Ispirazione, interruzioni e scelte. Sull’impotenza progettuale dell’eccesso

Ispirazione. Questione alquanto dibattuta nel mondo artistico e quasi mai compresa al di fuori di esso, potrebbe essere definita, forse un po’ rozzamente, come un cartello ad un bivio, come il  motivo forte di una scelta. Come ciò che, finalmente, ci smuove. E smuovere è più che muovere, poiché  presuppone una situazione di precedente stallo.

Si racconta che, nel 1967, niente meno che l’architetto Carlo Scarpa, convocato all’ultimo minuto da  due colleghi per l’allestimento italiano per l’Expo di Montreal previsto per quell’anno, sollecitato a  dare una risposta in tempi brevissimi, abbia detto loro qualcosa come: “Non lo so, forse domani mi  viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”1. A tal proposito, si potrebbe forse affermare: questione di “ ispirazione ”.
Ecco, queste parole di Scarpa, forse il più grande architetto d’Italia del secolo passato, potrebbero  tornare utili per una riflessione intorno alla progettazione, a più di mezzo secolo di distanza – una progettazione intesa in senso ampio, che non vuole riguardare solo l’ambito artistico ma, più in generale,  quello della vita

Viviamo nell’era dell’abbondanza. L’attuale surmodernità – Marc Augé battezza con tale termine l’epoca contemporanea – è, per definizione, opulenta ed eccessiva, qualcosa di tracotante: «È dunque attraverso una figura dell’eccesso […] che si  può cominciare a definire la condizione di surmodernità» (M. Augè, Nonluoghi, 2009). Un altro pensatore che avalla la condizione  di odierna “abbondanza” – in primis, abbondanza di reti sociali e di risorse artificiali – è il filosofo  Byung-Chul Han, che parla di depressione e burnout, le due nuove malattie del secolo, come causate  da un eccesso:

«Si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. […] La violenza della  positività [è] derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione» (B.C. Han, La società della stanchezza, 2020). 

All’interno di questa cornice, viviamo, anche, nell’era dei “big data”: dati non di per sé grandi e rilevanti, ma tanti. Tantissimi. Grandi masse di dati che, assieme con l’ovunque diffusa sovrainformazione, sono indiscutibilmente utili in molti ambiti, inequivocabilmente troppi se si parla di progettualità e progettazione.
Difatti, pensare che da una situazione sovrainformata o sur-dataistica – ovvero costituita di una quantità smoderata ed apparentemente infinita di dati – possa nascere in automatico un progetto è come  pensare che da un’orgia di impotenti possa nascere una creatura: piuttosto difficile. L’abbondanza non  sempre è sinonimo di fertilità

Riassumendo, si potrebbe affermare che l’odierna sur-modernità, più che nel passato, ci allontana dal fare e compiere delle scelte. La sovrainformazione mediatica, poi, nasce anche dall’infinita disponibilità di spazio per lo stoccaggio e per l’archiviazione: spesso non ci curiamo della rilevanza delle informazioni proprio perché tanto si tratta solamente di qualche kilobyte in più – che sarà mai? Ecco, allora, che il nostro “archivio mentale” assomiglia sempre più a quell’orgia infeconda. Insomma, direbbe Jason Bourne: «Cerca di capirmi: devo sapere alcune cose. Non tutte: tante quante ne bastano per prendere una decisione» (R. Ludlum, The Bourne identity, 1980).
Alla base del progetto, infatti, c’è sempre una scelta. E la scelta, sin dalla sua etimologia, sta a rivendicare l’atto del separare: la scelta presuppone dei rifiuti, delle negazioni e degli scarti. Prendere delle decisioni – ovvero, in termini minimi, progettare – significa compiere delle scelte, così discernendo e separando l’enorme, e di per sé inutile, montagna dataistica ed informativa. Lo scegliere ci costringe a dei bivi che, uno dopo l’altro, ci fanno fare a fette l’immensa mole dei dati che ci si parano di fronte – ché questi, da soli, non porterebbero ad alcunché.

Cosa ci smuova di fronte a questi bivi è ancora, in realtà, incerto. A quanto pare, perlopiù nel mondo artistico, alcuni la chiamano “ ispirazione ”. Sta di fatto che c’è di mezzo il concedersi del tempo proprio, del tempo-con-sé.
Riprendendo Paul Valéry, la scelta inizia con un’interruzione: interruzione rispetto al flusso e rielaborazione critica – e quindi progettuale – dei dati a disposizione. E l’ispirazione prende le mosse da un’interruzione: essa è più simile ad un rebus dentro di noi (fenomeno interiore) che ad una folgorazione dal cielo sopra la nostra testa (fenomeno esteriore).

E a qualcuno che dovesse ancora chiedere cosa si intende la parola ispirazione, allora, dovremmo modesta- mente rispondere: “Non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”.

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore

 

NOTE
1. Cfr. O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, in DISEGNARECON n. 3 – Codici del Disegno di progetto. Appunti di  studio, Vol. 2, 2009, p. 6.

[Photo credit Shane Rounce via Unsplash]

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Nuovi Eden, o di un’estetica dell’attesa

Da studenti di architettura una delle questioni che più si sente ripetere è quella del significato più proprio del progettare: l’architetto non è colui che costruisce ma è colui che indica come farlo. Per questo “progetta”, ovvero pro-iecta cose future (dal latino: pro-iectum, “gettare avanti”). A parer mio l’implicazione più importante del significato etimologico del pro-iectum è che l’architetto è colui il quale, innanzitutto, sa pazientare. In primo luogo, pro-gettare significa dare importanza all’attesa, e la variabile di cui troppo spesso ci si dimentica è il tempo. Difatti, se lancio qualcosa di fronte a me devo come minimo poi darmi il tempo di percorrere lo spazio che ora mi distanzia da essa. La vera implicazione del latinismo in questione è che il progetto è una questione temporale. Il progetto è tempo dell’attesa.

Una delle riflessioni recenti più interessanti a riguardo la fa Byung-Chul Han che, parlando di giardini, afferma: «Rifletto sulla mano del giardiniere. […] È una mano che […] attende, una mano paziente. […] Guarda in lontananza» (B.C. Han, Elogio della terra, 2022).
La mano del giardiniere non ci sembra quindi molto diversa da quella dell’architetto: entrambe sono mani che “guardano in lontananza” e, nel farlo, pazientano. O così dovrebbero. Invece, spesso al giorno d’oggi si guarda al progetto solamente con gli occhi del presente. Il “gettato avanti” del pro-iectum diventa così qualcosa che ci cade sui piedi. Il “tutto-e-subito” è un mantra all’interno dell’odierna società della prestazione, che Han definisce stanca (cfr. B.C. Han, La società della stanchezza, 2010). Siamo troppo stanchi per “gettare avanti”.
Una nuova tendenza si sta però delineando. Date le premesse del riscaldamento globale e dell’avvenuto salto qualitativo nelle sensibilità ambientale ed ecosistemica, l’architettura odierna cerca salvezza. Basti pensare ai progetti per il Porto Vecchio di Trieste di Alfonso Femia (2022), a quello di ingente piantumazione lungo il Boulevard Périphérique di Parigi (2022), alla Liuzhou Forest City di Stefano Boeri (2017). Qui ed ora, nuovi Eden vanno cercandosi – e costruendosi.

Una delle profetiche voci di questa generale riforestazione è quella di Gilles Clément. Agronomo e paesaggista, si autodefinisce “giardiniere” ed è diventato famoso con il suo Manifesto del Terzo paesaggio (2004), oltre che con progetti come il Parc André Citroën di Parigi (1985) [che è foto di copertina di questo articolo]. Più che questo primo testo però, ne ritorna qui utile un altro, il suo Giardini, paesaggio e genio naturale (2012), nel quale ci rende consci dell’importante variazione di paradigma estetico che stiamo attraversando:

«Dobbiamo […] liberarci dell’assurdo contratto […] per cui il paesaggista (o il giardiniere) sareb-
be garante d’un paesaggio definitivo […]. Alla consegna del suo lavoro, il paesaggista sa che il giardino comincia» (G. Clément, Giardino, paesaggio e genio naturale, 2013).

Infine, si chiede: «Nel corso del tempo, cosa diventa la sua forma?» (ibidem).
La domanda che si pone Clément è significativa: nell’odierna inversione gerarchica tra natura e costruito è in corso anche un cambiamento di tipo estetico. Il palcoscenico ruota, e con il litico che passa in secondo piano si prende ora la scena il naturale: viene cioè in primo piano il cangiante, il vivente. Ma che forma possiede questo vivente? Per l’architetto, ciò significa accettare la «natura quale coautrice della sua opera» (ibidem). Attenderla, ed accettare la sua non-staticità ed il suo costante variare.
Clément battezza poi il concetto di “giardino planetario”, un giardino che ha allargato i suoi confini fino a farli coincidere con la superficie del pianeta: ognuno di noi diventa, in questa visione, “giardiniere planetario”, (più) responsabile della nostra comune casa. Architetti inclusi.

***

La mano dell’architetto-a-venire è quindi, molte più volte di quanto non lo sia ora, ferma. Non è un rifiuto del progettare. Invece, è un nuovo approccio al progetto, un nuovo approccio estetico che, più che disciplinare, accetta.
L’architetto-artista del Novecento, che si pone come scaturigine unica del progetto, cede il pennello al nuovo architetto-giardiniere, che lo prende, lo posa, e indugia. Fermo, attende e contempla – il gioco sapiente, a suo modo rigoroso e magnifico della natura nella luce.

 

Tommaso Antiga

 

[Immagine tratta da Google]

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Adolescenti che sfidano la morte

Una sfida tra adolescenti conclusasi tragicamente. L’ennesimo, triste e drammatico, fatto di cronaca avvenuto alla stazione ferroviaria di Parabiago lo scorso martedì – al confine fra le province di Milano e Varese – nel quale Abderrahman El Essaidi, giovane ragazzo di quindici anni, ha perso la vita per raccogliere un accendino che, dalle prime testimonianze, sembra sia stato gettato sui binari del treno da un amico tredicenne che imprudentemente lo voleva sfidare a recuperarlo in rischiose condizioni.

Sfidarsi a sfidare la morte sui binari del treno. Un gesto questo, che come altri – purtroppo ormai quotidiani – ci rivela una crisi esistenziale giovanile che si erge come un disperato e sofferente richiamo alla comunità degli adulti, interpellati a ritrovare il proprio ruolo educativo. Un compito che ha l’obiettivo di ascoltare attivamente il grido che emerge più o meno consapevolmente, più o meno esplicitamente, dalle esistenze lacerate degli adolescenti di oggi, uomini e donne del vicino domani, che testimoniano con questi gesti, solo in apparenza indecifrabili, la fatica nel trovare il senso della propria vita.

Il significato della vita si sviluppa a partire da una dialettica fondamentale, il rapporto con il senso del limite. In particolare il senso del limite per eccellenza, quello estremo per la condizione umana: la morte. Spingersi oltre il proprio limite, costituiva il peccato per eccellenza nella cultura greca. “Conosci te stesso e nulla di troppo” stava scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi. Quel “nulla di troppo” indicava la hybris (dal greco ὕβρις), la tracotanza e ammoniva circa il superamento indebito del proprio limite personale. Radicalizzando, si può parlare di quel limite caratterizzato dall’orizzonte inaggirabile della morte, di quella finitezza che, paradossalmente, dà senso e valore alla vita. E’ proprio alla luce della transitorietà dell’esistenza, della sua temporaneità, che possiamo inondare di senso ogni giorno e ogni ora che viviamo. Mentre, perdere la percezione del limite, persino quella del limite ultimo, implica rendere banale la morte stessa e conseguentemente misconoscere il valore intrinseco della vita. Eppure, la morte e la vita si sorreggono in una danza esistenziale a due, l’una non può fare a meno dell’altra. La vita acquista il proprio senso solo nel momento in cui ci si rende consapevoli che c’è una data di scadenza per portare a termine i propri compiti terreni, ai quali ciascuno è chiamato. Un impegno reale, una responsabilità verso qualcosa o qualcuno: un’opera da realizzare, un altro essere umano da incontrare e amare, un una causa da servire, come per esempio un ideale civile, politico, oppure Dio. Compiti che si configurano come appelli unici e irripetibili che la vita pone a ciascuno nella sua unica e irripetibile situazione esistenziale. Il vuoto esistenziale che abita molti adolescenti di oggi li induce a sfidare la morte forse e paradossalmente proprio per sentirsi vivi. In quest’ebbrezza tragica di approssimarsi alla morte, tuttavia viene meno la consapevolezza che tale sfida non ha vincenti ma solo vinti. Sfidare la morte implica il rischio di restarne inghiottiti, senza alcuna possibilità di rimedio.

È fondamentale ascoltare attentamente i giovani, aiutarli a riconoscere la propria responsabilità unica e irripetibile dinanzi alla loro unica vita, poiché solo così potranno dare risposta al desiderio profondo che li abita, che alberga in ogni uomo, quello di dare un senso concreto alla propria vita. Ecco che la mission educativa degli adulti consiste dunque nel recuperare e testimoniare il senso del mistero della vita, indissolubilmente legato a quello della morte che ne costituisce il limite e la condizione di significato. Quel senso del mistero dal quale emerge la categoria del sacro, che si lega a tutto quanto non è spiegabile razionalmente e che porta con sé il rispetto originario per la vita. A partire da questo, ai giovani va spiegato che la vita pone domande e si attende risposte concrete, ogni giorno e ogni ora, nella concreta, unica e irripetibile situazione storica nella quale ci si trova a vivere. L’esistenza si configura infatti come possibilità di progettare, di mettere a frutto tutto il proprio potenziale umano per realizzare dei valori, che divengono delle mete da raggiungere, dunque delle concrete opportunità di inondare di senso le proprie giornate. Ridestare gli adolescenti dal torpore esistenziale con parole ed esempi educativi che li aiutino realmente a recuperare il senso della propria vita, permetterà di ridurre fenomeni tragici e mortali, fonte di indicibile, ma evitabile, sofferenza. Di fatto, è proprio dove dilaga il vuoto esistenziale, dove la volontà di significato viene frustrata, dove manca un senso, una direzione concreta, che gli esseri umani tendono a fare cose senza senso, come per esempio sfidare la morte.

 

Alessandro Tonon

 

[Credits Albert Laurence su Unsplash.com]

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Nel regno della fantasia: Monica Monachesi sulla mostra di Sarmede

Anche quest’anno Sarmede, piccolo, piccolissimo comune della marca trevigiana, diventa per i mesi autunnali polo della fantasia, dell’illustrazione e dell’immaginazione, popolandosi di artisti internazionali, autori, poeti, atelieristi e narratori, ma anche di visitatori sognatori. Tutto questo grazie alla Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia Le immagini della Fantasia, giunta alla sua 35esima edizione.

Questa annuale magia è resa possibile dalla Fondazione Štěpán Zavřel e oggi chiediamo alla sua curatrice, la dottoressa Monica Monachesi, di condividere con noi alcune riflessioni da cui è scaturita questa mostra e tutte le attività che nei prossimi mesi coloreranno l’iniziativa.

 

La fantasia e l’immaginazione superano ogni confine geografico e storico, ma vanno anche oltre l’età anagrafica. Se questo ci unisce alle persone del presente, passato e futuro e di tutti i popoli, si riscontrano delle diversità culturali nella grammatica dell’illustrazione e del racconto nei vari paesi?

Le rispondo subito così: imprevedibile e stupefacente è l’esito dell’osservazione che ogni anno si conduce sul mondo dell’illustrazione. Questo mondo bellissimo, che ogni volta ci sorprende, è fatto di racconti, è fatto di parole che ci avvicinano, ci dispongono all’ascolto e fanno bene all’anima di grandi e piccoli, qualcosa di cui oggi abbiamo bisogno più che mai. Parole per stare bene dentro e con gli altri. Parole pacificatrici, anche quando generano piccole necessarie rivoluzioni. Io credo che sia proprio questa la chiave di tutto il lavoro che la Fondazione svolge ogni anno attraverso la Mostra: diffondere con gioia racconti dal mondo e per il mondo.
Dare spazio, dare voce a belle storie, far sapere e condividere che la bellezza esiste e fa bene, condividere la consapevolezza rasserenante che, su un foglio prima bianco, su un pezzetto di carta, l’uomo sa creare universi meravigliosi che prima non esistevano, l’uomo sa fare l’impossibile, sa realizzare anche l’utopia; questo si fa attraverso la Mostra.

Poi ognuno può leggerla a modo suo, e questo è l’altro aspetto che dà un risvolto universale e di grande libertà a questo lavoro. Come ogni volta capita per qualsiasi libro, anche la Mostra vive pienamente e in modo sempre diverso in relazione al suo lettore/visitatore. Si tratta di una passeggiata attraverso il libro illustrato, immancabilmente completata dall’interiorità di chi, passo dopo passo, osserva e legge.
Bellissimo, no?

Per questo motivo ogni scelta è fatta con grande attenzione, mettendosi in ascolto del lavoro sviluppato da autori e editori di tanti Paesi. Ascoltiamo e poi organizziamo i contenuti che riguardano l’illustrazione in tre modi diversi: una mostra personale per raccontare il lavoro di un ospite d’onore con cui lavoriamo per quasi un anno, una mostra collettiva per portare lo sguardo sull’editoria internazionale attraverso 30 libri, una mostra tematica, sulla cultura particolare di un Paese o di un’area geografica vista attraverso l’albo illustrato.

 

In particolare quest’anno proponete un’ “immersione” nel mondo un po’ strano ed estremamente interessante del Giappone. Che cosa ci può raccontare in proposito?

Al ritmo di parole come Mukashi Mukashi che vuol dire c’era una volta, nella musicale lingua giapponese e attraverso tre progetti  – anzi quattro – concepiti appositamente per la Mostra, Le immagini della fantasia apre percorsi dedicati all’immaginario di questa straordinaria cultura che ci ha investiti con tutto il suo fascino millenario.
Alla poesia Haiku, fiore della poesia giapponese è dedicata un’antologia di Bashō e Issa, illustrata dagli allievi della Scuola Internazionale di Illustrazione (con le docenti Mara Cozzolino e Linda Wolfsgruber);
alle fiabe tradizionali giapponesi è dedicato il 13° albo della collana Le immagini della fantasia che si intitola appunto Mukashi Mukashi, c’era una volta, in Giappone; alle più terrificanti figure dell’immaginario è infine dedicato un gioco, il Memory Yōkai, mostri e spiriti giapponesi.
Tutti questi progetti sono stati ideati e curati in modo da creare un dialogo genuino con la cultura giapponese, per sillabare assieme a Bashō e Issa immagini del trascendente percepito in attimi di contemplazione del mondo terreno; per rinarrare, attraverso la scrittura di una grande autrice come Giusi Quarenghi, le fiabe più amate dai bambini giapponesi, con piccoli eroi che cambiano il mondo; e per giocare a conoscere quali forme sono state date a paure ancestrali e recenti, disegnate per noi da sei artisti giapponesi, stampate in serigrafia in Italia, confezionate con grande cura e raccontate in un libriccino cucito a mano.

img-intervista-monica-monachesi_la-chiave-di-sophiaPerò ho scritto sopra: – anzi quattro – , perché raggiungiamo il Giappone anche passando attraverso uno specialissimo Torii (portale che si trova davanti ai tempi shintoisti) preparato dall’ospite d’onore Philip Giordano, che ha vissuto sette anni a Tokyo e anni fa passò da Sàrmede per frequentare i corsi estivi come allievo molto emergente. Varcata la soglia che separa il mondo reale da quello immaginario, nella sua mostra Storie dall’Arcipelago sottosopra, l’illustratore si racconta con testi inediti che collegano il bambino Philip al disegnatore/autore di oggi e che ci fanno conoscere alcune delle più belle fiabe giapponesi, come Oshirasama, Urashima Taro, La principessa splendente, confermandoci la passione di Giordano per i lungomentraggi di Miyazake (Nausicaa nella valle del vento, Principessa Mononoke e altri) e dando forti motivazioni alla presenza dell’elemento del viaggio nei suoi ultimi albi illustrati da lui firmati come autore unico.

Riguardo al Giappone c’è anche un quinto punto, anche se non nato appositamente per noi, ma presente nel Panorama dell’albo illustrato: sono presenti in Mostra, nella sezione collettiva, anche cinque illustratori a rappresentare questo ricchissimo mondo con albi tra di loro molto differenti: dagli esilaranti e deliziosi  menu di Yocci a due libri nati in Francia grazie ad un ‘crogiolo italo-nipponico’, come lo ha chiamato l’autore italiano Gabriele Rebagliati che ha visto pubblicati in Francia due suoi racconti illustrati di giapponesi Susumu Fujimoto e Michico Watanabe (Le panier à pique-nique e Tout une vie pour apprendre), fino ad un silent molto giapponese in cui il confine tra mondo animale/naturale e quello umano fluttua o neppure esiste: La visite di Junko Nakamura; e infine altro libro in cui si coglie tutta la speciale relazione con gli oggetti d’uso quotidiano sentita in Giappone: il delicatissimo e toccante  Botan –chan  di Chiaki Okada – lo sapete che per i giapponesi dopo 100 anni gli oggetti d’uso acquistano un’anima? Meglio trattarli bene!

 

In quale senso intendete il libro illustrato, che è uno dei protagonisti della vostra mostra, come “strumento di conoscenza e veicolo di bellezza”?

Forse in parte ho già risposto, ma bene riprendere questo punto. La letteratura è forma di meravigliosa conoscenza dell’umano, e un libro illustrato, nel suo specifico di piccolo grande spazio letterario con immagini rivolto soprattutto ai bambini, ha una valenza pedagogica che Stepan Zavrel vide chiaramente 35 anni fa e coinvolse altri entusiasti estimatori dell’illustrazione, oggi strutturati nella Fondazione Štěpán Zavřel, a costruire un appuntamento che sembrava impossibile, all’insegna della meraviglia. Che cosa voglio dire? Un libro illustrato ha molto a che fare con altre arti, ha molte similitudini con uno spettacolo teatrale, è in qualche modo come uno spazio scenico: davanti ai nostri occhi si muovono personaggi, entriamo in mondi anche lontanissimi lì raffigurati. Mentre guardiamo tutto è possibile e in quel momento siamo ben predisposti alla conoscenza, desideriamo ascoltare ancora e ancora, sono attimi bellissimi che spesso si svolgono anche consolidando relazioni preziose: tra genitori e figli, con altre persone care, a scuola, tra amici. E si diventa più capaci di esprimersi a propria volta frequentando il libro illustrato che ci offre linguaggi su linguaggi, e che cosa c’è di più importante al mondo della capacità di esprimere pienamente se stessi?  Si potrebbe rispondere: “ascoltare gli altri!” e leggendo avviene proprio tutto questo!

 

Altro tema indagato e che da sempre è un filo conduttore delle attività della Fondazione Štĕpán Zavřel e della mostra Le immagini della fantasia è quello della migrazione, un fenomeno quanto mai attuale e generatore di riflessioni. In che modo il vostro festival riflette su tale argomento?

L’immagine del viaggio è usata spesso per raccontare la mostra e a volte rischia di divenire scontata, un semplice ‘volo della fantasia’ di Paese in Paese.
Prendiamo però molto sul serio la fantasia, come risorsa irrinunciabile dell’essere umano, e l’immaginazione da tenere sempre allenata, per aprire strade inattese, e crediamo che nella conoscenza reciproca ci sia molta speranza. Ogni anno raccontiamo ai più piccoli le fiabe dal mondo, per la vocazione di scambio culturale che la mostra ha da sempre e sempre più cerchiamo il dialogo genuino con il Paese ospite, con la sua cultura e con chi la racconta.
Mai come quest’anno in questa edizione il viaggio è esperienza di vita che la letteratura e l’arte visiva trasformano e mettono a disposizione come esperienza estetica e, di conseguenza, etica. Anche nella personale dedicata a Philip Giordano, ospite d’onore dell’anno – di madre filippina che lasciò il suo Paese e padre svizzero – si può leggere il medesimo tema. Questo autore nato e cresciuto in Italia si muove tra Occidente e Oriente e pone nei suoi picture book una tensione serena, piena di speranza e il suo disegno è un mezzo per stare al mondo, per resistere, per rispecchiarsi.

img2-intervista-monica-monachesi_la-chiave-di-sophiaInoltre, in questa 35esima edizione, c’è un gruppo di cinque libri più una piccola esposizione che arriva dal Cile, un punto in cui fare una sosta di riflessione: Pianeta Migrante.
Il fenomeno della migrazione è planetario, non esiste un luogo della Terra che non ne sia interessato. Le illustrazioni di Amélie Fontaine raffigurano persone, cose, strade, recinzioni, muri, ma soprattutto il libro comincia con una domanda: Che cos’è un migrante?

In mostra questo sfaccettato argomento prende luce in modi diversi per raggiungere lettori delle età più varie. Dal ritratto spietato di ciò che accade in mare, e in terra, dipinto da Armin Greder in Mediterraneo, alla rivisitazione moderna del classico di De Amicis Dagli Appennini alle Ande (illustrato da Francesco Chiacchio) che cambia la rotta e diventa Dall’Atlante agli Appennini, fino a Guridi che dall’Andalusia fa nascere un vero e proprio libro dalla suggestione del tema propostogli dalla Mostra e racconta la storia di un bambino che dovendo partire, non si rassegna a lasciare la sua balena rossa, vuole metterla in valigia (Como meter una ballena en la malleta). Il libro parla della forza delle risorse interiori, della creatività che diventa vitale, nella crisi, per la sopravvivenza.

E poi dal Cile arriva una processione di figurine in viaggio, anche loro in valigia, di Francisca Yañez. La parete è brulicante di piccole figure di carta, che sembrano volare, sono in cammino incessante, si muovono piedi, valigie, pensieri, ricordi. Ci sono sguardi da incrociare, vite da immaginare, occhi da ascoltare nel silenzio di un flusso che, mentre osserviamo la mostra, esiste davvero, in più di un luogo, nel nostro pianeta. Al centro ci sono pagine di passaporto che raccontano una storia: quella di Francisca esule dal Cile dittatoriale che con la sua famiglia scappa in Europa negli anni Settanta. Un racconto di chi al viaggio è costretto, di chi cerca di portare con sé un pezzetto di qualcosa, il sapore di un cibo, il profumo di un fiore, la gioia di un gioco.
Figurine di carta che, fatte quasi di niente, nella loro vulnerabilità insistono a raccontare le loro storie per creare empatia e consapevolezza, per cominciare a immaginare un pianeta solidale. Assieme ai Bambini Francisca parla e riflette e poi crea altre figurine: un laboratorio fatto di materiali semplici, ripetibile ovunque, con poco, come la mostra stessa, fatta per poter viaggiare più possibile.

 

Delle proposte culturali del festival ammiro molto i laboratori, che sono aperti a tutte le età: calligrafia, xilografia, acquerello. Quale valore hanno per voi questi laboratori? Per quale motivo la sola contemplazione di un’opera d’arte non è sufficiente?

La sola contemplazione è molto importante e non è affatto messa in discussione, ma semmai confermata da attività didattiche che creano esperienze attorno ai contenuti della mostra. 
Quest’anno abbiamo per esempio proposto la xilografia giapponese e credo che il corso abbia dato la possibilità di un’esperienza molto profonda, un vero viaggio nel tempo assieme a Mara Cozzolino che si reca continuamente in Giappone per specializzarsi sempre di più e per conoscere strumenti e materiali di antichissima tradizione che ancora oggi sopravvivono e danno nuovi frutti.

La parola contemplare che lei ha usato ci porta poi in qualche modo nella sfera dello spazio interiore, e questo mi piace molto. Si contempla per concentrarsi, per raggiungere… i bambini sanno farlo molto meglio di noi adulti ed è una forma di ascolto attento che va stimolata è una forma anche di nutrimento, nel nostro caso di contenuti visuali e narrativi, bene farne scorpacciate perché coltivare la bellezza nella vita è fondamentale non solo per il singolo ma per l’intera comunità.
Inoltre il disegno è strettamente collegato alla contemplazione, nel senso che le immagini che si possono contemplare in mostra derivano certamente a loro volta da numerose e attente contemplazioni da cui discende il fare artistico. Un collegamento necessario tra fare e vedere che mette in circolo energia creativa e fa anche incontrare tante persona che condividono passioni e desideri che a volte possono sembrare folli, visti uno ad uno, invece insieme si ritrova anche maggior determinazione a perseverare. I corsi possono essere vere fonti di nuove progettualità.

 

Che cosa sperate si portino a casa i bambini dall’esperienza delle vostre mostre, incontri, letture e laboratori? E gli adulti invece?

Curiosità, entusiasmo, immaginazione stuzzicata, pensiero portato lontano, la voglia incessante di scoprire che cosa c’è da ascoltare tra le pagine, la consapevolezza che ognuno di noi è speciale e può, con impegno, saper dire gran belle cose.
Amore per l’impegno, per l’applicarsi, per il riuscire a fare capolavori.
Amore per la poesia, per l’arte, per cose che se perdessero il loro valore, sarebbe perduto il mondo.
Vorremmo contagiare tutti, riempire le teste di bei pensieri, di sogni, di speranza, perché al mondo ci sono davvero molte belle umanità.

 

L’inaugurazione ha avuto luogo sabato 21 ottobre alla Casa della Fantasia a Sarmede e le attività arriveranno a conclusione il 28 gennaio 2018. Vi rimandiamo al sito della Mostra per maggiori informazioni, invitandovi caldamente a prendere parte a questa meravigliosa manifestazione.

Buona fantasia!

 

Giorgia Favero

Master of None: il viaggio come scoperta di sé

Creata da Aziz Ansari e Alan Yang, Master of None è una serie televisiva firmata Netflix che racconta la storia di Dev, ragazzo indiano sulla trentina che fa l’attore, e della sua vita a New York. La serie non è il solito spaccato sulla società contemporanea, piuttosto mostra a tutti gli effetti uno dei mali atavici della nostra generazione: capaci di tutto, maestri di niente.
Dev è un Master of None, ma cerca di uscire dalla terra di mezzo in cui la sua condizione lo costringe. Alla fine della prima stagione decide di partire per dimenticare la sua ultima relazione fallimentare: prende il primo volo e va in Italia per apprendere i segreti della pasta.

«Quando Zarathustra ebbe trent’anni, lasciò il suo paese e il lago del suo paese e andò sui monti»1.

Spinto dalla forte esigenza di ricongiungersi con la propria soggettività, salpa. Si sposta dal luogo di origine scegliendo di portar con sé solo la sua più grande passione, si spoglia di tutto per assorbire il più possibile dalla nuova terra.
Diventa apprendista in un pastificio tradizionale, in cui riscopre l’autenticità della produzione manuale.

«C’è ancora un altro mondo da scoprire – e più d’uno! Alle navi, filosofi!»2.

Dev ha voglia di scoprire, imparare, e di domande ne ha. Anche troppe. Il problema è che non trova risposte, o non vuole ascoltarle. Come dice il claim della serie: “Lui è Dev: un uomo con tante domande e nessuna risposta”. Questo, però, non lo ferma. Anzi, è il motore del personaggio.

Nel primo episodio della seconda stagione gli rubano il cellulare. Lui va in giro per la città alla ricerca del colpevole. Il suo vagare, tra stereotipi e citazioni del cinema italiano in bianco e nero, si interrompe solo davanti alla realtà: scopre l’autore del furto, ma gli è impossibile ottenere giustizia. Dev ha compiuto un viaggio nel viaggio per tutta Modena e la sua ricerca non è stata vana: l’ha portato alla consapevolezza di sé e della sua solitudine.

Ma questo è solo l’inizio del viaggio di Dev.

Quando il suo migliore amico Arnold viene a trovarlo in Italia, parte di nuovo, con lui. Dev affronta un nuovo viaggio con il ruolo di “voce della coscienza” cercando di far entrare Arnold in contatto con il suo sé attraverso le nuove consapevolezze acquisite, mentre l’amico compie a sua volta un viaggio nei ricordi che lo mette a confronto con il suo Io passato.
La memoria lo trae in inganno e le sue illusioni amorose cedono.

Il viaggio, per Arnold, è una breve esperienza che lo riporta a New York e alla sua vita da single.
Anche Dev ripartirà presto, ma l’insaziabile viaggiatore non smette di scoprire: del viaggio fa parte anche il ritorno. Anzi, è il momento in cui lo spostamento trova un senso. Il suo rientro a New York è una scoperta nella scoperta, perché è tornato a casa arricchito dalle diversità con cui si è confrontato e che hanno dato un significato alla sua fuga dalla grande mela. Il viaggio in Italia gli ha dato nuovi occhi e questo gli permette di rivedere le precedenti abitudini newyorkesi e quelle acquisite in Italia in modo diverso. Ne rimane insoddisfatto.

«Ci vuole più coraggio e forza di carattere per fermarsi o addirittura per volgersi indietro che per andare avanti»3.

Il nostro umano, troppo umano vive un altro viaggio alla scoperta di se stesso nella sua città natale. L’Italia lo raggiunge anche oltre oceano, con l’arrivo di Francesca, la nipote della proprietaria del pastificio in cui ha lavorato.

Francesca nel “nuovo mondo” è finalmente libera dalle responsabilità che le pesavano nel suo paese, libera di capire cosa davvero vuole, libera, finalmente, di ricongiungersi con il proprio sé. Con Dev supera i confini che si era imposta. Insieme, vivono l’ebbrezza del perdersi e lo stupore di ritrovare con l’altro loro stessi.
Un nuovo viaggio, uno sguardo a New York dall’alto di un elicottero mette chiarezza nei loro sentimenti e trasforma la città nota in una nuova meta da esplorare.

«Conosci te stesso è tutta la scienza. Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l’uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell’uomo»4.

Se Arnold decide di tornare indietro e di sopire il suo desiderio di ricongiungersi con la donna che ha amato per una vita, rimanendo intrappolato nella realtà e nella negazione del ricordo, Francesca scopre a New York che ha rinunciato a se stessa per gli altri. Sarà capace di compiere il suo primo atto egoistico, scegliersi e reincontrare la propria soggettività?

E Dev sarà capace di costruire una vera relazione con Francesca, prendere delle decisioni e mettere in atto ciò che ha imparato dai numerosi viaggi fuori e dentro di sé, superando così la sua condizione di inettitudine, se pur con slancio superomistico?

«Per essere felici, quanto poco basta per essere felici!»5.

Probabilmente, progettare un nuovo viaggio.

 

Martina Crapanzano

Martina ama camminare, ma non ha una meta. Piano piano dalla Sicilia, terra in cui è nata, ha raggiunto Roma. Ha vissuto tre anni della sua vita tra metropolitana e università, ma ha ricominciato a camminare per dirigersi a Torino. Lì, tra una storia e un sorso di tè, ha viaggiato sull’autobus, perdendosi nei suoi sogni. Così è partita ancora: è andata a Treviso, dove nel weekend compie interminabili camminate lungo il Sile. Non sa ancora se si fermerà qui, ma adesso sa che può lasciar tutto e partire ancora. Camminando.
Scrive per Nuok da dicembre 2015, potendo unire le sue più grandi passioni: la scrittura e il viaggio.

 

NOTE:
1 F.W.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Incipit;
2 F.W.Nietzsche, La Gaia scienza, aforisma 289;
3 F.W.Nietzsche, La volontà di Potenza, aforisma 80a;
4 F.W.Nietzsche, Aurora, aforisma 48.
5 F.W.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mezzogiorno.

[Immagine tratta da Google Immagini]