La Tana di Kafka: l’essere prigionieri di sé stessi

La Tana è un racconto scritto nel 1923 da Kafka durante la sua permanenza a Berlino; il protagonista del racconto è avvolto dal mistero e si intuisce che sia un roditore intento a cercare di costruire un nascondiglio sotterraneo per difendersi da eventuali invasori che potrebbero cibarsi di lui. Il covo è labirintico, lontano sempre di più dalla superficie e il roditore passa le giornate a perfezionare la sua struttura scavando ulteriori cunicoli e a consumare convulsivamente le sue provviste. 

Una volta concluse le provviste è costretto ad andare a caccia per procurarsene delle nuove, terrorizzato dal poter essere scoperto si ritrova incapace di uscire dalla sua stessa tana: «Ho assestato la tana e pare riuscita bene. Dal di fuori, in verità, si vede soltanto un gran buco che però in realtà non porta in nessun luogo»Sembra che il rifugio che aveva costruito a sua difesa si sia trasformato in una gabbia che lo imprigiona; mentre le sue riflessioni si accavallano, sente degli strani rumori dall’esterno e si convince che di lì a poco sarà attaccato. Il roditore si prepara a difendersi, chiedendosi perché non abbia udito prima il nemico e il racconto si conclude bruscamente con la frase: «Tutto invece è rimasto immutato…»

Le vicende di questo peculiare personaggio portano a riflettere su come la nostra casa possa diventare la nostra prigione, ma soprattutto su come si possa diventare prigionieri di sé stessi; il suo flusso di pensieri è concitato, inquieto e quasi si è incapaci di distinguere se le sue preoccupazioni siano reali o frutto di un’allucinazione provocata dalle sue paure. Il piccolo roditore di Kafka ha scelto di vivere lontano dai suoi simili, si è volontariamente isolato a scopo di difesa, la paura del diverso e dell’incontro con l’altro lo hanno portato ad una reclusione forzata che lo ha spinto ad allontanarsi dalla vita vera. Si legge infatti: «Quando esco devo quindi vincere anche fisicamente la pena che mi dà questo labirinto e provo dispetto e commozione a un tempo ogni qualvolta mi smarrisco per un istante nella mia propria fabbrica e l’opera sembra ancora compresa nello sforzo di provare a me, che già da un pezzo mi sono fatto un giudizio, la sua giustificazione di esistere…»

Il racconto di Kafka è un’allegoria di ciò che accade oggi, ma che in realtà è sempre accaduto: l’incontro con l’alterità spaventa, è difficile accettare di vivere con gli altri ed è altrettanto complesso accettare di conoscerci attraverso l’altro. Si deve vivere in relazione agli altri perché chiudersi ci allontana dal conoscere l’altro e il mondo, portandoci ad alimentare paure, sospetti e pregiudizi. Paradossalmente proteggersi implica aprirsi all’ignoto e al pericolo, scegliere di blindare il nostro io vuol dire esporci inesorabilmente a pericoli che non siamo in grado di affrontare. Nell’atto finale, infatti, il piccolo animale per proteggersi è costretto a risalire attraverso i cunicoli del labirinto che ha costruito ed arrivare quasi alla sua superficie per poter avvertire meglio le mosse del nemico. 

Lo sviluppo dell’individuo è nel rapporto con gli altri e lo si vede dalle sue attività che hanno tutte in sé natura sociale, le barriere che scegliamo di costruire a livello individuale e quelle che si sono volute costruire a livello sociale hanno lasciato impronte indelebili nella storia.

È emblematico che il racconto si concluda bruscamente affermando che nonostante gli sforzi, nonostante i tentativi di difesa tutto è rimasto immutato: è rimasto immutato perché il protagonista è senza storia. Una storia che non si costruisce isolandosi: la storia è ciò che muta l’essere umano e va costruita attraverso scelte e azioni che permettono un rapporto dialettico con l’altro, vi deve essere integrazione e azione. Il singolo fa la storia attraverso i suoi atti performativi, ma anche la storia lo trasforma, non si può accettare di vivere non avendone una. È di primaria importanza per l’individuo conoscere sé stesso identificandosi nell’altro, la paura dell’altro del roditore oggetto del racconto nasce dal suo non conoscerlo; la non conoscenza porta alla costruzione irrealistica di una idea di realtà che si finisce per accettare cecamente. 

Tutti gli sforzi del soggetto di allontanarsi dall’altro non hanno fatto altro che avvicinarlo ad esso nella parte finale, nel momento in cui risale in superficie non può fare altro che aspettare che si compia il suo destino e attendere l’arrivo imminente di uno straniero di cui non conosce neanche le reali intenzioni. Il nemico che spesso vediamo nell’altro è in noi stessi, si può diventare estranei nel momento in cui non ci si riconosce come specchio di un’alterità che non è nemica, ma nostra complementare.

Accettare di voler conoscere il singolo vuol dire accettare di conoscere l’altro senza dissolversi in esso, ma cercando un confronto critico. Ciò che Kafka ci mostra nel suo racconto vuole essere un monito e ci ricorda che possiamo essere sia la nostra prigione, sia le fondamenta della costruzione del nostro io, che deve formarsi attraverso le azioni e la volontà di accettare i rischi che vi saranno, ma che porteranno ad essere parte attiva della storia.

 

Francesca Peluso

 

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Il tenebroso mondo gnostico

Può capitare a tutti a volte di sentirsi ingabbiati, incarcerati, imprigionati in questo mondo e di vedere i nostri desideri calpestati dai suoi abitatori, e di percepire pertanto la realtà che ci circonda come un’entità ostile, estranea, incomprensibile e profondamente maligna. Ma solo gli gnostici hanno saputo fare di questo angosciante sentimento una filosofia sistematica. Secondo questi pensatori, infatti, in questo mondo «tutto è pieno di tenebre… / Tutto è pieno di prigioni; / non c’è via d’uscita, / E si infliggono colpi a tutti coloro che vi giungono» (questo canto e quelli che lo seguiranno sono riportati nel bel libro di H.C. Puech intitolato Sulle tracce della Gnosi).

Per gnosticismo si intende un movimento spirituale e filosofico, le cui radici sono molto probabilmente da ricercare nell’era precristiana, diviso in varie sette e correnti diverse e particolarmente attivo tra il I e il IV sec. d.C. (ma protrattosi, secondo Puech, almeno fino al VII secolo d.C. e in certi casi perfino oltre – i Manichei, ad esempio, sopravvissero fino al XIV secolo, ma si pensi anche ai Mandei, che sono una comunità religiosa tutt’ora esistente), che si propone di far pervenire alla salvezza i suoi seguaci non tanto mediante atti di fede, quanto piuttosto attraverso la conoscenza di come veramente stanno le cose, anche qualora gli scenari dischiusi dalla contemplazione della “verità” siano sconcertanti o terribili da sopportare (gnosis in greco significa per l’appunto “conoscenza”). Tra i maestri gnostici di particolare spicco troviamo Basilide, Valentino, Marcione. Il Cristianesimo nascente combatté ferocemente e con successo questa “eresia” dalle origine sincretistiche, che proclamava di possedere un sapere mistico segreto che, pur essendo stato indicato da Cristo ad alcuni suoi discepoli, sarebbe stato colpevolmente ignorato dalla Chiesa.

Gli gnostici considerano l’uomo come un’anima divina precipitata in quella prigione che è costituita dal corpo (già Platone diceva che il “corpo”, in greco soma, è per l’anima una “tomba”, in greco sema). «Venuto dalla luce e dagli dèi, eccomi in esilio e separato da loro», recita una loro poesia; «Sono un dio e nato dagli dèi, / Brillante, scintillante, luminoso, / Radioso, profumato e bello, / Ma ora costretto a soffrire. / Mi hanno afferrato diavoli senza numero, / Orrendi, e mi hanno tolto la forza. / La mia anima ha perso conoscenza. / Mi hanno morso, tagliato a pezzi, divorato. / […] Contro di me urlano e si lanciano, mi tormentano e mi assalgono…», continua il canto in un crescendo di disperazione.

Del tutto logico, quindi, che gli gnostici, vedendosi incapaci di salvarsi con le proprie mani dal dolore che da ogni lato li assedia e li tormenta, rivolgano a Dio un’accorata richiesta di aiuto: «Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, / Dal tenebroso abisso [di questo mondo] […] che altro non è se non tortura, ferite fino alla morte, / E dove né soccorritore né [vero] amico si trovano! Mai, assolutamente mai, [quaggiù] si trova la salvezza; […] / [Non sapendo che cosa fare per salvarmi,] piango su me stesso». Come si può vedere, tristezza, ansia, paura, depressione e un lacerante desiderio di trovare infine una protezione e un riparo sicuro dalle insidie della vita sono le principali tonalità emotive che emergono dai componimenti gnostici.

Sennonché, per gli gnostici, il dio creatore di questo mondo non può salvare. Egli, infatti, proprio come tutti gli dèi celesti minori – che gli gnostici definiscono “Arconti”, cioè “Signori” (dal greco archontes, “governatori” o “comandanti supremi”) – è profondamente malvagio, e non ha alcuna intenzione di tendere la propria mano all’uomo per trarlo fuori dall’incubo in cui è rinchiuso. I versi dell’inno Ad Arimane di Leopardi, pur essendo stati composti per altri scopi e peraltro lasciati incompiuti, possono offrire un perfetto ritratto del giudizio negativo e senza possibilità di appello che è formulato da questa corrente spirituale nei confronti del sommo Autore del­l’uni­ver­so. Qualunque sapiente gnostico avrebbe infatti potuto pronunciare, nel rivolgersi a tale entità minacciosa e malevola, le seguenti parole redatte dal poeta recanatese: «Re delle cose, / autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto/ […] Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. [Ma] pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […]. / Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte […]. Non posso, non posso più della vita».

Non è quindi a tale dio che si levano le strazianti preghiere di salvezza formulate dagli gnostici. Esse si rivolgono piuttosto al Dio nascosto e non-creatore che risiede beato “oltre i mondi e oltre i cieli”. Possiamo allora immaginare così il mondo come è visto dagli gnostici: una serie di sfere concentriche, ognuna delle quali (pianeta, stella o cielo che sia) è una sorta di perverso labirinto esistenziale governato da dèi oscuri e colmo di trabocchetti, trappole e vicoli ciechi, nonché infestato da pericoli, nemici e bestie feroci che non vedono l’ora di “fare la pelle” al malcapitato che abbia la sfortuna di imbattersi in essi.

«L’universo materiale» – scrive Hans Jonas nel suo studio intitolato Il principio gnostico – «ossia il dominio degli Arconti, assume [generalmente] la forma di una vasta prigione la cui cella più interna e sotterranea è la terra […]. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci concentrici». I sistemi gnostici più elaborati arrivano a contare fino a 365 di questi “cieli-guscio”, in ognuno dei quali regna «un’attiva forza demoniaca» che non intende solo opprimere, tiranneggiare e ostacolare le anime dei vivi, ma anche quelle dei morti: «come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la risalita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio», puntualizza infatti Jonas.

Al di là di tutti questi orrori, abbiamo detto, sta però la salvezza: oltre i numerosi cerchi cosmici esiste infatti il “Regno della Luce”, abitato da un Dio eterno che è tutto bontà, amore e luminosità. È il “Padre Celeste” annunciato da Gesù. Gli gnostici, quindi, si schierano con il Dio protettivo e misericordioso descritto nel Nuovo Testamento, che ha in Cristo il suo araldo, ma contro quello che essi considerano il Dio collerico e vendicativo del Vecchio Testamento, che avrebbe invece in Mosè il suo testimone (almeno se si segue l’antica tradizione interpretativa – ormai eclissata, ma ovviamente ancora viva al tempo degli gnostici – per cui sarebbe proprio quest’ultimo personaggio l’estensore del “Pentateuco”, l’insieme dei primi cinque libri dell’An­ti­co Testamento).

Pur essendo inconoscibile e misterioso, il buon Dio talvolta si fa sentire: la sua voce conturbante, che riesce a sovrastare per imponenza e autorità quella del folle e malvagio demiurgo di questo mondo, in certe particolari occasioni si rende infatti udibile ad alcuni eletti. Essa parla direttamente ai loro cuori (che in tal modo – dice Clemente Alessandrino negli Stromata – vengono trasformati da «dimora di demoni» a luoghi «beatificati», «santificati» e «risplendenti di luce») per “risvegliarli” e concedere loro particolari rivelazioni, indicazioni e suggerimenti che saranno utili agli iniziati per raggiungere la salvezza tanto agognata.

Si tratta allora, per gli gnostici, di trovare il modo, mediante l’elaborazione del loro sapere esoterico, di oltrepassare tutte le sfere celesti e di uscire così definitivamente dai bui e infernali corridoi del labirinto del­l’esi­sten­za terrena, per andare finalmente incontro a quel perfetto Dio Padre che ha il suo principale messaggero in Gesù, o di sperare che Egli per primo, commosso dai nostri patimenti e dalle nostre invocazioni, e a sua volta desideroso di ripristinare l’Unità perduta, decida di farsi avanti verso di noi, abbattendo le barriere che ci separano da Lui e quindi dalla somma beatitudine.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
Hans Jonas, Il principio gnostico, a cura di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2011
Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2006

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Un angelo che ha voluto essere libero

Occhi grandi, scuri, da cerbiatto. Capelli lisci, tagliati in un caschetto, fini e sollevati dal vento. Un sorriso radioso, illuminato ancor di più dal sole e da quei fasci di luce che rivelano delicatamente tutti i colori dell’arcobaleno. Un arcobaleno di riflessi, della stessa sostanza dell’ energia che una ragazza di diciannove anni dovrebbe sprigionare.

È questa l’immagine che mi lascia legata a lei e che, inspiegabilmente, resta nel mio cuore.

È questa l’immagine che voglio tenere con me, lontano da quel sonno profondo che per più di dieci anni l’ha incatenata a sé per poi portarsela via.

A diciannove anni, si è soliti dire di avere tutta la vita davanti. Talvolta è così. Talvolta è la vita a essere rifiutata, negata. Altre volte ancora, è lei ad allontanarsi da noi.

A diciannove anni, si ha tutta la vita davanti. Eppure, degli incidenti di percorso possono interromperla.

Ed è così che, un giorno come tanti altri, la sua vita si è inceppata, impedendole di rincorrere i suoi sogni e di vivere l’amore. E da quel giorno, un sonno profondo l’ha stretta a sé, svuotando quegli occhi che brillavano al sole, lasciandola imprigionata in quel suo corpo fragile disteso su un letto irrimediabilmente legato a delle macchine che avevano in pugno la sua vita.

Le macerie di un corpo esausto, forse? Segni esteriori di qualcosa che ha in fondo ancora un po’ di vita? La speranza di un risveglio? E quelle lacrime che talvolta scendevano dai suoi occhi, che cosa significavano? Volontà di vita oppure di abbandono di sé?

Durante un intervento al quale doveva sottoporsi, il coma l’ha inghiottita a sé, e le ha impedito di risvegliarsi per sempre. È così entrata in un incubo dal quale è quasi impossibile, se non raro, uscire.

Eppure, quella speranza, quell’incapacità di dire no a una vita che, forse, non ha più lo stesso senso di essere vissuta, permane e, in un certo qual modo, costituisce per i cari che le sono vicino il solo appiglio cui tenersi aggrappati, come se mantenerla in vita potesse aiutarli a sentirla fisicamente più presente a loro.

Eppure, la persona, non è solo corpo. Eppure ciò che la rende tale, è anche altro.

Una vita psichica, una dimensione emotiva, i molteplici fili relazionali di cui la sua esistenza è intessuta.

Quando Kant nella Metafisica dei costumi[1], parlava della differenza tra le cose e le persone, la dignità era l’elemento centrale di questa distinzione.

E qualora mancasse questo, che valore potrebbe assumere il corpo inerte, bloccato a un letto di ospedale? Chi ha tuttavia il diritto di decidere della vita di qualcun altro? E decidere per essa significa decidere unicamente per la sua interruzione, oppure al contrario, talvolta, un vero “attentato” alla vita e alla dignità può ritenersi quello di mantenere in vita “artificialmente” un corpo che ormai è svuotato del suo senso e valore profondo?

 Per tutto ciò che riguarda le questioni di etica medica, l’Occidente è progressivamente passato da un modello paternalista, secondo il quale tutte le decisioni dovevano essere prese dal medico e da tutto il servizio sanitario che si prendeva cura del paziente, ad un modello autonomista, secondo il quale il paziente avrebbe il diritto di scegliere il suo destino ed esprimere la propria volontà[2]. Il primo modello sembrerebbe guidato da quello che in francese è definito con il termine di principe de bienfaisance (ovvero, “principio di benevolenza”): secondo tale criterio, solo il medico può agire secondo il bene e del paziente e per la sua salute; sarebbe soltanto costui, l’unico quindi a decidere a-priori ciò che è bene e ciò che invece potrebbe essere fonte di malessere.

Il secondo, invece, farebbe risiedere la capacità decisionale unicamente nel paziente, in quanto soggetto completamente libero di prendere delle scelte riguardanti l’interruzione o meno di un trattamento terapeutico. A tale scopo nel 2002 in Francia, la legge n° 2002-303 del 4 marzo[3]avrebbe lo scopo di definire, all’interno del quadro dei diritti del malato e della qualità del sistema sanitario, il riconoscimento giuridico dell’autonomia del paziente, anche qualora questi manifestasse il rifiuto di un trattamento.

 Aucun acte médical ni aucun traitement ne peut être pratiqué sans le consentement libre et éclairé de la personne, et ce consentement peut être retiré à tout moment[4]».

( Trad. : « Nessun atto medico, né alcun trattamento può essere praticato senza il consenso libero e informato della persona, e questo consenso può essere ritirato in ogni momento».)

 Come prendere una decisione se è la coscienza del paziente a venire meno, nel momento in cui la sua capacità di intendere e volere scompare? Come può costui capire ciò che è bene o male per sé, se la sua situazione psichica è già parzialmente compromessa? Può davvero ritenersi autonomo nella scelta? C’è qualcun altro che, in caso contrario, può davvero decidere per la sua vita?

Uno dei tratti della condizione umana, lo sappiamo bene, è la finitudine. La vita ci viene tolta, proprio come ci viene data.

Ciò che inoltre distingue l’essere umano dalle cose, lo abbiamo detto, è la dignità, considerata come quella qualità che valorizza ciascun essere umano in quanto insostituibile ed unico nella sua specificità.

Sono pertanto queste due caratteristiche, finitudine da un lato e dignità dall’altro, a entrare in gioco nel momento in cui trattiamo la dibattuta questione etica dell’eutanasia.

Una cosa, infatti, è mantenere artificialmente un corpo in vita e volere a tutti i costi che il suo cuore batta grazie all’uso delle macchine, nonostante l’assenza evidente di una vita psichica, un’altra cosa è comprendere che, talvolta, è giusto lasciare andare la persona cara, poiché la morte potrebbe divenire una sorta di liberazione de quel peso che schiaccia non più una vita, ma solo un corpo inerte.

L’eutanasia è vietata in nome della legge. Nessuno dunque può porre fine alla vita di una persona, nemmeno quando è quest’ultima a domandarlo.

Oggi anche quella ragazza dagli occhi grandi se n’è andata.

Un altro angelo è lassù che mi protegge oramai.

Tuttavia, a volersene andare, è stata proprio lei.

Ha smesso di respirare e ha lasciato quel letto in punta di piedi, alzando al cielo quelle ali che, finalmente, potevano respirare il profumo della libertà.

 

[1] I. KANT, Fondements de la métaphysique des moeurs, Le Livre de Poche, Paris, 2014.

[2] M. MARZANO, Je consens, donc je suis, PUF, Paris, 2006.

[3] Ibidem, p. 77.

[4] Ibidem, p. 76, rif. alla legge n° 2002-303 del 4 marzo 2002, art. L. 1111-4.

 

Sara Roggi

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“ Il telefono che squillava a vuoto…nessuna risposta…e io capivo che quella sarebbe stata l’ennesima terribile notte per me e le mie figlie…”

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La libertà che non osiamo

Se ne potrà dedurre quella che è probabilmente la verità ultima del puzzle: malgrado le apparenze, non si tratta di un gioco solitario: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro.

(Georges Perec, La vita. Istruzioni per l’uso)

Possiamo davvero dirci liberi? Che cosa è la libertà? Read more