“La logica della scoperta scientifica” di Popper

«La scienza non persegue mai lo scopo illusorio di rendere le sue risposte definitive, e neppure probabili».
K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1974.

Nel 1934 viene data alle stampe La Logica della scoperta scientifica, prima e più importante opera del filosofo austriaco naturalizzato britannico Karl Popper. Il libro, nella prefazione alla traduzione italiana del 1970, è presentato dall’autore come un tentativo di rispondere a quesiti di non poco conto: possiamo conoscere? Se sì, cosa e con quale grado di certezza?

Secondo Popper, alla base della scienza non c’è nulla di assoluto. Non a caso, il filosofo paragona le teorie scientifiche a edifici costruiti su palafitte erette su una palude: quando ci fermiamo davanti a una determinata teoria non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Piuttosto, riteniamo più semplicemente che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili da reggere, per il momento, la sua struttura.
Popper utilizza anche un’altra metafora, questa volta ripresa dal filosofo tedesco Novalis, che paragona le teorie scientifiche a reti gettate sulla realtà: per coglierne (e conoscerla) il più possibile, dobbiamo rendere la loro trama sempre più fitta. E nella scienza questo avviene grazie alla critica e alla sostituzione delle teorie con altre considerate migliori. Così, il motivo della crescita del sapere dipende dalla dinamica di congetture che, se superano il vaglio delle confutazioni (cioè delle smentite), spingono alla formulazione di nuove congetture da sottoporre a loro volta a nuove confutazioni.

Per il filosofo austriaco la validità di una teoria risiede infatti nella sua disposizione a essere sottoposta a controlli empirici, che potrebbero falsificarla, e a resistere ai falsificatori potenziali, cioè alle affermazioni con cui la teoria si pone in contraddizione e il cui accertamento si tradurrebbe in una falsificazione. Per questo, ciò che permette di riconoscere una teoria sensata da una che tale non è, sarebbe la falsificabilità e non la verificabilità (che è la possibilità di confermarla attraverso il confronto con i dati dell’esperienza). Per questo, secondo Popper, non esisterebbero teorie vere definitivamente ma solo ipotesi “corroborate”, non falsificate dalle prove cui sono state finora sottoposte. Per avvicinarsi alla scienza bisogna allora sostituire alle teorie falsificate (smentite) altre ipotesi più resistenti alla falsificabilità, in un continuo processo di modificazione critica delle conoscenze precedenti.

«Secondo la mia proposta, ciò che caratterizza il metodo empirico è la maniera in cui esso espone alla falsificazione, in ogni modo concepibile, il sistema che si deve controllare. Il suo scopo non è quello di salvare la vita a sistemi insostenibili ma, al contrario, scegliere il sistema che al paragone si rivela più adatto, dopo averli esposti tutti alla più feroce lotta per la sopravvivenza» (ivi).

Così la scienza sarebbe sottoposta a un processo simile a quello avanzato dal modello evoluzionistico darwiniano. Da una parte, la competizione tra le teorie scientifiche porta a selezionare quella che si dimostra “la più adatta” a sopravvivere, in quanto, fino ad allora, è stata l’unica ad aver superato i controlli più severi e ad essere stata controllata nel modo più rigoroso. Dall’altra, la lotta per la vita porta alla selezione e alla sopravvivenza degli organismi “più adatti”.

Per Popper, una volta avanzata, nessuna teoria dovrebbe essere sostenuta dogmaticamente: il metodo di ricerca sostenuto dal filosofo non propone infatti di difenderla ma, anzi, di metterla in discussione, capovolgendola continuamente.

«I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate: sono il solo organo, i soli strumenti di cui disponiamo. E per guadagnare il nostro premio dobbiamo azzardarci ad usarli» (ivi).

Quelli che, al contrario, non espongono volentieri le loro idee perché temono la smentita, secondo Popper «non prendono parte al gioco della scienza» (ivi). Questo perché non è il possesso della conoscenza e della verità indiscutibile “a fare l’uomo di scienza” bensì l’impegno nella ricerca critica, persistente e inquieta, della verità.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Michael Longmire su Unsplash]

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Plotino e l’immortalità dell’anima

Quando parlava di sé, Plotino, un grande filosofo del III secolo d.C., era molto modesto: si definiva un semplice discepolo di Platone. Si presentava quindi agli altri come un pensatore non originale, che si limitava a riproporre teorie già formulate in passato. «Le nostre teorie» – egli scrive – «non sono nuove né di oggi, ma sono state pensate da molto tempo anche se non in maniera esplicita e i nostri ragionamenti sono l’inter­pre­ta­zio­ne di quelli antichi, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone». Sant’Agostino stesso affermerà che Plotino è un «Platone tornato nuovamente in vita» (Contra Academicos, III, § 18). Tuttavia, come scrive Francesco Chiossone, gli studiosi di Plotino sanno bene che egli «fu molto più che un emulatore»; il filosofo greco, infatti, «seppe concepire un sistema speculativo mirabile per coerenza e profondità, ristabilendo il primato della metafisica e contribuendo così in maniera decisiva alla rinascita del Platonismo».

Per avere un piccolo assaggio della capacità di Plotino di trasmettere e rielaborare la grande tradizione filosofica che lo precede, è possibile leggere il suo trattato su L’immortalità dell’anima, recentemente pubblicato dall’editore Il melangolo. Il testo è un breve estratto delle Enneadi e lo scopo delle sue pagine, come si evince chiaramente dal titolo, è quello di «dimostrare l’immortalità dell’anima deducendola dalla sua incorporeità». La potenza concettuale che Plotino esibisce è indubbia; si tenga tra l’altro presente che «il repertorio di argomenti di cui si serve qui Plotino continuerà a essere utilizzato da filosofi e teologi dei secoli futuri».

Ma quali sono esattamente le prove che Plotino adduce in favore della tesi dell’immortalità del­l’anima? Innanzitutto egli esclude che l’anima sia un corpo o un aggregato di corpi. «La vita appartiene necessariamente all’anima», nota infatti Plotino; «ora, quale potrebbe essere un corpo di per sé dotato di vita? Il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra sono di per sé inanimati», e «non esistono altri corpi oltre a questi. […] Ma se nessuno di essi possiede la vita, è assurdo dire che la loro unione crea la vita», così come è assurdo identificare l’anima a uno di essi. Se è impossibile che «un ammasso di corpi generi la vita», «ancora più impossibile», per Plotino, è che «cose senza intelligenza diano origine all’intelligenza». In sintesi: «il corpo non genererà mai l’anima».

Non essendo un elemento, un corpo o un aggregato di elementi o di corpi, l’anima è necessariamente semplice, incorporea, immateriale: «quest’essere», scrive Plotino, «non ha a che fare né con la quantità né con la massa, e la sua essenza è di tutt’altra natura». Ma questo implica che l’anima non possa essere annientata in alcun modo. Spiega infatti Plotino: «tutto ciò che, venendo all’esistenza, implica una composizione, si dissolve poi naturalmente negli elementi di cui è composto; ma l’a­ni­ma non finirà così, perché è una, semplice, e la sua natura consiste nel vivere in atto. Forse potrebbe morire se fosse divisa e frantumata, ma, come si è già dimostrato, l’anima non è una massa né una quantità. Potrebbe allora andare distrutta se subisse una qualche alterazione; l’alterazione, però, quando è causa di distruzione, sopprime la forma ma lascia intatta la materia e questo accade solo a un essere composto. Se dunque l’a­ni­ma non può essere intaccata in nessuno di questi modi, sarà necessariamente incorruttibile».

Plotino fornisce anche altre prove dell’immortalità dell’anima. Una di esse è basata sul principio per cui “il simile conosce il simile”. L’anima – argomenta Plotino – non conosce solo cose finite, materiali e divenienti: essa, col proprio pensiero, può concepire e contemplare anche gli «esseri celesti e […] quelli ultracelesti, cercando di ogni cosa l’essenza e risalendo fino al primo principio». L’anima, cioè, è in grado di oltrepassare col pensiero le cose temporali e di affacciarsi sulle realtà eterne. Questa sua capacità «fa sì che l’anima, partecipando di conoscenze eterne, sia anch’essa eterna». Infatti, – si chiede Plotino – come potrebbe ciò che è corporeo pensare l’incorporeo? Come potrebbe ciò che è mortale avere notizia di ciò che è eterno? Solo il simile può conoscere il simile; sicché, se l’anima conosce non solo cose caduche, ma anche cose atemporali, divine ed eterne, ciò accade perché evidentemente lei stessa è un che di divino e di eterno. «L’a­ni­ma coglie l’eterno con ciò che essa ha di eterno», scrive infatti Plotino.

Un’altra prova si sviluppa a partire dalla considerazione che l’anima è principio di vita, e dunque vita per essenza. Che l’anima sia principio (cioè causa e sorgente) di vita, e in particolare principio della vita dei corpi, è innegabile. Infatti, poiché gli elementi che compongono i corpi sono inanimati, lo saranno anche i corpi che tali elementi vanno a formare. L’animazione, la vita, il movimento e in generale ogni forma di “attività” provengono quindi da qualcosa che, pur “abitando” elementi e corpi, non è un elemento o un corpo. «L’anima», scrive Plotino, «è il principio del movimento, e fornisce il movimento alle altre cose, mentre lei si muove da sé; e inoltre dona la vita al corpo […], mentre lei la possiede da sé, e non la perde proprio perché la possiede da sé». L’anima non può morire appunto perché, essendo principio di vita, «non può certo ricevere il contrario di ciò che apporta», ovverosia la morte.

Se l’anima morisse, infatti, essa accoglierebbe in sé la morte, ne verrebbe invasa, e quindi la vita sarebbe morte, nel senso che la vita, che l’anima è, si identificherebbe alla morte, e quindi al proprio altro. Ma che qualcosa (in questo caso la vita, la non-morte) sia identico al proprio altro (la morte, la non-vita) è, anche per Plotino, un assurdo; anzi, la definizione stessa dell’impossibile, di ciò che non può aver luogo. Ne segue che l’anima, in quanto è principio di vita, è vita inestinguibile e immortale.

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA

Plotino, L’immortalità dell’anima, trad. di F. Chiossone, Il melangolo, Genova 2017

[L’immagine è una rielaborazione digitale del quadro di W.A. Bouguereau, Psyche et l’Amour (1889) – immagini tratte da Google immagini]

 

 

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Riconquistati a te stesso

Un flusso ininterrotto di informazioni, di impulsi e risposte, di mete raggiunte, afferrate per un instante e spostate un po’ più in là; una pioggia di stringhe, di volontà programmate per l’insaziabilità: questo parremmo, forse, a chiunque voglia guardarci, essendosi astratto dalla nostra massa. E ci sarebbero tutti gli indizi per confermare l’impressione, tutti gli indizi per diagnosticare la frenetica assurdità che connota la vita che gran parte dell’umanità vive: taluni per scelta, talaltri per non averne compiuta alcuna.

Probabilmente, per lo stesso principio, queste parole parranno l’ennesimo discorso sulla corruzione morale del nostro tempo, sull’oscurità dei nostri giorni, una serie di inautentiche lamentazioni.
Se, invece, un senso c’è, emergerà da sé non appena ci si ponga una questione elementare: perché viviamo schiavi d’un tempo sfuggente che non è mai abbastanza?

Siamo soliti dire- più o meno consapevolmente- di non aver tempo, siamo soliti lamentarci del “tempo che manca”. Siamo certi, in fondo, che sia il tempo a venir meno?
Siamo certi, in fondo, che non siamo noi a venir meno a noi stessi?

Seguendo il filosofo di lingua latina Seneca, proviamo almeno ad abbozzare un sentiero lungo il quale cercare una risposta.

<< Persuaditi che le cose stanno così come ti scrivo: alcune ore ci vengono strappate vie, alcune altre ci vengono sottratte subdolamente, altre ancora scorrono via. Tuttavia, la perdita più ignominiosa è quella che si verifica per negligenza.>>[1]

Le ore che ci vengono strappate a forza, quelle che ci vengono sottratte con l’inganno, quelle che scorrono via, possono esser perdute solo ad una condizione: che noi stessi, prima, siamo smarriti.
Alla fine del passo sopra riportato, infatti, si dice che la perdita più grave, più ignominiosa è quella che accade per negligenza, per ignoranza; ebbene: negligenza di cosa? Cos’è ciò che ignoriamo? Non solo il tempo, di cui abbiamo certamente intuizione ma non una specifica conoscenza; ma anche – e soprattutto- noi stessi.
È la nostra anima a vivere peregrina lo smarrimento, il furto, a scadere nell’inautentico[2]: perduti noi stessi, la consistenza dei nostri giorni scivola via liquefatta.

All’inizio del I libro delle Epistole a Lucilio, è lo stesso Seneca che, ammonendo Lucilio riguardo allo spreco del tempo e della vita, lo esorta immediatamente a guadagnare una vera conoscenza di sé.

<< Fa’ così, mio caro Lucilio, riconquistati a te stesso.>>[3]

L’invito di Seneca ( assai prossimo al celebre “ conosci te stesso”) vuol dire che non è possibile alcuna conoscenza del tempo, senza una solida conoscenza di sé; che non è possibile neppure alcuna vera pratica del tempo, senza un’onesta pratica di sé.

Ecco, dunque, cosa abbiamo primariamente abbiamo perduto: noi stessi.
Ecco perché, a chiunque prendesse la giusta distanza dalla furiosa fretta della nostra quotidianità, parremmo indaffarati a far nulla, proiettati verso un senso di cui viviamo la mancanza; segnati da una mancanza che tentiamo di colmare col sovrabbondare di stimoli.
Più autentico, profittevole e onesto sarebbe fermarci un istante e chiederci non tanto dove stiamo andando; quanto, piuttosto, dove siamo finiti.

 Emanuele Lepore

 NOTE

[1]SENECA, L.A., Epist.a Lucilio, I: << Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tame est iactura quae per neglegentiam fit.>> La traduzione dei pochi stralci di testo proposti è mia; il passo qui citato può essere ritrovato al seguente link : http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Seneca/Lucil001.html ; Tra le edizioni più diffuse, è possibile consultare Lucio Anneo Seneca, Opere morali, Bur, radici, 2007.

[2]Il rischio che l’intersoggettività favorisca lo scadimento nell’inautenticità, tipicamente heideggeriano, è avvertito dallo stesso Seneca lungo tutto l’arco della sua opera: più volte avverte di non seguire la massa, luogo in cui gli uomini restano vicendevolmente contagiati dal vizio. Si legga, a tal proposito, la settima delle Epistole a Lucilio.

[3]SENECA, L.A., Epist.a Lucilio, I:<< Ita fac, mi Lucilii, vindica te tibi.>>.