La contraddizione come condizione dell’esistenza

<p>La Trahison des images (Ceci n'est pas une pipe). 1929. Oil on canvas, Overall: 25 3/8 x 37 in. (64.45 x 93.98 cm). Unframed canvas: 23 11/16 x 31 7/7 inches, 1 1/2 inches deep, 39 5/8 inches diagonal. Purchased with funds provided by the Mr. and Mrs. William Preston Harrison Collection (78.7).</p>

Sembra quasi un ossimoro, un’affermazione paradossale.
E proprio un paradosso può essere l’inizio della nostra indagine. È uno dei più famosi nella storia dell’uomo: il paradosso del mentitore, articolato tramite una proposizione auto-negante del tipo “questa frase è falsa”. Nessuno potrà dimostrare se essa sia vera o falsa dato che se fosse vera allora non sarebbe falsa; mentre se fosse falsa si capovolgerebbe in “questa frase è vera”, quando si è appena affermato il contrario.

Contraddizione. Questo concetto attraversa tutta la storia della filosofia occidentale. Ai suoi albori, Aristotele formulò il famoso principio di non contraddizione, che è diventato la base più solida della nostra logica e del nostro linguaggio, una città amica dove sappiamo di poterci sempre rifugiare insieme ad un alleato pronto a sostenerci. E con un alleato come il “principium firmissimum” – come è stato più volte chiamato – la vittoria sembra certa.
Ma come dovremmo comportarci di fronte ad una situazione paradossale? Una soluzione può esserci suggerita attraverso il principio del terzo escluso, ovvero che non è possibile una terza via tra due proposizioni tra loro contraddittorie: “tertium non datur”. È necessario però fare una precisazione: questo principio non scandisce che non può esserci una terza possibilità tra vero e falso – che sono contrari –, il che aprirebbe la strada all’indeterminato, come spesso è stato interpretato, ma tra vero e non-vero (o falso e non-falso), che sono appunto contradditori. Sembra quindi che all’interno del non-vero possa essere posto sì il falso ma, ad esempio, anche l’indeterminato.
Un’altra soluzione può essere quella – condivisa anche da Aristotele – che tramite i paradossi non si stia dicendo propriamente nulla, e quindi la (non-)proposizione va tralasciata senza nessun problema.

Facciamo ora un passo oltre ai paradossi e concentriamoci sulle contraddizioni vere e proprie, quali i paradossi non sono.
Il significato di una contraddizione è molto semplice: essa si presenta quando si considera una proposizione logica attualmente identica al suo opposto (ad esempio “in questo momento piove e non-piove”).
Possiamo quindi tranquillamente soprassedere alle contraddizioni logiche e ampliamo lo sguardo alla nostra vita.
È un dato di fatto che nel corso della nostra esistenza compieremo qualche scelta e/o azione irrazionale. L’uomo infatti è sì – per dirla con Aristotele – animale razionale, ma la nostra “umanità” non si esaurisce in questo.
L’azione di andare contro il buon senso può essere considerata una contraddizione? Ed il suicidio? Perseverare in una scelta pur sapendo che non ci condannerà ad altro che all’infelicità e a ripetute delusioni è una contraddizione?
A mio modo di vedere – e con qualche necessaria precisazione – la risposta può essere positiva e negativa insieme, ed ecco che si ripropone una contraddizione.
Se consideriamo l’uomo come entità calcolante, alla stregua di un computer, la risposta è certamente affermativa: queste azioni – potremmo dire – sarebbero espressione di un malfunzionamento.
La risposta è negativa (ma ora vedremo che in realtà sarà comunque positiva) se aggiungiamo all’uomo la sfera emotiva. Seguire le emozioni, gli istinti, le pulsioni: ecco cosa ci differenzia dalle macchine, ed ecco i grandi problemi con cui ha a che vedere la robotica e lo sviluppo delle intelligenze artificiali.
Ma possiamo ipotizzare vari gradi di irrazionalità? Può esserci un’irrazionalità sempre maggiore che al suo estremo sconfini comunque nella contraddizione? Può cioè essere l’irrazionalità essa stessa irrazionale non per definizione ma per comportamento? E non stiamo parlando di due negativi che moltiplicati fanno un positivo: una irrazionalità irrazionale non diventa ragionevole, bensì si riproduce ed amplifica, sconfinando – appunto – nella contraddizione.
E ciò – a mio modo di vedere – succede ogni giorno.
Accade quando sappiamo che dobbiamo andare al lavoro ma restiamo a letto.
Capita quando vogliamo esplodere di rabbia ma ci imponiamo di stare calmi.
Succede quando siamo consapevoli che amare qualcuno potrebbe destinarci al dolore ma lo facciamo comunque.
Ciò – in sostanza – si realizza quando, nel conflitto tra ragione e passioni, una delle due prevale sull’altra. Perché entrambe le possibilità sono me.
Entrambe potrebbero, singolarmente, esprimere la mia individualità. Entrambe, isolate, sono una parte che esaurisce il tutto. Ma l’uomo non è questo Tutto, esso va oltre, ha bisogno anche di quello che circonda la Totalità, che per definizione non esiste e che la logica non riesce nemmeno ad immaginare. Eppure è proprio questa sovrabbondanza di esistenza inesistente che ci permette di domandarci cosa c’è oltre l’Universo, cos’è veramente una singolarità avvolta da un buco nero e se il tempo possa essere aggirato.
È come se fossimo inconsapevolmente consapevoli di essere altro rispetto a quello che siamo.
È una contraddizione che spiega la vita.
È La Contraddizione: vivere senza sapere il perché ma sapendo che c’è.
Vivere perché si vive. Vivere perché sono vivo.

Massimiliano Mattiuzzo

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Un’esperienza di pensiero puro: l’eredità di Parmenide

Cambridge, inverno 1929: Wittgenstein tiene la famosa conferenza sull’etica. Parla di scienza, linguaggio, valore. Afferma, come già nel Tractatus, che il nostro linguaggio non è adatto ad esprimere alcunché di assoluto; il linguaggio scientifico-logico parla di fatti e questi fatti sono solo relativamente connessi al valore etico. Come esempi porta tre esperienze “assolute”, aventi valore, stando a ciò che dice, almeno per lui stesso: meravigliarsi del mondo, di come esso sia; sentirsi assolutamente al sicuro; sentirsi assolutamente colpevole.

Il testo della Conferenza è sicuramente suggestionante, un po’ difficile a tratti; comprendere l’oratore non è affatto scontato, ma le parole -le belle parole di quest’uomo davvero intelligente- non possono non stimolare la riflessione interiore di chi le ascolta. Questo tema dell’esperienza assoluta stuzzica sicuramente la mente. Rifletto sulla percezione; questa sorta ricezione astratta dell’esperienza, deve essere, come tale, sicuramente comune alla cognizione in generale, in ogni luogo e tempo, e poi oltre questi: Absolutus, dal latino libero da ogni vincolo; un’esperienza tale è quindi oltre spazio e tempo, costante di una vita intera, il massimo comun divisore della percezione.
Quale “oggetto”  soddisfa questi requisiti? Niente di ciò che in realtà possiamo a ragione chiamare oggetto; semmai, ciò che tutti li comprende, e li forma. E se invece cercassimo un’idea? Non allora una qualsiasi idea, ma ciò che, ancora, tutte le riassume in sé, le sussume come sub-concetti; ma ciò è l’Essere, e solo l’Essere. Ancora quello di Parmenide, ancora dopo 2500 anni. Apoteosi di concetto e oggetto, sovrano della realtà e del pensiero, dell’esperienza e dell’immaginazione, l’Essere è per definizione l’unico Primo Principio, vera, sola stella primigenia dalla quale sgorgano i luminosi raggi del tessuto materiale del nostro mondo fisico, come un fiume in piena di potenza esplosiva, positiva, che si oppone al nulla, lo scaccia.

Risulta di per sé evidente che dell’essere ne ho esperienza sempre, continuamente, nella vita d’ogni giorno. Per quanto riguarda invece la vita interiore del pensiero, della mente, valga quanto detto da Parmenide nel suo terzo frammento: «(…) infatti lo stesso è pensare ed essere». Facile da comprendere se rovesciamo in negativo: non puoi pensare il non-essere (al massimo si pensa il vuoto, che tuttavia è ancora soggetto alle categorie spaziale e temporale, rientrando quindi ancora nel dominio fisico dell’Essere); quindi se pensi, pensi essere. Su queste questioni aveva lavorato Plotino, che faceva del Pensiero l’Intelligenza dell’Essere che vede se stesso una sorta di autocoscienza metafisica dell’Essere stesso, e la nostra anima (o mente o coscienza, come la si voglia chiamare) partecipa sicuramente di questa Intelligenza, che la permea donandole Ragione, il vero senso del nostro pensare. Se il Pensiero come tale è fondamentalmente Essere, noi sempre ne partecipiamo, in ogni singolo attimo. L’integrità strutturale del nostro pensare e percepire è sempre rigorosamente tenuta ferma da quella stessa unica Intelligenza della quale abbiamo esperienza, e questo rigore perfetto noi lo chiamiamo Principio di non contraddizione; l’unità del nostro pensiero; per il quale, volendo portare un classico esempio, non possiamo pensare la contraddizione, come un “cerchio quadrato”, o il “ferro di legno”: seppur io possa pronunciarne le parole e anche affermare di poterlo pensare, cadendo però nel falso.

Ma allora vedete che se la nostra anima è Essere, noi siamo Essere. Ecco il nostro legame col Trascendente, vera nostra terra natia, dell’ancestrale origine, prima dell’inizio dei tempi; ecco la vera meta – il vero senso – il nostro destino, l’unica lucente e infinita realizzazione.

«In che maniera dunque, e che cosa dobbiamo pensare del Primo, se Egli resta immobile? Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile, com’è nel Sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile»¹.

Alessio Maguolo

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NOTE:
1. Plotino, Enneadi, V1,6.

Al di là della logica classica

La logica, una bambina felice, perché no? come la natura, come la vita, una femmina. Matematica per i filosofi, filosofia per i matematici, ovunque sia, questa bambina gioca con il linguaggio.

Il linguaggio naturale e il ragionamento non sono riducibili alla logica classica, altrimenti ragionamento e logica sarebbero la stessa cosa. La bambina impara, si adatta alla vita, immagina nuovi giochi, nuovi tipi di logica, ad esempio la modale, l’intuizionista, non equivalenti tra di loro. Tra i vari giochi, quello con logica classica, la diverte così tanto, che lo fa ad occhi chiusi.

La logica classica deduttiva é quel ragionamento che a partire da premesse generali procede a deduzioni particolari tramite inferenze deduttive. La formalizzazione del linguaggio mostra la struttura delle deduzioni. Lo studio dei linguaggi formali, non ha interesse a cosa veste la struttura, non sa né di cosa parlano i predicati sopra la struttura, né se quello che dicono è vero o falso. Come con l’aritmetica, la struttura può sorreggere diversi contesti, ad esempio una somma é corretta, indipedentemtemente da cosa si farà corrispondere ai numeri della somma. Con il linguaggio formale, con la sintassi, la bambina gioca ad occhi chiusi, solo con la mente, solo con dei segni, senza collegare questi segni al mondo reale.

La semantica é il collegamento alla realtà, al senso. Il linguaggio riferito al reale é uno specchio del mondo. La struttura, i principi e le deduzioni sono una proiezione della realtà. I principi, sono chiamati principi primi evidenti, a sottolineare il fatto che sono proprio davanti agli occhi di tutti. Questi principi primi evidenti sono oltre la logica formale, qualcosa di extra-logico, qualcosa di non deducibile. Le scienze hanno il compito di vedere questi principi primi evidenti.

Quando il principio primo é un concetto astratto, non si ha modo di confrontarlo con la realtà, non é più un principio evidente, é una “Verità in sé“. Con questi principi, ad esempio il meglio, la qualità, la giustizia, ecc., si costruisce una struttura e si fanno deduzioni. Questa struttura é lo specchio di che cosa? la proiezione di che cosa? Non c’è più alcun confronto esterno al linguaggio, la struttura delle deduzioni é un qualche gioco di parole, una seduzione da parte della grammatica. La sola sintassi dovrebbe trovare ragione da se stessa, in qualche modo dedurre i principi, ma questo è oltre le sue possibilità.

In ambito matematico si incontra l’incompetezza della rappresentazione formale dell’aritmetica e l’impossibilità del sistema di dimostrare la sua stessa coerenza. In matematica la dimostrabilità è una nozione più debole dei principi primi scelti, questo indipendentemente dal sistema assiomatico utilizzato. In altre parole, le dimostrazioni saranno sempre minori dei principi primi.

La logica classica resta impigliata ai principi di identità, di non contraddizione, del terzo escluso, ai silogismi, ecc.. Questa logica non ha la forza di sostenere da sola tutto il peso del ragionamento e crollano gli assoluti, le certezze, il rigore, la completezza.

Senza la logica classica come e cosa si comunica? il linguaggio può essere illogico? come si ragiona oltre la logica classica? Si può ragionare senza le funzioni logiche, senza inventare verità in sé, senza una continua falsificazione del mondo per mezzo del numero?

Nel mondo platonico delle idee, dei puri concetti astratti, dietro a ogni “verità in sé” c’è un’illusione, di cui si è persa la natura illusoria. Il pensiero che vuole aver ragione, resta comunque disposto a sostenere i principi non-veri in sé, come necessari. Ammettere la non-verità come principio primo, come condizione di vita è una filosofia al di là della logica classica.

Occhi aperti, sguardo dritto alla realtá, oltre all’idea in sé, questo qualcosa immaginato e poi reso presente nell’economia complessiva della vita, come fondamentale, come sostanziale, come vero e come? cosa si legge nel dizionario? vero: effettivo, “reale“. Dunque é così che si slitta dal vero al reale. Dietro all’idea in sé, dietro al principio primo, c’é un “così ho scelto”, “per me é meglio”, “così io decido”, “così io voglio”, questo volere che comanda la fabbrica delle idee é lontano dalla logica e dalle deduzioni. In altre parole, la verità in sé è al di lá della logica classica e se l’antecedente è falso il conseguente è sempre vero: se sono superman allora ho i super poteri.

Quando un’illusione è posta a realtà, le sue conseguenze sono reali. Follia, follia!! Questa è follia!! L’illusione del singolo è follia, è una malattia mentale, mentre l’illusione della massa è ideologia.

 

Gianluca Rossi

Gianluca Rossi è Gianluca Rossi
Sposato, una figlia di nove anni, un figlio di sette anni. T
ecnico informatico presso l’Istituto di Fotonica e Nanotecnologie del CNR

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