Arte e giustizia: la Pop Justice e Leonardo da Vinci

L’immagine della giustizia è una non immagine. Già il maestro del cinema Stanley Kubrick aveva stigmatizzato questa questione: un fatto umano tanto centrale nella vita cognitiva dell’uomo non vive di immagini e ciò comporta un grosso limite per la sua comprensione. Di contro, comprendere il diritto e, di conseguenza, comprendere la giustizia, vuol dire interpretare la società ed anche dare valore concreto al principio secondo cui la pena deve avere anche una funzione general-preventiva (cioè essere rivolta alla società). Senza immagini resta una giustizia liofilizzata, una meta-giustizia.

Persino l’arte ha dovuto uscire dal suo stereotipo dematerializzato dell’antichità e del Medioevo (prima con le armonie geometriche delle statue di uomini ideali e poi con l’assolutamente sacro della scultura e della pittura); è avvenuto nel 1473 quando Leonardo da Vinci ha disegnato il suo Paesaggio con fiume, che ha segnato il definitivo passaggio delle arti figurative verso una nuova dimensione paragonabile a quella che propose filosoficamente Heidegger nel 1927 con Essere e tempo ed il suo esser-ci come “progetto gettato” (nel mondo). L’uomo non vive fuori dal suo contesto. La storicità del proprio tempo, la condizione soggettiva, la sua “geolocalizzazione”, sono tutti elementi decisivi per l’espressione e la comprensione dell’essere e dunque del fare. L’arte lo ha compreso nel Rinascimento: l’individuo va collocato nel paesaggio, diversamente resta un meta-individuo.

La giustizia, come accennato, ha sempre difettato di immagini, ancorché il pubblico sia attratto dal giudizio e dal crimine: in parte come voyeurismo verso “il male”, in parte per controllare l’operato del giudizio, così da capire se gli uomini, chiamati a giudicare i propri simili, svolgono correttamente la loro funzione. La mancanza di immagini della giustizia ha portato la medesima a rappresentarsi in due modalità differenti: mediante il suo lato più crudele (Giordano Bruno bruciato in Campo dei Fiori o le moderne “manette in mondovisione”) oppure in modo caricaturale (Kafka e Manzoni in letteratura o Kubrick e Alberto Sordi nel cinema). Neppure l’avvento massificato dei media aveva realmente creato immagini che consentissero di avere una cognizione piena del funzionamento della macchina giudiziaria. La giustizia mediatica è stato uno strumento del consenso per l’attività dello jusdicere ma non ha mai rappresentato il suo reale funzionamento. Il capitalismo sfrenato del Duemila, che ha superato quello della produzione industriale, così mercificando anche i suoi valori e disvalori (in questo caso la giustizia ed il crimine) e dunque superando le tesi marxiane che si attestavano sulla “mercificazione delle merci” come prodotti industriali, ha creato “Il Paesaggio con Giustizia”, in una riedizione in chiave processuale del disegno rinascimentale di Leonardo.

È l’avvento della Pop Justice, la “giustizia-merce” fatta di spot pubblicitari e immagini. Questa forma di giustizia ha abbandonato il “processo vero” (cosa che non aveva fatto la giustizia mediatica) e ha trasformato le vicende giudiziarie in libri gialli a puntate, dove il colpevole non è quello che emerge dall’aula ma dal sentire popolare; e la vicenda è quella del fumetto costituito dalle immagini televisive e dai post sui social network. È del tutto evidente che questa giustizia pop non vive delle regole del codice, ma vive di altro. È accaduto quanto avvenne con “la svolta paesaggistica” di Leonardo che ha sfilato il meta-uomo e l’essere divino dall’arte, per calare il soggetto nel “suo mondo”, senza distinzione tra individuo e paesaggio. Questa non è solamente una mossa estetico-artistica ma una svolta cognitiva. È l’affondo al problema della giustizia come individuato da Kubrick. Assai spesso l’aula del tribunale smaterializza il diritto quando invece le scienze neuro-cognitive hanno un approccio heideggeriano. Per questo la giustizia rischia di non essere recepita come giustizia giusta. La Pop Justice è come il quadro di Leonardo. Ma il paesaggio della giurisdizione cambia. Diventa un thriller da libro giallo.

Luca D’Auria

[Immagine tratta da Google Immagini]

Spirito apollineo e dionisiaco nel processo penale: l’estetica del giudizio criminale

Il processo penale contemporaneo, per il vero come anche quello antico, medioevale e moderno, suscita interesse, pulsioni sociali, contesa emotiva; tende all’odio verso il colpevole e compassione verso la vittima. Basta pensare ai casi di cronaca più recenti per rendersi conto di quanta enfasi popolare accompagni la storia dei processi. Ne cito solamente alcuni: la strage di Erba, gli omicidi di Garlasco, Perugia e, da ultimo, il processo a Massimo Bossetti. Questo tuttavia accade anche per vicende giudiziarie meno cruente e sanguinose, ma ugualmente “sentite” dall’opinione pubblica, come i procedimenti contro l’ex premier Berlusconi, “mafia-capitale” o gli scandali per i conti esteri di questo o quel personaggio pubblico.

La tensione che si crea tra l’aula di giustizia e la società è palpabile e sostenere, come talvolta ha fatto la Corte di Cassazione, che tutto questo non possa incidere sul giudizio tecnico è un’illusione. Lo è per due motivi fondamentali: l’uno perché l’essere umano non è una macchina, il secondo perché è il diritto stesso che attribuisce al giudicante una funzione sociale attraverso lo scopo general-preventivo della pena che consiste nella portata educativa della pena stessa, non solamente nei confronti del reo, ma di tutta la società. Già l’antropologo e sociologo Émile Durkheim aveva categorizzato quest’esigenza laddove affermava che il delitto causa una frattura nel tessuto sociale che viene rimarginata proprio attraverso la sanzione penale e dunque il processo. La collettività ha bisogno del colpevole per emendarsi dal delitto e per essere sicura di poter vivere in pace, senza pericolo.

Persino l’avvocato cavalca questo istinto allorquando, sostenendo l’innocenza del proprio assistito, crea pressione emotiva sostenendo che “il colpevole è ancora in libertà”. Il caso di Bossetti è paradigmatico in questo senso: il rapimento e l’omicidio della giovane Yara ha sconquassato la quiete della ristretta e civilissima comunità della provincia bergamasca ed il bisogno di sapere “chi è stato” è un’esigenza di vita quotidiana. Nel caso oramai quasi dimenticato dell’omicidio di Milena Sutter (Genova, anni Settanta) accadde qualcosa di molto simile: una bellissima ragazzina fu “prelevata” all’uscita dalla scuola, tenuta non si sa dove per alcuni giorni e poi gettata in mare. A Genova la “terra di nessuno”, dove far ritrovare un corpo esanime, è il mare; a Bergamo un campo incolto. A quel tempo i genitori avevano paura a mandare i propri figli a scuola, oggi accade lo stesso. E’ il “pericolo dell’accettare le caramelle dagli sconosciuti”.

Il processo, chiamato a giudicare di vicende così emotivamente devastanti, è, al contrario, un laboratorio scientifico di regole, di eccezioni, di cavilli che non sono perversioni da Azzeccagarbugli ma garanzie contro gli abusi, regole che garantiscono la logicità delle decisioni, strumenti per evitare che i protagonisti del processo operino da vittime dell’impulso e dell’emozione invece che da algidi tecnici. La toga rappresenta, metaforicamente, proprio questo: la necessità di far trionfare il diritto, cioè dire la scienza giuridica. L’errore cognitivo che “stacca” il ragionamento giuridico, per offrirsi all’impulso della sola general-prevenzione e quindi la necessità di ristabilire l’ordine e soddisfare la collettività con la sua “sete di giustizia” è manifestazione della “pop justice” e dunque del prodotto giudiziario “per la collettività”, come le opere pop, rispetto a quelle della tradizione, sono nate per essere trasfuse nei manifesti e nei posters, alla portata di tutti e per tutti. Il diritto tenta di cautelarsi contro questo rischio attraverso la “rimessione del processo” che impone lo spostamento del luogo dell’udienza quando le condizioni ambientali non consentono un giudizio sereno. E’ del tutto evidente la difficoltà di capire quando il processo travalichi così tanto nel “pop” da incidere sulla terzietà del giudice.

Ancora una riflessione sul caso Bossetti: quanti possono comprendere l’anomalia di quella prova del DNA ritrovata sull’indumento intimo di Yara e quanto, proprio quella dislocazione della traccia sul suo indumento, diviene una rappresentazione estetica capace di portare ad errori di prospettiva rispetto al migliore giudizio (va ricordato che altre tracce genetiche di soggetti non identificati sono state trovate altrove ma ad esse non è stata data importanza). Com’è possibile che il Tribunale di Brescia abbia, durante l’indagine, dichiarato che è necessario fare chiarezza su quella prova e la Corte di Assise di Bergamo abbia potuto bypassare questa indicazione ritenendo quell’indizio “preciso”, oltre che “grave” e quindi pienamente capace di provare la colpevolezza di Bossetti? I giudici di Brescia si sono espressi in base ad una valutazione tecnica, che esigeva persino meno approfondito (perché la fase processuale era diversa) rispetto a quella del primo grado; eppure hanno stigmatizzato quella prova, dando le indicazioni, in diritto, di come rimediare al dubbio. Senza il rimedio suggerito quel dubbio resta come un macigno sul futuro del processo. In linguaggio giuridico il dubbio sulla prova si chiama “ragionevole dubbio” e porta all’assoluzione.

Io credo che il processo, anche quello contro Bossetti, viva e sia vissuto con questa doppia natura: una tecnica, complessa e scientifica, l’altra emotiva, passionale, general-preventiva e sociale. Tutta la vita vive di questa dicotomia, dunque anche il diritto. Lo ha spiegato al mondo il grande filosofo Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia, laddove ha raccontato dell’eterna lotta tra lo “spirito apollineo” e lo “spirito dionisiaco”: il primo rappresenta la perfezione delle forme, l’armonia, la logica, ed il secondo la passione, l’emotività, l’irrazionale. Il processo è come l’arte, deve trovare l’equilibrio tra il diritto apollineo e la società dionisiaca, tra il giudice apollineo e il coro (la pubblica opinione) dionisiaca. La vicenda di Bossetti è anche questo e forse, proprio per questo, appassiona la gente (il coro della tragedia greca).

Luca D’Auria

[Immagine tratta da Google Immagini]