Scelte contemporanee e ruolo dello psichiatra

Alcune implicazioni etiche inerenti questioni di inizio e fine vita e altri aspetti fondamentali dell’esistenza umana hanno assunto una grande rilevanza nel dibattito culturale attuale, soprattutto in relazione a sviluppi del quadro legislativo possibili o già attuati.

Il diritto all’autodeterminazione, il consenso informato ai trattamenti attuali e futuri, le disposizioni anticipate di trattamento, il diritto alla riservatezza, la responsabilità medica, l’eseguibilità di procedure mediche, sono questioni che necessitano del coinvolgimento di figure professionali che possano connotare in senso strettamente bioetico la complessità delle problematiche considerate. In tali contesti è fondamentale garantire la presenza di un gruppo di lavoro interdisciplinare che abbia le qualifiche e le competenze necessarie non solo per la valutazione degli aspetti strettamente scientifico/metodologici, ma vi sia anche una certa attenzione al profilo etico. Il nucleo di esperti comprende: clinici, personale infermieristico, farmacologi, un esperto in materia giuridica, un bioeticista, ecc. Tra le figure coinvolte, spesso non compare quella dello psichiatra fondamentale per la valutazione di un eventuale disagio psichico.

Non è possibile affrontare problemi come l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, l’inseminazione eterologa, l’interruzione di gravidanza ed altri ancora, senza sapere che queste tecniche o interventi necessitano spesso di una valutazione relativa alla salute mentale dei soggetti coinvolti, che deve essere una conditio sine qua non della scelta etica del paziente.

Questo non significa che ogni paziente debba sottoporsi a una consulenza psichiatrica, ma è importante che l’équipe medica che ha in carico il paziente come persona, e non solo come entità biologica, se lo ritiene necessario, prenda in considerazione la possibilità di una valutazione psichiatrica.

Se è vero che riguardo questioni bioetiche il parere del medico psichiatra non è di per sé più importante di quello di qualunque altra figura professionale – non esistono infatti elementi significativi per ritenere che uno psichiatra sia più competente di altri rispetto a un giudizio sui principi che ispirano le scelte bioetiche, spesso comprovati da istanze culturali e religiose che fanno riferimento alla vita del soggetto –, è vero però che ognuna delle aree eticamente critiche include aspetti in cui la professionalità dello psichiatra dovrebbe essere chiamata in causa. In particolare, mi riferisco a tutti quei presupposti psichici o psicopatologici che non solo orientano le scelte etiche, ma ne determinano successivamente le conseguenze psichiche o psicopatologiche.

A questo riguardo, quindi, l’opinione dello psichiatra dovrebbe essere chiamata a dirimere alcune potenziali criticità, quale, prima tra tutte, quella riguardante la “libertà di scelta” del soggetto affinché, nel momento della sua espressione, sia realmente libera e consapevole, non condizionata o compromessa da condizioni di natura psicopatologica.

La realtà è che molto spesso, invece, l’opinione dello psichiatra non è ricercata, nel tacito presupposto che la scelta dell’individuo abbia un valore assoluto, indipendentemente dal suo stato di salute mentale o da condizioni che possano influenzarne decisioni e portare a condotte che non rispecchiano il vero sentire della persona stessa.

È necessario favorire una riflessione a livello culturale, prima ancora che clinico, sulle criticità bioetiche a cui le competenze del medico psichiatra può apportare il suo contributo, di fatto oggi spesso non ricercato e non offerto, ma che può rivestire un ruolo fondamentale nella considerazione delle angosce e delle speranze che possono condizionare le varie scelte. Ritengo quindi fondamentale stimolare la presenza della psichiatria, intesa come disciplina che si occupa del mondo interno dell’uomo, anche se prevalentemente nel suo aspetto patologico, come interlocutrice di grande rilevanza nel dibattito bioetico contemporaneo.

 

Silvia Pennisi

 

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Intervista a Eugenio Borgna: tra psichiatria e filosofia

Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).
Ho l’occasione di incontrare il professore successivamente al suo intervento al Festival di Pordenonelegge. Si concede alle mie domande e ai microfoni dei miei due gentili colleghi e amici. Ci accoglie con la cordialità e la pacatezza dei gesti che lo contraddistinguono in ogni sua manifestazione, sia essa scritta o orale e con la coerenza di chi cerca di vivere i valori dei quali si fa portatore. Al termine di ogni domanda si sincera di aver esaudito le mie richieste. Una delicatezza autentica, di un uomo di grande cultura e profondità spirituale, che nella propria esistenza ha scelto di condividere la sua straordinaria sensibilità e umanità per avvicinare le ferite dell’anima ed alleviarne le sofferenze, attraverso l’ascolto, la comprensione e l’empatia.

Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che «conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre. Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

[Immagine tratta da gazzettadimantova.gelocal.it]