L’invisibile potere del digitale: dove ci trasportano le sue correnti?

Nel 2006 il sociologo americano Aneesh ha coniato la parola algocracy, per indicare l’emersione del dominio e del potere degli algoritmi all’interno della struttura e dell’ordine sociale. Ogni momento della nostra esistenza sembra sempre di più collegato all’ecosistema digitale, che smonta la classica dicotomia tra il pubblico e il privato, tra ciò che fa parte della nostra intimità e ciò che ci determina davanti agli occhi degli altri. Ed è così che l’avvento del digitale può essere sottoposto a più di una lettura. La prima corrisponde a una visione positivista, attraverso la quale consideriamo la nuova società come ricca di promesse, di aperture, di crescita, soprattutto di maggiore consapevolezza di sé, delle proprie scelte e azioni sia in ambito sociale sia in ambito politico. Niente di più vero. Ma non finisce qui. L’analisi diventa più profonda ed è lì che la visione prende una piega (o tante pieghe) diversa.

Proviamo a leggere la rivoluzione digitale come una controrivoluzione. In associazione a premesse rosee e cariche di aspetti positivi, contestualmente si è sviluppato uno strano indebolimento delle libertà individuali, che si può cogliere dalle emergenti dinamiche di potere. L’ambiguità del nuovo assetto sociale – nella sua apparenza così liberale e democratico – nasconde un assoggettamento trasparente. Può essere definito in questo modo giacché a prima vista non si nota, ci passiamo attraverso, senza nemmeno notarlo.

«Proprio là dove non viene tematizzato, il potere è indiscusso; più grande è il potere, più silenziosamente agisce. Esso accade, senza bisogno di segnalarsi in modo clamoroso.» (B.C. Han, Psicopolitica, 2016)

Certo, non si intende dire che siamo schiavi di un regime totalitario con a capo un tiranno, ma ci siamo trasformati a mano a mano in dipendenti volontari. Lo (psico)potere non agisce in maniera violenta, bensì con benevolenza: la libertà non viene mai negata, ma usata e sfruttata. Proprio per questo motivo non esiste la figura conclamata di dittatore che gestisce il classico potere disciplinare. La società algocratica, infatti, ci rende complici attivi della nostra stessa sottomissione. Ne abbiamo bisogno perché riceviamo una quantità esponenziale e sempre più crescente di stimoli, provenienti dall’habitat digitale in cui siamo immersi, che si trasformano in desideri, in un continuum che è diventato tipico dell’assetto sociale. Tra innumerevoli scelte che possiamo compiere in maniera consapevole e razionale, alla fine preferiamo che le nostre azioni ci vengano ‘consigliate’: “Che cosa mi consiglia Netflix da guardare?”.

Può venire in mente l’amara considerazione che fa Shoshana Zuboff sulla perdita di autonomia profonda dell’individuo: ognuno di noi rappresenta un capitale (umano) e la sua esperienza un surplus di esso. (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, 2019).

Il capitalismo digitale si insinua senza freni in tutte le menti, inevitabilmente.
E se viene instillata un’ideologia, che cosa rischiamo?
Per esempio, se un’ideologia diventa egemonica, senza che gli individui sociali la riconoscano come tale, interiorizzandola, la potrebbero applicare come unico modello possibile. Allora, il pericolo è l’ottenimento di una conformazione sociale e di un appiattimento degli individui, fino a raggiungere la loro pacifica obbedienza, a scapito della consapevolezza e personale e collettiva.

Questo pensiero può ricordare il racconto in cui dei pesci che si chiedevano cosa fosse l’acqua di David Foster Wallace. Ancora oggi non sappiamo effettivamente cosa sia l’acqua in cui navighiamo. La rete per noi rappresenta un archivio potenzialmente infinito di informazioni e di dati, ma i confini e i limiti del suo corpo sono ancora troppo poco conosciuti, come anche i modi inediti attraverso i quali genera nuove forme di interazione. Pur vivendoci, non sappiamo dove inizia e finisce l’asse di potere, da che parte si orienta e in che direzione ci conduce. Le mutazioni a cui siamo sottoposti e le possibili e variegate forme di “dominazione silente” possono rappresentare una grande sfida sociale, per ripensare ciò che siamo e vogliamo essere e in che genere di relazione viviamo con gli altri e con l’ambiente. 

Dobbiamo scegliere, allora, se incarnare il personaggio dantesco di Ciacco, abbuffandoci di dati e di informazioni, senza assumere una prospettiva che rifletta la direzione verso cui stiamo procedendo al fine di diagnosticare quali sono i possibili effetti collaterali per noi e per il nostro futuro. Oppure possiamo potenziare la nostra intelligenza collettiva, per ripensare criticamente il rapporto tra la conoscenza, l’uomo, la realtà e la tecnica. Il pensare riflessivo e collettivo permette, infatti, agli individui di non cadere nella spirale dell’automatismo, ma di svegliarsi dal torpore cognitivo.

 

Ilaria Turrisi

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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La forza gentile delle donne

Quel giorno, erano le 11.30, stavo tornando a casa in macchina. Ascoltavo un po’ di musica alla radio, quando la vettura che mi precedeva si ferma di colpo. Mi accorgo di movimenti concitati nell’abitacolo. Fermo anch’io la mia corsa. Affianco l’auto. Vedo l’uomo sferrare un pugno alla donna che sedeva dietro, accanto a suo figlio. Un’altra auto sopraggiunge. Faccio segno all’uomo di fermarsi subito. Mi manda a quel paese. Scendo dalla macchina e gli vado contro. La donna, che era alla guida di quell’altra auto, mi affianca. Esce un tesserino dalla tasca. Lui cambia espressione. La donna chiede alla signora cosa stesse accadendo. Abbiamo visto tutto, la possiamo aiutare. Lei – ricordo ancora quello sguardo – mette la mano sulla spalla dell’uomo. “Nulla. Non sta accadendo nulla. È mio marito. Andiamo a casa”. L’uomo si allontana, impaurito (gigante di argilla). La donna ci ringrazia: “Grazie, ma ora andate via”.

 

Mi ricordo ancora il silenzioso urlo di dolore di quella donna, soffocato nella vergogna. La dignità offesa. E poi il figlioletto, terrorizzato, muto testimone di tutto.

La violenza di genere è un fenomeno noto in ogni tempo. Antigone e Ipazia ci hanno raccontato le loro storie. Ma negli anni, purtroppo, poco è cambiato. Non sono mancate, certo, le motivazioni morali contro la violenza e in particolare contro la violenza su donne e bambini. Sono mancati invece quei meccanismi, quelle leve giuste per attivare nuovi processi culturali, istituzionali, politici, legislativi. Ha ragione Luisa Muraro quando, provocatoriamente, scrive: «la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle» (L. Muraro, Dio è violent, 2012).

Quella tanto cara ragione moderna, dell’uomo adulto, universale ed emancipata, si è rivelata una gabbia di ferro, funzionale al controllo generalizzato. Quel pensiero non ha solo voltato le spalle alle donne, ha aggiornato i modelli di subordinazione, di sottomissione. Una razionalità tanto lontana dal privilegiare l’intersoggettività, il rapporto con l’altro, la concretezza, l’attenzione al tempo presente, il pensiero circolare. Non ne faccio una questione ideologica o di appartenenza. È un fenomeno diffuso in tutte le società del mondo.

Alcuni anni fa, l’Orchestraccia rivisitò Lella (di Edoardo De Angelis), un classico della tradizione musicale romanesca, nella quale viene raccontata la storia di un femminicidio. Nel video dell’Orchestraccia, però, la storia cambia. Ci sono donne ferite, che portano i segni delle offese, ma che si rialzano e che cancellano da sole le tracce delle percosse, i lividi e le cicatrici. Quelle che vengono rappresentate sono donne che non cedono e non hanno paura di uomini violenti. Donne forti, ma di una forza differente; non quella, per intenderci, alla quale prelude la cosiddetta “legge del più forte” ma una forza immortale, vigente, effettiva e gentile, tutta rivolta alla pace, direbbe Maria Zambrano. Questa forza cambia la storia strappando quel “velo di Maya” che nasconde la realtà delle cose, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione delle donne iraniane che si tagliano i capelli e si tolgono il velo. Sono gesti che allargano lo spettro semantico e simbolico di tutto quello che ci circonda.

La violenza non è solo quella del sangue e del corpo. È violenza anche la sottrazione di beni, materiali e non. C’è la violenza psicologica e dei sentimenti. L’ingiustizia, l’emarginazione, l’isolamento, il pregiudizio: sono espressioni di una violenza nelle relazioni sociali, spesso accompagnata da una violenza nell’interazione comunicativa. Nessuno può dirsi estraneo, cognitivamente, a tutto ciò. Allo stesso tempo mi chiedo quanto sia motivata la nostra volontà e il nostro desiderio di uscire da questi cortocircuiti del pensare.
Me lo chiedo perché non si può cambiare la società con la violenza, anche se in fondo è quello che abbiamo sempre fatto o tentato di fare. L’azione violenta è la distruzione di ogni possibilità; è pura disperazione. Così come la legge del più forte è la negazione di ogni giustizia, di ogni bene. Io penso, invece, ad un’azione differente. Un agire non femminista, ma femminile, che liberi le donne dalla sofferenza di relazioni malate.

Una rivoluzione che è un “agire creativo”, ispirata al bene e alla giustizia, orientata da un pensiero dell’alterità e della differenza che, in una nuova alleanza donna-uomo, affermi ogni giusta pretesa e abbassi l’arroganza dei potenti, preluda a forme migliori dello stare insieme e dia parole nuove per nuovi pensieri. Mi riferisco a un’azione “disobbediente”, non alle leggi, ma al pensiero conformista della maggioranza e all’indifferenza, e che aiuti tutti ad essere persone migliori.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Katherine Hanlon via Unsplash]

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Vivi e fai vivere: la biopolitica spiegata in sei sorsi

#biopolitica: prima della pandemia, l’hashtag era di tendenza solo per filosofi &Co.; con la pandemia, le cose sono alquanto cambiate. Se vorrai fare bella figura al prossimo aperitivo mascherato e se hai amici sufficientemente strani, potrai dire che hai seguito un mini-corso per spiegare di che cosa si tratta mentre bevete un cocktail in sei sorsi1. Se la cosa funziona, potrai chiedere in cambio che il cocktail ti venga offerto. Che la bevuta abbia inizio!

Sorso1. L’idea-base è che il potere sovrano regnava e comandava, cioè dettava legge e decideva chi vive/muore, mentre il potere biopolitico regola e mobilita, cioè norma le condizioni di vita e fa vivere. Disclaimer fondamentale: non si parla semplicemente del potere centrale statale, ma del modo in cui il campo sociale si organizza e articola i rapporti di forza. Il potere riguarda quindi non soltanto politici, sacerdoti e militari, ma anche genitori, famigliari e insegnanti, e poi ancora medici, tecnici ed esperti: sono figure con ruoli e pesi diversi, ma tutte rappresentano forme di potere!

Sorso2. Siamo al cuore della faccenda: abbiamo biopolitica quando la preoccupazione pubblica diventa l’amministrazione e la gestione della salute, cioè il modo in cui i cittadini vivono. Se un Re era un Padre Padrone assoluto, che teneva a bada i sudditi brandendo il diritto di ucciderli a piacimento, un governante biopolitico è un amministratore delegato, incaricato della governance della sanità del corpo sociale in senso ampio, cioè delle varie dimensioni del benessere e della salute pubblici. Bisogna innanzitutto ringraziare la medicina, che ha migliorato le condizioni di vita, e la statistica, che ha reso le popolazioni l’oggetto di un sapere. Il tocco finale arriva oggi con la combo “biotecnologie + digitale”: la sorveglianza diventa capillare e quasi penetra le menti, la vita viene (ri)prodotta in laboratorio e l’estrazione di dati di ogni tipo si fa al contempo massiva e personalizzata. Si apre la possibilità di monitorare costantemente le condizioni di vita – con annessi problemi, perplessità e reazioni.

Sorso3. Insomma, biopolitico è il governo (nonché il cittadino) che si premura tanto di permettere quanto di regolare un’azione come il bere alcolici, in pubblico e in privato: a un Re, questi sorsi sarebbero interessati ben poco, paradossalmente. Ecco il motto del biopotere: vivere e far vivere – a certe condizioni. La vita va prodotta, gestita, alimentata e regolata; le sue prestazioni vanno protette, potenziate e arricchite: come sempre, questo ha un lato positivo e uno negativo. Il bright side è l’opportunità di coltivare e sfruttare la vita, cioè di renderla il più possibile lunga, ricca e salutare; il dark side è che mantenere e curare la vita diventano una preoccupazione primaria, perché prima di vivere bisogna innanzitutto sopravvivere. Da qui il rischio: sacrificare il ben-vivere per il mero sopra-vivere, ritrovandosi in una condizione invivibile.

Sorso4. La domanda sorge allora spontanea: il biopotere è meglio o peggio del potere sovrano? I filosofi direbbero che la domanda è mal posta: in realtà essi sono diversi – banale ma vero. No, non farti distrarre dal sogno di una radicale abolizione di ogni forma di potere: dove ci sono esseri umani, là c’è anche un qualche potere. Ma non disperare, perché se il modo in cui funziona il potere si trasforma, cambiano anche i modi in cui resistere a esso: dove c’è potere, là c’è anche resistenza. Come posso dunque bioresistere? Risposta: almeno in due modi, uno più contenitivo e uno più opportunista. Sotto con gli ultimi sorsi!

Sorso5. Il primo modo prevede una radicale opposizione al potere: non accettare che altri decidano che cosa è giusto per la tua salute, che esista davvero una generica salute collettiva, che «biosicurezza» e «nuda vita» diventino i valori sociali per eccellenza a discapito per esempio di privacy, libertà, uguaglianza e prossimità. Oppure, si può proprio rifiutare l’invito al continuo lavoro su di sé, perché esso è una violenza mascherata da vantaggiosa offerta.

Sorso6. Il secondo modo prevede di fare libero uso del potere: mettersi a dieta, fare self-building, nel senso ampio di auto-regolarsi, curando la salute e il benessere del sé, anche a prezzo di una certa ansia e stanchezza da prestazione. Oppure, si può allargare il raggio d’azione, spendendosi anche nella cura del mondo: nella salvaguardia e promozione della vita delle generazioni presenti e future, come anche dell’intero globo e della vita stessa – Biopolitics for Future. Sembra impegnativo, ma per fortuna dopo sei sorsi nulla è impossibile!

Che dici, basterà per riuscire a scroccare il prossimo cocktail?

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Per avere un’idea della copiosa letteratura sul concetto, basta consultare un motore di ricerca. Posso qui almeno celebrare il “peccatore originale”: il M. Foucault di Storia della sessualità 1. La volontà di sapere e Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976) (Feltrinelli, Milano 2013 e 2020).

[Photo credit unsplash.com]

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Minoranze: la potenza del divenire secondo Deleuze e Guattari

«Minoranza e maggioranza non si oppongono soltanto in modo quantitativo. Maggioranza implica una costante, d’espressione o di contenuto, come un’unità di misura in rapporto alla quale essa può essere valutata. Supponiamo che la costante o l’unità di misura sia un qualsiasi Uomo-bianco-maschio-adulto-cittadino-parlante una lingua standard-europeo-eterosessuale (l’Ulisse di Joyce o di Ezra Pound). È evidente che “gli uomini” sono in maggioranza, anche se sono meno numerosi dei moscerini, dei bambini, delle donne, dei Neri, dei contadini, degli omosessuali, ecc. Ciò dipende dal fatto che l’uomo appare due volte, una volta nella costante, una volta nella variabile da cui si estrae la costante. La maggioranza presuppone uno stato di potere e di dominazione, e non il contrario. Essa presuppone l’unità di misura, e non il contrario.»
(G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani, 1980.)

La supposizione presentata da Deleuze e Guattari in questa pagina di Mille piani sembra oggi quantomeno fondata. Lo era anche nel 1980, quando l’opera venne pubblicata, ma ai nostri giorni, nei tempi più maturi del capitalismo avanzato, affermare il dominio dell’Uomo pare quasi scontato. La maggioranza ha talmente plasmato il modo in cui noi occidentali concepiamo il mondo che le voci delle minoranze iniziano a farsi ascoltare quando gli effetti di tale dominio sono ormai evidenti anche a chi ha cercato in tutti i modi di non vederli. Se le violenze perpetrate nei secoli al genere femminile, alle popolazioni indigene e non occidentali, agli omosessuali – solo per fare alcuni esempi – rimanevano in un certo senso all’interno del contesto umano delle relazioni, la crisi ecologica attuale apre a dimensioni ancora insondate dalle minoranze stesse. Solo negli anni più recenti, infatti, il confronto con le dinamiche ecologiche che minacciano la sopravvivenza del genere umano hanno acquisito quella rilevanza che non era più possibile occultare.

Per quale motivo il silenzio è perdurato così a lungo? Perché le minoranze coinvolte nella crisi ecologica parlano altre lingue rispetto a quelle che siamo stati abituati ad ascoltare nell’ambito delle contestazioni umane. Non a caso, il passo citato proviene dal capitolo Postulati di linguistica, presente in Mille piani. Assistiamo a un salto comunicativo che esula dalle forme consolidate di interazione linguistica: dobbiamo entrare in comunicazione con il non-umano attraverso altri codici che non siano quelli di una scienza impostata sulla coppia epistemologica soggetto-oggetto. Dobbiamo sperimentare altri idiomi e altri dialetti. La crisi ecologica ci impone perciò di ripensare non solo la natura delle relazioni che intercorrono tra le minoranze e tra queste e la maggioranza, ma anche il rapporto che sussiste tra maggioranza e minoranze umane, considerate assieme, e quel sottoinsieme sterminato che paradossalmente le comprende tutte: il non-umano (il cosiddetto “ambiente”).

Ma cos’è una minoranza? Minoranza è divenire, dinamismo, è il movimento che anima i cambiamenti di qualsiasi evoluzione. Mentre il potere esiste per perpetuare se stesso, la minoranza lavora nel sottosuolo attraverso vibrazioni dapprima impercettibili e poi sempre più potenti, fino a far crollare dalle fondamenta la poderosa fortezza che si trova in superficie. Per questo motivo, Deleuze e Guattari affermano che «Non vi è divenire maggioritario, maggioranza non è mai un divenire. Non vi è divenire se non minoritario» (ivi).
D’altronde, perfezione significa massima compiutezza, ciò che non può e non deve cambiare in quanto già completamente realizzato. La maggioranza è perfezione, e difatti la più alta raffigurazione dell’Uomo corrisponde al Vitruviano di Leonardo. Con questa immagine, Rosi Braidotti, allieva di Deleuze – oltre che di Foucault e Irigaray – e autrice di molti saggi di riferimento nel panorama della filosofia femminista e della nuova “svolta postumana”, inizia il proprio manifesto su quest’ultima corrente di pensiero, intitolato appunto Il postumano. L’eco di Deleuze è lampante:

«All’inizio di tutto vi è Lui: l’ideale classico dell’Uomo, individuato dapprima da Protagora come “la misura di tutte le cose”, poi innalzato dal Rinascimento italiano a livello di modello universale, rappresentato da Leonardo da Vinci nell’Uomo Vitruviano. Un ideale di perfezione corporea che, in linea con il detto classico mens sana in corpore sano, evolve verso una serie di valori intellettuali, discorsivi e spirituali. Insieme, fondano una precisa concezione di cosa dell’umanità sia umano.»
(R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, 2013)

A questo punto rimane da domandarci: ha ancora senso voler essere “la misura di tutte le cose?” Vogliamo davvero la perfezione?

 

Petra Codato

 

[Photo credit Kris Mikaele Krister via Unsplash]

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La parola di una donna e la violenza epistemica

«Dire che la parola di una donna non è bastata a far calare la scure della legge su Harvey Weinstein è esatto ma incompleto. La verità è più sgradevole. Nella primavera del 2015 il produttore di Hollywood riconobbe di aver messo le mani addosso a una donna senza il suo consenso, ma per la procura non fu abbastanza per mandarlo a processo».

Questo l’esordio dell’articolo Cento donne contro Harvey Weinstein, traduzione italiana dell’originale pubblicato non molto tempo fa sul New York Magazine. L’articolo descrive i passaggi che hanno condotto a processo il produttore cinematografico, accusato di decine di stupri e molestie. Sappiamo che in seguito la condanna è stata fissata a ben 23 anni di carcere. Quindi, riguardo al caso, potremmo esserci messi tutti il cuore in pace. E invece no.

Nel leggere l’articolo, un’affermazione mi ha colpita più delle altre, ovvero quella pronunciata dall’avvocato di Weinstein: «Se non vuoi essere una vittima, non andare nella stanza d’albergo». Di più, mi ha colpita il fatto che tale avvocato sia una donna. Infatti continua: «Quando noi donne non vogliamo accettare certe responsabilità per le nostre azioni, ci comportiamo da bambine». Ripetere per l’ennesima volta che viviamo in un mondo ancora profondamente maschilista non sarebbe inutile ma mi preme, piuttosto, sottolineare un altro aspetto. Propongo infatti una breve riflessione su un concetto che non viene spesso evocato, ma che considero particolarmente efficace, ossia quello di violenza epistemica.

Il termine, coniato da Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa statunitense di origine bengalese a noi contemporanea, va a indicare la relazione che si instaura tra dominanti e subalterni, analizzandola da un punto di vista simbolico. In particolare, il meccanismo che si crea è quello di una introiezione delle categorie elaborate da chi domina all’interno degli strumenti cognitivi di chi viene dominato. Questa forma di violenza, secondo Spivak, è più pericolosa e subdola di altre, dal momento che non viene individuata come tale ed è dunque più difficile da estirpare. Facciamo un esperimento. Quanti di voi provano una sensazione di profondo fastidio ogni volta che sentono utilizzare la parola uomo per indicare l’intero genere umano?

La filosofia occidentale, antica, moderna e contemporanea, è costellata di affermazioni sull’uomo e la sua natura, il suo valore, la sua dignità. Vi è un’enorme portata epistemologica nella differenza che sussiste quando si parla di natura dell’uomo e di natura dell’essere umano; differenza che, nella lingua italiana, è particolarmente esplicita. Si tratta dell’assegnazione o meno dello statuto di soggetto a metà dell’umanità. Banalmente, nel nostro immaginario comune, si può definire soggetto colui che parla e che agisce. Chi parla quando ci si riferisce all’uomo? Chi ha compiuto le azioni che vengono riferite all’uomo? La risposta è scontata. Si potrebbe obiettare che, per quanto riguarda la storia e la storia della filosofia, è corretto parlare dell’uomo maschio come unico soggetto, dal momento che le donne hanno ricoperto un ruolo del tutto marginale nella storia. Ma è sufficiente non agire per non essere responsabili? Qui è il punto cruciale. Davvero non hanno nessuna colpa le donne che non hanno immediatamente denunciato i crimini di Weinstein, magari accettando una somma di denaro in cambio del silenzio?

Per il filosofo francese Gilles Deleuze (1925 – 1995) la gioia consiste nell’effettuazione di una potenza, intesa come attuazione di sperimentazioni vitali che eccedono l’individuazione personale. Potersi trasformare continuamente in qualcosa d’altro, facendo esperienza di tutte le sfaccettature del mondo e intrattenendo con esse una relazione profonda, proprio perché diveniente. Il che è molto diverso dall’idea che è penetrata all’interno del nostro immaginario comune e che è quella della potenza come sopraffazione sull’altro. Quest’ultima corrisponde invece, secondo Deleuze, al potere. Egli infatti sostiene che qualsiasi forma di potere è di per se stessa malvagia, dal momento che impedisce la realizzazione di quella stessa potenza vitale che prima citavamo, producendo debolezza. In questa concezione, dunque, ogni potere è intrinsecamente violento. Su quest’ultimo punto si potrebbe discutere in eterno, ma una cosa è sicura: è necessario riconoscere la violenza come tale, in qualunque modo essa si presenti, prima di poterla combattere. Questo compito è più difficile per coloro che detengono il potere, spesso inconsciamente avviluppati nel meccanismo di riproduzione della violenza stessa, che si perpetua a livello culturale e sociale senza guardare in faccia nessuno. 

Ma anche i subalterni hanno una voce, sebbene forse sia più comodo pensare di non poterla usare.

 

Petra Codato

 

[Photo credit Tim Mossholder via Unsplash]

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Quel che resta dell’antropologia

L’antropologia è una disciplina che mette ordine. Reinserisce ogni attore nella sua area di azione e lo rileva nella sua forma agentiva. In questo modo lo valorizza nel suo potenziale e nei suoi atti; riconosce i legami e le economie di potere che lo influenzano e che instaura coi presenti; colleziona quante più dinamiche possibili prima di asserire qualsiasi cosa. Calibra il giudizio anche su quegli elementi che normalmente restano ignoti o vengono misconosciuti. È una disciplina che ricerca l’etica, e la risveglia, in mezzo a intricatissime panoramiche. Quindi si può dire che le sue scoperte si producono nei suoi allievi. Il mantra è che la cultura è un farsi umano, un improvvisarsi situazionale, un incontrare, un comunicare e un plasmare sempre “in viaggio”1; un fare che non ha riscontri oggettivi, ma solo frontiere da varcare e da fuggire, storie da narrare.

L’antropologia però nasce come disciplina etnocentrica: come emissaria dell’imperialismo. Nei decenni, studiando l’uomo altro, si è stupita delle numerose similitudini tra la propria casa e quelle dell’uomo altro, annotandosele entusiasta. Ma procedendo e approfondendo questi temi, si è resa conto di quanto quelle somiglianze fossero inesistenti, arbitrarie, perché ricondotte soltanto alla propria personale singolarità, nel soggettivo, nell’interpretato, in un percorso unidirezionale che finiva col giustificare un pensiero ingenuo. Ingenuo perché troppo accasato nella comodità dei propri dogmi. Quelle somiglianze servirono solo che alla trascesa verso un ascolto orizzontale, il quale, nel suo praticarsi, ha portato alla luce un sapere che fa della dolcezza − e della disillusione − la sua forza.

L’antropologia pervade come un fiume, non invade come una montagna. È una disciplina che disegna e traccia cosmi a partire da una materia rarefatta che è la vita stessa nelle sue prolifiche espressioni. L’antropologia, in ultima, e in realtà primissima analisi, è uno studio sulla vita che si esprime. Ma è anche della vita che si esprime, della vita rappresentata dal singolo ricercatore, la quale si adopera per riconoscersi, rappresentarsi, aiutarsi e coinvolgersi nella cura di sé. L’antropologo dovrebbe dunque essere anzitutto un amante della vita. Di quella vita che si medita nel dialogo che è prassi tipicamente umana, di quella vita che trascende le parti per mostrarsi sopra e insieme ad esse, e soprattutto di quella vita – eccolo il trucchetto – che parla al di là dello scambio duale, al di là delle simmetrie e al di là delle rappresentanze.

La vita da amare ha un lato selvaggio, e ogni cosa d’amare ha qualcosa di pernicioso che bisogna riconoscere. In ogni parola e in ogni gesto, in ogni risposta che questi atti producono, si sollevano moltitudini di volti e concerti di nomi, si sente la presenza di narrazioni sgargianti, si ode lo scalpiccio di un milione di cammini. Fasci di luce che rimbalzano e impressionano da uno specchio all’altro. Nella voce di chi parla ci sono le parole e le idee di chi egli ha ascoltato, e nelle nostre domande risuonano le cantilene di chi vediamo ogni giorno, e a volte anche quegli episodi singoli, legati a un vecchio sconosciuto, che stranamente ci rendono nostalgici. Il mondo e la vita sono relazioni: l’antropologia è la disciplina che ne fa una certezza.

Ancora di più, l’antropologia guarda e contempla gli “attriti”2. Quelle regioni di contatto tra forze opposte, quei fenomeni imprevedibili, saturi di storia, che scintillano quando un universale cerca di espandersi in un contesto particolare. Succede che l’universale non è più universale e perde se stesso: può perdere il suo mondo. Le cose “non vanno come previsto”, un’intenzione, pur positiva, fallisce nel suo scopo, poiché si è avvicinata al prossimo con una valigia piena di idee mai scartate, mai tolte dalla scatola. Ammirate soltanto, desiderate, servite, mai capite, mai offese. Quindi un incontro diventa foriero di delusioni; e al richiamo di quelle delusioni, che tradiscono il desiderio esistente di capirsi per un motivo o per un altro, giunge l’antropologo col suo linguaggio saggio e calmo, improntato alla tolleranza, all’onestà e alla liquidità. L’antropologia è dunque amore per il limite: un ascolto. È un sapere che si produce nelle Zone, nelle aree magiche fuori casa, dove i saperi sono solo strumenti: quindi è una coscienza. È una colta amante viva nelle regioni dove gli attriti dettano l’andamento del quotidiano e palesano i neuronali filamenti che avvolgono il pianeta.

Se c’è una cosa che accomuna l’antropologia alla filosofia è la reciproca assenza di forma. La filosofia, è vero, costruisce le sue forme, cerca di dare un assetto al mondo, ma se è profonda e sincera con se stessa sa anche discutere quell’assetto e sa farsi da parte quel che basta per accogliere altre riflessioni. Una filosofia forte sa amare la sua opinabilità. L’antropologia, questo fantasma disciplinare che perde sempre più oggetti, dispensa buoni, ottimi consigli. Risveglia l’etica, appunto, ci rammenta la nostra arbitrarietà e insieme la nostra libertà, quindi la possibilità di amare quella stessa arbitrarietà. Ci porta a contemplare il fondo comune che alla fine non è nulla: una patina di vuoto che possiamo pensare come il divenire, il movimento. L’antropologia scioglie l’universo e lo rende semplice. Parla, guizza, espone, per poi scomparire. E in quel momento speciale, dopo che hanno scoperto chi sono, i coinvolti si trovano a dover rispondere a un invito disarmante: riconoscere il proprio potere e prendere una decisione.

 

Leonardo Albano

 

NOTE:
1. Cfr. J. Clifford, Culture in viaggio, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, 1999
2. Cfr. A. L. Tsing, Friction. An ethnography of global connection, Princeton University Press, 2005

 

[Photo credit: Adolfo Félix via Unsplash.com]

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Il senso e la sofferenza nel mondo moderno

<p>Blocking the sunset on a perfect afternoon</p>

Nietzsche, ne La genealogia della morale, ha posto le basi per una interpretazione del senso che l’uomo ha dato alla propria esistenza: nella terza dissertazione, precisamente il primo e l’ultimo paragrafo, viene ribadito come l’umanità attraverso l’affermazione, l’accettazione e la propagazione degli ideali ascetici, abbia voluto dare un senso, quello del nulla, piuttosto che il non volere.

Nel paragrafo sette della seconda, invece, spiega come l’uomo, attraverso la spettacolarizzazione delle proprie sofferenze, grazie all’invenzione degli dèi-spettatori, ha dato così un senso alle proprie pene: il soffrire che deriva dall’esistenza stessa, si ricordi il mito di Silone ne La nascita della tragedia, non sarebbe sopportabile per l’umanità, proprio perché la sofferenza stessa non ha alcun senso e proprio per questo si deve darne uno, fingendo che ci sia qualcuno a osservarci.
Inoltre, la religione greca, l’unica che per Nietzsche non colpevolizza l’uomo, cioè non indirizzando il dolore verso se stesso, ha il pregio di indirizzare la colpa del destino umano e delle sventure verso l’esterno, cioè verso gli dèi, invece che praticare quella interiorizzazione che diverrà propria del cristianesimo, sulla scia dell’ebraismo, il popolo del ressentiment.

Sulla stessa scia si pone un altro autore, un antropologo romeno: Mircea Eliade. Nel suo saggio degli anni ’40, Il mito dell’eterno ritorno, lo studioso descrive come la ciclicità delle azioni e del tempo sia stata presente nella nostra specie fin dai primordi, prolungandosi fino al cristianesimo e operando tuttora nella liturgia che si esegue ogni domenica. Questa ripetizione di archetipi, di gesti che sono stati compiuti da eroi illo tempore, non è altro che lo strumento di difesa, la barriera, che l’uomo ha innalzato di contro a una esistenza che, come abbiamo detto con Nietzsche, non ha alcun senso. La ripetizione, il continuo rinnovarsi nella cosmologia, l’eterno ritorno dell’anno non è altro che la realtà che si riempe di senso. La sofferenza, se sopportata dagli eroi illo tempore, diviene meno crudele e l’esistenza può sembrare meno dura agli occhi di chi la vive ogni giorno. Solo gli ebrei, la classe sacerdotale, secondo Eliade, ha posto fine alla ciclicità, immettendo nel tempo la divinità e fissando il senso dell’esistenza nel futuro, con l’avvento del Messia.

Oggi, qualcosa è cambiato? Come si esprime il senso? Come viene giustificata la sofferenza umana?

Gli eventi recenti non danno molto spazio per una risposta positiva ai quesiti: la sofferenza umana, semplicemente sembra non avere più nessuna giustificazione. Da cosa deriva questo assunto così netto?

Il terrorismo, la crisi economica, la caduta dei valori religiosi e politici, quindi la crisi delle istituzioni, hanno fatto sì che la diffidenza, il dubbio si insinui sempre più all’interno dell’agire umano.
L’ultimo esempio è la grave decrescita di vaccinazioni, con il relativo dissenso verso la scienza, la quale è stata finora uno dei capisaldi della società umana. A questa teoria anti-vax se ne collegano altre che mettono in scena una vera e propria presa di distanza dal Potere, in ogni sua forma, il cosiddetto “pensare altrimenti”, di cui ultimamente Fusaro ha scritto.

Cosa significano queste teorie “complottiste”, come sono viste da molti? Esse tracciano il profilo di un nuovo modo di pensare la realtà che pone il dubbio come principio primo, arrivando a identificare il colpevole della sofferenza umana una entità indistinta, denominata “Poteri forti”.

Così, quello che Nietzsche aveva descritto come un fenomeno di introiezione, cioè l’uomo è arrivato a dare all’uomo la colpa di ogni sofferenza, ora, vi è un processo inverso: il colpevole è un essere altro, una entità quasi sovramondana ma che agisce e opera nel mondo.
Si potrebbe pensare che questo assomigli quasi all’attribuire la colpa a un dio, ebbene non è così, infatti, mentre il dio è spettatore delle nostre sofferenze e non agisce perché confinato a una età mitica di cui ci restano solo le gesta e i racconti, questo tipo di entità nuovo è assolutamente neutro: non aspira a nessuna verità, non pone alcun obbligo, non interagisce con l’uomo. È assolutamente intangibile, invisibile e indescrivibile.
La tendenza dell’uomo di voler trovare un senso alla propria sofferenza sta lentamente cozzando contro la consapevolezza che non esiste alcuna giustificazione alle scelte umane, che non sono guidate da nessun fine se non affermare la propria esistenza, assicurandola all’idea di una momentanea sopravvivenza immortale, manifestata attraverso la ricchezza e lo status sociale.
La situazione della nostra civiltà, attraverso la perdita di qualsiasi senso, sembra quasi votata all’autodistruzione e all’implosione, nella mera ricerca di sopravvivere, come un Macbeth che sfida, stremato ma ostinato, il proprio destino che egli stesso ha contribuito a costruire.

 

Edoardo Poli

Nato a Velletri il 14 febbraio 1996, mi sono diplomato al Campus dei Licei “Massimiliano Ramadù”, ad indirizzo scientifico.
Vivo e studio a Pisa presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pisa. Ho pubblicato un libro di poesie nel 2015, attualmente scrivo per altre riviste, tra cui “Artspecialday” e “Momus”; fortemente interessato ad argomenti sia scientifici che umanistici, secondo quella unificazione della cultura umanistica e scientifica, tipica dell’approccio complesso.

La neutralità del conflitto

In questi giorni il mondo ha di nuovo volto il suo sguardo verso il Medio Oriente, verso un conflitto che ancora non ha trovato pace: quello israelo-palestinese.

Sicuramente la cosiddetta crisi della Spianata ha origini ben pregresse, ovvero non è iniziata quel fatidico giorno del 14 luglio scorso, bensì ben prima.

Il mondo, in tutto questo tempo, ha deciso di allontanarsi da quella crisi, quando forse si sentiva troppo stanco per poter trovare una via di fuga e una soluzione.

La crisi potrebbe essere identificata in quel processo di normalizzazione che porta all’abituarsi di una situazione che normale non è. La normalizzazione, infatti, può essere intesa come un processo in cui relazioni – politiche, economiche, sociali, culturali – assumono un carattere “normale” appunto.

La riflessione che voglio portare avanti coinvolge proprio il concetto di conflitto.

Quando si pensa ad esso le immagini che vengono a delinearsi nella nostra mente sono il più delle volte immagini negative: scontro, rottura, trauma, guerra, violenza. Consideriamo, pertanto, il conflitto come qualcosa da evitare. Eppure, il conflitto in sé è un qualcosa di neutrale e ciò che lo porta ad essere negativo o positivo sono i meccanismi e le forme che vengono usate per affrontarlo.

È inoltre importante tenere a mente che esso è parte inevitabile della vita sociale da un lato e della sfera individuale dall’altro. Quante volte siamo stati in conflitto con noi stessi? Non è stato forse un motivo di crescita?

Così, “prevenire i conflitti”, nel senso di non affrontarli ed evitarli, possiede connotazioni decisamente negative. Invece, se intendiamo il concetto di “prevenzione dei conflitti” come uno sviluppo di abilità, atteggiamenti e comportamenti indirizzati alla risoluzione di conflitti in modo costruttivo, la connotazione che assume è positiva. Questo significa che lo sviluppo delle capacità e strategie che consentono di affrontare il conflitto stesso e impedirgli di giungere alla sua fase critica siano estremamente utili e necessarie.

È possibile quasi individuarne una struttura, la quale si compone di tre elementi: le cause, i protagonisti e il processo.

Potremmo, infatti, attribuire alle cause di un conflitto: le ideologie e le credenze, le relazioni di potere, gli aspetti personali e i rapporti interpersonali. Gli attori in gioco il più delle volte sono minimo due. E poi arriviamo al processo che si riferisce al modo in cui si sviluppa e si porta a risoluzione.

Detto ciò, sarebbe bello avere la “ricetta” per risolvere ogni tipo di conflittualità, dal personale a quello tra Stati e organizzazioni, ma non può essere così.

Quel che conta è non eluderlo, affrontarlo è dunque il primo passo per poter arrivare ad una soluzione.

L’atteggiamento che il mondo ha assunto in questi ultimi anni nei confronti della crisi israelo-palestinese non è stata sicuramente quella di sviluppare strategie risolutive. Il togliere dall’agenda tale tematica, sostenendo l’idea che Gerusalemme non fosse un problema globale – probabilmente c’è chi lo pensa tuttora – ha fatto sì che la crisi si alimentasse. È importante ricordarsi che l’essere stanchi dei tentativi andati in fumo per la pace tra Israele e Palestina non è una giustificazione per non affrontare il conflitto, così come non rappresenterà mai una giustificazione per non prendere in esame le nostre conflittualità.

Jessica Genova

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Nella fragilità la forza

Il nostro tempo esalta il potere, l’impulso, l’esibizione della potenza virile e la celebrazione oggettuale del corpo femminile. Il potere, in tutte le sue forme, s’impone nell’immaginario collettivo come la conditio esistenziale senza la quale non è possibile condurre una vita gioiosa e ricca di senso. Per questi motivi si vuole eclissare la fragilità umana. Essa viene considerata come una condizione svantaggiosa, un handicap da celare, un’esperienza inutile, immatura, priva di senso. Ma, afferma lo psichiatra Borgna: «La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche»1. Proprio nella fragilità infatti sono custoditi i più preziosi valori umani di sensibilità, partecipazione, empatia, comprensione della sofferenza e della gioia, spiritualità e slancio creativo.

I filosofi, sin dalle origini, testimoniano la fragilità dell’essere umano e la considerano come la caratteristica precipua del suo essere-nel-mondo, segnato dall’esperienza del limite, della finitezza, condizione essenziale però, per continuare a desiderare l’infinito. È sufficiente pensare alle agostiniane inquietudini del cuore, o riportare le parole di Pascal: «L’uomo non è che una canna, la più debole (fragile) della natura; ma è una canna pensante»2, o citare il passo di Etty Hillesum quando confessa al suo Diario, dunque a se stessa, che «gli altri – al pari di lei – sono altrettanto insicuri, deboli, indifesi»3.

Allo stesso modo dei filosofi, letterati e poeti trovano nella fragilità esistenziale la sorgente feconda per stendere versi di un’indicibile profondità evocativa. Fra molti, come non nominare Holderlin, Leopardi, Rilke e più recentemente Alda Merini. Costoro, scorticati dalla vita e riconosciutisi fragili, hanno steso versi che come musica, fanno breccia nei nostri cuori e nella nostra anima. Fragili le loro esistenze, fragili le loro parole che, proprio per questo penetrano gli abissi dell’interiorità. Sono i versi dell’umana fragilità, delle trepidazioni del cuore e degli insaziabili interrogativi della mente, dello slancio tragico ma irrinunciabile verso l’infinito. Inoltre, come non ricordare i colori intensi e le vorticose pennellate delle opere di Van Gogh. Artista in equilibrio instabile fra normalità e follia che ha espresso tutta la sua straziante, ma essenziale, fragilità, dipingendo tele che sono divenute a pieno diritto un patrimonio dell’umanità.

Le parole dei filosofi, i versi dei poeti e le espressioni artistiche possono aiutarci a recuperare, con uno sguardo nuovo, la nostra dimensione originaria, immersa nella fragilità, che è forza. È da essa infatti che emergono non solo gli slanci poetici, artistici, culturali e spirituali, ma pure gli incontri autentici fra persone che riconoscono la propria vulnerabilità (da vulnus, ferita) e che per questo sentono il bisogno esistenziale dell’altro, non per dominarlo come vuole l’ideologia del potere, ma per realizzare il desiderio di unione. Così lo psichiatra Andreoli: «La fragilità è l’antitesi […] del potere; poiché non vuole fondare nessuna supremazia sull’altro, semmai può solo sentire di averne bisogno. Fragile è colui che necessita dell’altro, di un altro uomo che è, per condizione, lui stesso fragile. È così che la fragilità di uno dà forza a quella dell’altro e rassicura colui che nel contempo ti sostiene»4.

Diversamente dall’ideologia della perfezione che domina il nostro quotidiano e che vuole vendere la bellezza esteriore come la sola, la fragilità richiama la vera bellezza, poiché si focalizza su ciò che una persona è nella sua essenza e non su come essa appare. La fragilità è friabilità del corpo e delicatezza dell’anima. Sperimentiamo la prima con l’insorgere di una malattia o di un handicap fisico e la seconda nella nostra misteriosa vita emotiva interiore. L’una può incidere sull’altra. Riconoscere la fragilità può aprirci ad un uso fine e ponderato delle parole, dei gesti e delle scelte che quotidianamente compiamo, al fine di non ferire l’altro da noi e piuttosto inserirlo in una relazione fondata sull’umiltà, il rispetto, l’amicizia, l’ascolto, la condivisione e la gratitudine dell’incontro.

In una società caratterizzata dall’ideologia del potere, del successo, dell’indifferenza e dell’isolamento è quanto mai importante educarsi a riconoscere la fragilità, non come tratto da biasimare o scarto da eliminare, ma come essenza ontologica della nostra individualità. Sono a questo punto edificanti le parole di Eugenio Borgna: «Quello che, agli occhi del mondo, appare come fragilità, come insicurezza o come ricerca di un infinito irraggiungibile, è il riverbero della luce ardente della speranza, di una speranza che rinasce dall’angoscia e dalla disperazione»5. Per questo, se guardiamo oltre la società dell’apparire, se con Fromm passiamo dall’avere all’essere, possiamo scorgere quel paradosso che Paolo di Tarso ha sintetizzato con indicibile chiarezza e profondità scrivendo, nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono debole (fragile), è allora che sono forte» (2Cor 12,10).

Per noi uomini, segnati dal limite del fallimento, della sofferenza e della morte, riconoscere che la fragilità non è un sintomo da curare, ma un’espressione irrinunciabile del nostro essere-nel-mondo, significa vivere con la consapevolezza che la forza non sta nel potere, che esaurisce ogni infinito, ma nella fragilità che l’infinito lo cerca instancabilmente.

Alessandro Tonon

NOTE:
1. E. BORGNA, La fragilità che è in noi, Torino, Einaudi, 2014, p. 5.
2. B. PASCAL, Pensieri, Milano, Edizioni San Paolo, 199612, p. 240.
3. E. HILLESUM, Diario 1941-1943, tr. it di C. Passanti, Milano, Adelphi, 201217, p. 68.
4. V. ANDREOLI, La gioia di vivere, Milano, Rizzoli, 2016, p. 110.
5. E. BORGNA, La fragilità che è  in noi, op. cit., p. 73.

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Ritratto di Roma, città di prospettive

Lo sanno tutti, definire Roma come la capitale d’Italia, quantunque insindacabilmente corretto, risulta in un certo senso limitativo, perché Roma è molto più di una grande città e molto più di un agglomerato di sedi istituzionali. Non è certo un caso che nei secoli si sia guadagnata numerosi appellativi, quali “città eterna” e “caput mundi”, afferenti al suo essere centro gravitazionale delle attività politiche, culturali e artistiche dell’intero mondo occidentale. Infatti, a connotare la storia dell’Urbe e di conseguenza il suo aspetto visibile e tangibile, è la presenza pressoché continua e ininterrotta di poteri forti dai tempi di Augusto (ma anche prima) sino ad oggi, e la presenza di questi poteri (in primis quello pontificio) è sempre stata determinante per attrarre nella città importanti personalità che, mediante le loro elevate competenze artistiche e architettoniche, sapessero esprimere manifestamente quel potere medesimo, il quale, alla faccia dei predicati evangelici, doveva permeare in ogni angolo della città per mettere bene in chiaro a chi spettassero i privilegi del controllo e della gestione dello stato.

In questo senso, la creazione a livello urbanistico (e non solo) di grandiosi complessi prospettici che, mediante studiati accorgimenti architettonici, creassero spazi razionalmente ordinati secondo criteri di simmetria e punti di fuga corrispondenti con edifici di alto valore simbolico, è una delle principali manifestazioni visive della volontà, da parte di chi esercitava il potere, di esercitare forme di controllo anche sullo spazio. Questa affermazione si lega indissolubilmente con il concetto di Umanesimo, che si connota, nelle arti, anche con la capacità da parte degli artisti (e dei loro committenti) di controllare e gestire con razionalità lo spazio reale, nel quale l’uomo vive e opera. Questa centralità dell’agire razionale è palese in qualsiasi zona di Roma, a tal punto che le manifestazioni del potere spirituale riescono con fatica a celare l’ardire di coloro che, nell’atto di creazione o modifica di uno spazio, hanno osato indossare gli abiti della divinità e adottare il proprio ordine (quello umano) fondato essenzialmente sulle regole matematiche e geometriche.

Il risultato finale di queste operazioni è sorprendente e visitando Roma ci si accorge così che qualsiasi piazza o grande monumento è incorniciato da un insieme ordinato di volumi che ne amplificano l’importanza e che lo indicano come punto di fuga, come fulcro dello sguardo, come punto focale della scenografia in cui è inserito. Perché, effettivamente, Roma è un po’ un grande teatro, nel quale ci si può perdere passeggiando per le strade secondarie per vedere cosa succede dietro le quinte, per poi tornare sempre tra le grandi piazze e sentirsi “pubblico” in senso stretto, ammirando le grandi scenografie reali di cui è composta. Il Castel Sant’Angelo visto dall’altra sponda del Tevere, con gli angeli di Bernini che ci indirizzano lo sguardo verso la grande mole del fu mausoleo di Adriano invitando lo spettatore ad attraversare il ponte, oppure il Vittoriano, che si impone allo sguardo uscendo dalla stretta via del Corso, o ancora Piazza del Campidoglio, che si apre simmetrica una volta percorsa la scalinata di accesso, o infine la Basilica di San Pietro dal fondo di via della Conciliazione sono solo pochi esempi chiari e ben noti dell’applicazione consapevole e ragionata di questi espedienti.

Sarebbe sbagliato tuttavia pensare che questi si limitino al solo ambito urbanistico di vaste proporzioni. L’abile uso di complessi giochi prospettici è onnipresente a Roma ed è ben visibile anche in ambienti privati. L’esempio più lampante è senz’altro quello della galleria di Palazzo Spada, che, grazie alla maestria dell’architetto Borromini, sa ingannare lo spettatore e far sembrare lo spazio più dilatato di quanto sia in realtà. In questo caso, ovviamente, non vi è un’espressa volontà di manifestare il proprio potere e nemmeno quella di sottolineare l’importanza di un dato edificio, ma ancora una volta vi si ritrova la volontà (e la capacità) di gestire lo spazio a proprio piacimento sfruttando fino in fondo le regole della prospettiva e dell’illusione ottica.

Non vi sono quindi dubbi che Roma, più di qualsiasi altra città italiana, sia per eccellenza una città di prospettive, e in quanto tale una città creata dall’ingegno umano per la gloria umana, spesso però filtrata da un concetto di gloria divina che si configura più come giustificazione che come motivazione della creazione di questi spazi. E questo anche (e soprattutto) quando a essere inventato è lo spazio divino.

I soffitti delle due chiese barocche a mio parere più belle della città, quello della chiesa di Sant’Ignazio (dipinto da Andrea Pozzo) e quello della chiesa del Gesù (affrescato da Giovan Battista Gaulli), sono i massimi esempi di cosa significa in arte creare uno spazio fittizio mediante l’illusione ottica: folti gruppi di angeli e beati che volteggiano nel cielo persuadono lo spettatore dell’esistenza di un mondo parallelo, che si pone come (non) logica prosecuzione del mondo reale in cui egli vive e che, mediante l’estensione in pittura delle architetture esistenti (a Sant’Ignazio) o grazie alla rappresentazione di personaggi al di fuori della cornice dell’affresco intenti però a entrarvi (nella chiesa del Gesù), avvicina la sfera celeste al mondo terreno in modo sorprendente. Viene a crearsi così una sorta di “teatro celeste”, che altro non è, tuttavia, che un’altra grande invenzione dell’uomo, che eleva le proprie facoltà al punto di organizzare mentalmente e concretamente lo spazio divino come da lui pensato, e di porre dinanzi al visitatore uno spettacolo che, seppur totalmente umano, qualcosa di miracoloso pur sempre ce l’ha.

Luca Sperandio

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