Contemplare la bellezza, non possederla

Ma molta bellezza c’è qui, perché dovunque è molta bellezza

Rainer M. Rilke, Lettere a un giovane poeta

 

Quante volte dinanzi allo spettacolo del reale, oltre a sperimentare timore e meraviglia (thauma), ci sentiamo travolgere dall’intensità incomparabile della bellezza dell’universo che ci circonda e che abbiamo la fortuna e la responsabilità di abitare? Come naufraghi giunti a riva con molta fatica ci sentiamo spossati, dopo essere stati travolti dalle onde della bellezza che vorremo contenere tutta intera. La bellezza è come un oceano infinito, che non possiamo dominare, ma tutt’al più navigare. Un’immensità che ci è data in dono affinché la possiamo contemplare, non possedere.

Il tentativo profondamente umano di porsi di fronte alla bellezza del mondo e volerla inconsciamente possedere, conduce ad uno spaesamento e alla realizzazione dell’impossibilità stessa di fagocitare tutta la magnificenza dentro di sé. È un tentativo vano, che porta ad un totale sfinimento, ad una frustrazione della propria capacità filosofica e spirituale di rapportarsi con la realtà. Il passaggio necessario che ciascuno di noi può compiere è proprio quello dal desiderio di possedere, di inglobare la bellezza dentro di sé come fosse un oggetto, al contemplarla nella sua concreta impalpabilità.

Quando le persone intraprendono un percorso filosofico o psicologico di conoscenza di se stesse, spesso vengono invitate a ristabilire un equilibrio nel proprio rapporto con la bellezza della realtà. Avere un’ottima relazione in questo senso significa cogliere la ricchezza di significato dell’esistenza. Tale passaggio non è però automatico, richiede un lungo e paziente lavoro interiore che può portare ad un rapporto Io-bellezza, del tutto nuovo. Urge qui una vera e propria rivoluzione copernicana che cambi la modalità di relazionarsi al mondo e al suo fascino.

Etty Hillesum, scrittrice olandese morta ad Auschwitz, nel suo cammino etico-psicologico-spirituale descrive questo passaggio dalla dimensione del possedere la bellezza, alla dimensione del contemplarla, come una tappa fondamentale per ristabilire un proficuo e edificante contatto con se stessa e con la realtà. Un movimento che si riflette nella possibilità sempre presente di attingere positività dal reale. Nel proprio Diario, la giovane ebrea olandese, esprime la consapevolezza di che cosa significhi il desiderio di possedere la bellezza. Scrive: «Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa più difficile era quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero [..] troppo ‘possessiva’ provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere»1. Il punto di partenza è il desiderio di possedere, di incorporare la bellezza, con il risultato opposto che Hillesum descrive lucidamente: «Trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore […] In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un’enorme quantità di energie»2. In questi passi del Diario, la scrittrice olandese, si esprime al tempo passato. Sì, perché descrive una modalità disfunzionale di rapportarsi alla bellezza, che ha consapevolmente scelto di abbandonare in favore di un rinnovato atteggiamento: la contemplazione interiore. L’unica disposizione capace di cogliere la bellezza sempre presente, è l’accoglienza silenziosa e non giudicante nella propria stanza interiore. Il passaggio è decisivo per la qualità della propria esistenza, perché ci permette di essere sempre in contatto con la bellezza originaria e gratuita dell’universo. Il movimento verso un approccio differente è espresso da Hillesum con indicibile chiarezza: «Ma quella sera […] ho reagito diversamente. Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo, per così dire, ‘oggettivo’. Non volevo più possederlo»3 e poco oltre prosegue scrivendo: «quel paesaggio è rimasto presente sullo sfondo come un abito che riveste la mia anima»4. L’atteggiamento contemplativo è dunque una nuova possibilità di interagire con il mondo. La possibilità di essere sempre in contatto con la bellezza, che fa da sfondo alla nostra esistenza. Un’occasione di sperimentare la bellezza senza farsi travolgere da essa, cavalcandone dolcemente le onde, poiché la si accoglie con un atteggiamento di pura ammirazione.

Il cambiamento può dirsi avvenuto, quando l’atteggiamento possessivo ha definitivamente lasciato il posto a quello contemplativo. Il mutamento è così descritto da Etty Hillesum: «Mille catene sono state spezzate, respiro di nuovo liberamente, mi sento in forze e mi guardo intorno con occhi raggianti. E ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera, ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa»5. Queste parole testimoniano che il desiderio di possesso è sempre un limite che poniamo fra noi e l’altro, fra noi e il mondo. Esso è ostacolo a se stesso se cerca di incorporare la magnificenza di quanto ci circonda. Tanto più lo rinforziamo tanto meno percepiamo la bellezza. Essa si rivela solo ad un atteggiamento di pura contemplazione che è al contempo atteggiamento di pura consapevolezza nei confronti di se stessi e del mondo.

La bellezza è da sempre presente, percepirla e accoglierla è determinante  per la qualità della nostra vita. Si tratta però di accettare la necessità del cambiamento interiore che Etty Hillesum ha lucidamente descritto a parole e incarnato con la vita. Il passaggio, liberante e edificante, dal possedere al contemplare.

 

Alessandro Tonon

NOTE:
1. HILLESUM, Diario, tr. it. di C. Passanti e T. Montone, Milano, Adelphi, 20133, p. 58.
2. Ivi, p. 58.
3. Ivi, p. 58.
4. Ivi, p. 58.
5. Ivi, p. 59.

 

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La droga

Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!

La Roba di Giovanni Verga

Una delle definizioni di droga: qualsiasi cosa che occupi totalmente la mente impedendo di pensare ad altro o costituendo un bisogno assoluto. Guardati intorno nella tua stanza mentre leggi questo articolo, la tua scrivania, scaffali e vani vari si affollano di cose. Piccole cose che raccontano delle storie, rievocano brandelli di emozione, nostalgie e sensazioni. Oggetti, appunti e quanto altro che rasentano il pattume e che utilizzi per tornare indietro con la mente da qualche parte, dove rifugiarti e fuggire dall’oggi. A questi oggetti emotivi si aggiungono poi tutte le altre cose. Quelle di cui non puoi fare a meno: per lavoro, per stare sempre connesso. Quelle da cui non ti puoi liberare; le tue protesi elettroniche, il ricordo del nonno, un regalo. L’eccesso è che da alcune di queste cose non riesci a separarti un solo istante. Te le devi portare con te ovunque. Diventano non solo funzionali, ma anche emozionali. Sostituiscono elegantemente, e con meno vergogna, il peluche di quando eravamo piccoli o la famosa coperta di Linus. La vita assomiglia pericolosamente allo scantinato di un robivecchi o al retrobottega di un antiquario. Non sappiamo più che cosa è imporante e che cosa no. Talvolta in realtà, neppure dove siano le cose che cerchiamo. E, ultimamente, anche perché quelle cose siano proprio lì e perché.

Assistiamo a due fenomeni complementari:

L’uomo primitivo trasforma gli oggetti in soggetti 

Nicolás Gómez Dávila

Tale atteggiamento permane immutato anche nell’uomo moderno, alcuni oggetti diventano simboli e in quanto tali, come ricorda bene Umberto Galimberti, essi rimandano ad altro.

La gente accetta di adattare i propri desideri, farseli snaturare e indirizzare su oggetti, su automobili e vestiti e apparecchi elettronici e giocattoli inutili che servono a far dimenticare cosa è diventato il mondo.

Andrea De Carlo, Due di due

Atteggiamento diffuso per cui gli oggetti diventano non rimandi emotivi ad altro, ma obiettivi, forme di riscatto sociale e di affermazione, acquisiscono cioè una funzione identitificativa dello status sociale

La paura è che angosciosamente l’umanità contemporanea sia assuefatta ad una nuova droga, la droga di cose. Peggio ancora. Se la sicurezza che “la roba”,tanto per ricordare Verga, ti dà, che pure a volte sfocia in atteggiamenti compulsivi, è di per sé un’umanissima risorsa, tutto è riconducibile alla preistoria. Insomma, per certi versi siamo ancora fermi a quei tempi. Se non che fino a quando l’homo sapiens era nomade – per motivi pratici che chiunque abbia dimestichezza di escursioni in montagna intuisce bene , di cose con sé ne poteva portare poche. Da stanziali tutto cambia, potendo accumulare oggetti senza la preoccupazione di essere poi costretti a doversene sobbarcare il peso. Abbiamo poi aggravato la situazione con proprietà e possessi, e conflitti annessi, di cui ha già ben scritto Verga nelle sue novelle. Il punto è che sotto questo aspetto non siamo poi tanto diversi dai nostri progenitori, ma neppure dagli animali che nella cultura giudaico-cristiana sono subordinati alla dimensione umana. Certo è giusto non semplificare troppo, ma possiamo giocarcela con uno scimpanzè, il mio gatto o il cagnolino del mio vicino. Gli istinti sembrano essere quelli, i nostri eventualmente un po’ raffinati dall’intelletto, ma a volte nemmeno quello. Comunque di sicuro non c’è niente di cui vantarsi.

Il nostro sistema economico, la nostra vita “dopata” di roba, ha perso la percezione della povertà come libertà e condivisione, ci obblighiamo all’accumulo e abbiamo perso la capacità di educarci al gratuito come i nostri nonni: quel poco che serviva davvero un tempo era caricato da relazioni interpersonali autentiche e condivise, mentre oggi siamo così drogati di cose che troppo spesso corriamo il rischio di perdere di vista le persone. I nostri governi ci raccontano che l’unica ricetta per uscire dalla crisi economica è rilanciare gli acquisti, ma forse non sarebbe il caso di rivedere e ripensare i nostri presunti bisogni? Vi siete mai chiesti perché i nostri nonni guardando noi under 35 di oggi sembrano pensare quello che insinuava il poeta inglese Jamie McKendrick “Meno abbiamo, più ci sembra di aver fallito nel farci strada. Ma a me manca quel meno”. Forse manca anche a loro e noi dovremmo fare tesoro della loro indicazione.

Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l’uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell’uomo.

Friedrich Nietzsche, Aurora, 1881

La Filosofia del resto è stata per troppo tempo ancella della cosalità, basti pensare alla presunta opposizione tra soggetto e oggetto e a come Fichte pensa di risolverla in un confronto tra Io e Non Io. Eppure come ben ci ricorda Nietzsche le cose sono nostri limiti, non nostri alleati. Forse sarebbe il caso che ci impegnassimo ad accumulare più persone belle nella nostra vita di meri oggetti se non vogliamo fare la fine che ci racconta Verga:

Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c’era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.

Matteo Montagner

[immagini tratte da Google Immagini]