica psichiatrica La Borde, aveva avuto probabilmente la possibilità di una conoscenza meno mediata.
Questa creatura letteraria viene in fretta marginalizzata -anche a causa della difficile incomprensibilità di certi passaggi- e vissuta dai due autori come una vera e propria sconfitta.
Deleuze abbandona progressivamente la riflessione politica e non ne dice più nulla di significativo se non in maniera indiretta. La riflessione viene a concentrarsi su altri temi e altri autori.

In seguito alla morte di Guattari nel ’92, Deleuze affermerà di sentirsi come se avesse perso una parte del proprio corpo e il 5 Novembre 1995, Gilles Deleuze si toglierà la vita defenestrandosi in seguito a problemi respiratori.
Francesco Fanti Rovetta

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