Autenticità e libertà. Artemide e il mito della caverna

Si sente molto parlare, oggi, di “autenticità”: un vero e proprio tormentone del mondo social, dove spesso l’autenticità diventa, nella pratica, raccontare i dettagli della nostra vita, anche quelli più intimi e privati, ai nostri followers.
Ma è davvero questo il significato e il valore dell’essere autentico?

Qualche tempo fa mi sono imbattuta in Artemide, uno dei saggi più interessanti, a mio avviso, della psichiatra, psicoterapeuta e analista junghiana Jean Bolen. All’interno della più ampia riflessione che la Bolen dispiega sulla divinità greca e sui tratti della donna che rispecchia l’archetipo di Artemide (una donna che incarna le qualità di indomita, tenace e riflessiva, intuitiva e passionale), nelle pagine finali del libro l’analista junghiana si sofferma sul concetto di autenticità e lo affianca a quello di libertà. Per la Bolen, infatti, non c’è autenticità senza libertà, e la libertà di cui parla è una libertà di essere, di scegliere e di seguire il cuore:

«Essere capaci di fare scelte basate sull’anima e sul cuore ci fa sentire una passione per la vita, dandoci l’opportunità e la libertà di vivere un’esistenza significativa a livello personale.
Ciò è possibile solo quando si è liberi di essere tu e io, e si ha la libertà e l’opportunità di scegliere un sentiero dell’anima» (J.S. Bolen, Artemide, 2015).

A quanto pare l’autenticità, collegata alla libertà di essere, è anche la strada per sentirsi appassionati della vita, per non cadere nel “torpore emotivo” di chi si lascia vivere, e la Bolen lo ribadisce anche in un altro punto del libro:

«Entusiasmo e vitalità sono segni del fatto che stiamo vivendo la vita che fa per noi e ci sentiamo realizzati. Quando non è così può esserci torpore emotivo, una tristezza diffusa, ansia e vari dolori fisici derivanti da tensione e stress» (ivi).

 Ma come si può fare a trovare la nostra autenticità, il nostro vero essere? Sempre la Bolen scrive:

«Diventare reali ha a che fare con l’anima, con il lavoro e le connessioni dell’anima, termini che uso in modo intercambiabile con lavoro e connessione del cuore.» (ivi).

Quindi una profonda connessione col cuore è la chiave, secondo la psicoterapeuta, per l’autenticità, per comprendere chi siamo davvero e vivere la vita con pienezza ed entusiasmo.

Della scoperta del nostro vero sé, del diventare reali, autentici, consapevoli, ne aveva parlato anche Platone, molto prima della Bolen, in uno dei suoi miti più affascinanti, quello della caverna, forse il più noto del filosofo greco, che apre il VII libro della Repubblica.
L’inizio del mito è già di grande impatto: Platone ci presenta delle persone che vivono fin dall’infanzia rinchiuse in una caverna, incatenate così strettamente da non poter neanche girare la testa. Una di loro però riesce a liberarsi, a uscire fuori e vedere, per la prima volta, la luce del sole.

Analizzando profondamente il mito, emerge chiaramente il suo collegamento con l’autenticità: esso è di fatto anche il simbolo di un processo educativo che consente all’essere umano di procedere verso la conquista della sua più autentica natura. Con il mito della caverna Platone racconta un percorso di evoluzione di se stessi che consente il saldo possesso della verità, che ci conduce all’impegno civile nel mondo, al dono di sé alla comunità, che dà il senso più nobile alla propria esistenza nel mondo. E che conduce anche alla libertà e all’autenticità di cui parla pure la Bolen, che diversamente da Platone – il quale vede nella filosofia la chiave di svolta per uscire dalla caverna – pone il cuore e l’anima come “strumenti” centrali di verità.

In tempi in cui “libertà” e “autenticità” sono sulla bocca di tutti, spesso anche a sproposito, forse sarebbe bene ricordarci di quanto essere autentici sia il senso profondo di tutta la nostra esistenza. Non è in fondo quello che cerchiamo tutti quando ci chiediamo: “chi sono io”?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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Identità (o una non-identità): tante personalità?

Gli antichi si tramandavano tradizioni romanzate di origini mitiche e lontane; Virginia Woolf scrisse di un personaggio di nome Orlando che cambia sesso nel bel mezzo del racconto e oscilla continuamente da una personalità all’altra; nel corso degli ultimi decenni hanno cominciato finalmente a farsi strada nella coscienza collettiva i concetti di identità sessuale e di genere, sotto l’affermarsi progressivo di un’attenzione globale. A partire dalle identity stories, passando per gli spunti dei maggiori intellettuali novecenteschi e approdando alla lotta del mondo LGBTQ+ per i propri diritti si è sempre conservata molto viva e centrale nel dibattito sociale la “questione dell’identità”; questione che per diverso tempo è stata associata, in modo assai riduttivo, alla sola etnografia, ma che al contrario può svilupparsi in numerosissime e sorprendenti direzioni.
L’aspetto fisico è sufficiente a determinare il genere di una persona o può intervenire anche l’autopercezione? Il genere è un costrutto culturale, o “esiste davvero”? In tal caso, che cosa, esattamente, dovrebbe accendere la percezione di appartenere a un genere piuttosto che all’altro? Questo tipo di approccio è il frutto del recente dibattito sulla sessualità aperto dalla comunità transgender, ma rappresenta solo un’ulteriore possibilità in una gamma multicolore di prospettive che in passato hanno cercato, ciascuna a partire dalla propria intuizione, di indagare il delicato interrogativo sull’identità.

Il relativismo novecentesco suggeriva ad esempio che la cosiddetta “identità personale” non sia poi così personale: forse “chi siamo” non si riduce a chi crediamo di essere, ma dipende in prima istanza dal punto di vista che assumiamo per raccontarci, allargandosi al riflesso di noi che ci restituiscono le persone con cui interagiamo. Questa idea viene ripresa anche dalla theory laden di Popper: la mente come un faro che illumina la realtà, la diversa percezione delle situazioni e delle persone circostanti come frutto dei preconcetti trasmessi dall’ambiente culturale di provenienza. A seconda di quale faro illumina la realtà, cambia la luce e con essa la porzione di cose illuminata: la fondazione della realtà varia al variare della mente che la interpreta, e nel nostro caso particolare varia l’immagine dell’eventuale interlocutore; sguardi diversi su una stessa persona ne percepiscono e determinano aspetti dell’identità diversi. Ne deriva che al pronunciare un nome non evochiamo realmente una persona in carne e ossa, ma proiettiamo all’esterno un personaggio che ci siamo costruiti mentalmente, una figura che esiste solo come prodotto delle conoscenze limitate che abbiamo accumulato rispetto a quell’individuo particolare.
Popper e gli altri relativisti sembrerebbero dirci, in sintesi, che un’identità viscerale non esista, e che siamo semmai il mosaico di molteplici, minori, prospettive che includono sia la nostra che quella di chiunque posi il suo sguardo su di noi e formuli un giudizio. Il concetto di identità si esprimerebbe allora nella triplice dimensione di ciò che viene percepito dall’interazione con l’altro, del personaggio che quest’altro costruisce sulla sua visione parziale delle cose, e della percezione personale e autonoma di sé stessi.

Secondo Platone, invece, ciascuno di noi è abitato da un dáimōn che ci rende unici; pur sfociando poi nel noto racconto delle Idee e dell’Iperuranio, il concetto di fondo del mito platonico nega l’ipotesi di un’anima umana come semplice caleidoscopio nel quale si riverberano gli sguardi altrui, sostenendo l’esistenza di una qualche essenza identitaria distintiva; una sorta di sostanza “oggettiva” che si vincola a ognuno prima ancora della nascita e ne caratterizza profondamente la natura, funzionando come strumento identitario.

Un principio generale emerge da questo garbuglio di teorie e vicoli cechi: l’identità come concetto inafferrabile e indefinibile; come qualcosa che sembra fluire, e oscillare, e mutare, e sbeffeggiarci quando proviamo a fissarla in una serie di categorie. Forse Pirandello era riuscito a evitare una descrizione semplicistica, parlando dell’anima umana come eterno guizzo di infinite personalità possibili; forse la Woolf, immaginando l’identità come sostanza multiforme, cangiante, asessuata, in perenne evoluzione. Una risposta categorica all’interrogativo sull’identità non è facile; forse non esiste; forse la risposta è la somma di tutte le possibili risposte, ossimori inclusi; ma se non possiamo definire verbalmente l’identità, possiamo tuttavia farlo empiricamente, lasciandola libera di esprimersi attraverso i nostri cambiamenti: che emergano tutte le variazioni e anche le eventuali, temporanee staticità di quel misterioso corpus che è la personalità. Liberiamo la nostra identità da etichette e altre possibili costrizioni, consentendole di svilupparsi, modificarsi ed esplorare pienamente tutte le sue possibilità.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit Vince Fleming via Unsplash]

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Fanatismo ideologico e paradosso dell’ignoranza

Oggi più che mai, in un mondo dominato dalla supremazia dei social network e delle notizie a portata di click, siamo di fronte al dilagare del cosiddetto fenomeno del fanatismo ideologico, influenzati sempre più dalle idee che vanno per la maggiore e che corrono incessanti sulle Instagram stories o sulle bacheche Facebook dei nostri smartphone. Si pensi ad esempio al periodo pandemico che tutto il mondo sta vivendo e alle teorie sui vaccini tra favorevoli e contrari. In questo articolo non ci si addentrerà nel merito della validità o meno delle due posizioni, ma si cercherà di comprendere perché un’idea, qualsiasi essa sia, riesca ad imporsi con forza tra le masse.

In tempi non sospetti, Sigmund Freud aveva affermato che non fosse lecito ricavare un’affermazione della socialità a scapito dell’individualità, ma che la socializzazione e la massificazione fossero in un rapporto di dipendenza dall’individualità, ossia che la distinzione tra massa e individuo diventasse superflua. Per Freud la negatività della massa dipende, quindi, dalla negatività dell’individuo stesso, in quanto quest’ultimo è essenzialmente dominato dall’inconscio; tuttavia egli è di per sé predisposto alla socializzazione e l’esperienza della massa si limita a rendere esplicito ciò che in lui era solo implicito. L’individuo si trova posto nella condizione di sbarazzarsi delle rimozioni dei propri  moti pulsionali e nella massa egli esperisce ciò di cui per definizione non si dà esperienza, appunto l’inconscio, che si reifica nella massa, si oggettifica rendendosi tangibile. Inoltre, secondo la prospettiva freudiana, esiste un fenomeno per il quale la massa si compatta attorno alla figura di un coercitore e attinge da un lato alla sua essenza profonda e dall’altro patisce un processo di regressione:

«Le masse non hanno […] mai conosciuto la sete della verità. Hanno bisogno di illusioni e a queste non possono rinunciare […]. La massa è un gregge docile che non può vivere senza un padrone. È talmente assetata di obbedienza da sottoporsi istintivamente a chiunque se ne proclami il padrone» (S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 2011).

Ciò che lascia intendere Freud è come il fanatismo ideologico di massa vada, in qualche modo, a scongiurare una responsabilità etica individuale nell’assumersi l’onere dei propri pensieri, favorendo l’idea di una più comoda responsabilità collettiva.

L’essere umano è per natura portato a costruirsi una visione dogmatica della realtà, in particolare quando non possiede gli strumenti necessari da porre a fondamento di una determinata idea. Nel mondo contemporaneo la massa si uniforma spesso e volentieri attorno ad una sola “verità” idolatrata con adorazione quasi fideistica, verità che proviene nella maggior parte dei casi dal mondo virtuale, che rappresenta quel coercitore di cui si parlava prima.

Detto ciò, è possibile affermare che l’andar dietro a un pensiero comune faccia sì che vengano ignorate tutte le altre possibili verità. Accade questo, in particolare, quando si inizia a credere ciecamente a un’idea, facendola propria, senza beneficiare del dono prezioso del dubbio (il fanatismo appunto). Ciò apre ad una situazione paradossale nella quale l’ignoranza di qualcosa si pone a fondamento di una verità, o pseudo tale, attraverso la quale si ha la pretesa di essere padroni dell’unica verità assoluta. Tuttavia, chi ama concedersi sempre il beneficio del dubbio e ricerca costantemente la verità delle cose, sa benissimo che l’unica forma accettabile di ignoranza sia quella del famoso “so di non sapere” socratico.

È noto come coloro che sanno meno credano di essere quelli con la verità in tasca, avallando le loro idee sulla base della condivisione di queste con la massa. Si pensi a quanta gente cada nella trappola delle cosiddette fake news senza andare a verificarne le fonti, forte del fatto che i più condividano quella determinata notizia o idea.

Quando ci imbattiamo in tali persone, dovremmo ricordare il famoso mito della caverna nella Repubblica  di Platone, in cui gli uomini legati per mani, piedi e collo che osservano le ombre proiettate sul muro, credendo fermamente che esse siano l’assoluta verità, rappresentano proprio tale tendenza umana a fermarsi all’apparenza delle cose. Non a caso il potenziale filosofo Re – ossia colui che, nell’ottica platonica, se riuscisse a liberarsi dalle catene e ad uscire fuori dalla caverna sarebbe accecato dalla luce della vera realtà – verrebbe deriso e ucciso qualora, tornato dai suoi compagni, raccontasse loro che quella che hanno creduto essere la verità è solo l’ombra di essa. Seguendo l’insegnamento di Platone, allora, sarebbe auspicabile che i singoli riuscissero a uscire dalla metaforica caverna, cercando quantomeno di tendere alla costante ricerca della verità, emancipandosi dalle non sempre realistiche idee della massa.

 

Federica Parisi

 

[Photo credit Bruna van der Kraan via Unsplash]

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Verso un nuovo sincretismo religioso

Il sincretismo religioso e filosofico viene di solito guardato con molto sospetto da parte degli studiosi o degli esponenti di religioni che pretendono di avere validità universale, poiché, dicono, non è rispettoso della tradizione filosofica o religiosa di riferimento. È il classico problema che si pone nella distinzione tra filosofia e storia della filosofia, in cui gli storici accusano i teoretici di prendere elementi concettuali appartenenti a tradizioni e autori diversi e di fare “di tutta l’erba un fascio”, rischiando così di snaturare e non comprendere il pensiero dei filosofi considerati.

Ora, tutto ciò ha indubbiamente una sua verità, ma perché non mostrare, invece, come sia arrivato il momento di prendere ciò che c’è di buono in ogni religione e filosofia in nome di un umanesimo integrale, laddove ciò che conta non sono le premesse storiche e metafisiche, bensì l’aspetto etico, ovvero quello legato alla prassi? In altre parole, se questo approccio sincretistico può portare a sviluppare sentimenti di amore, comprensione reciproca, compassione ed empatia, non vedo perché sia così strettamente necessario aderire ad una determinata religione o filosofia, che rischiano di diventare ideologie, escludendo tutte le altre. Non dimentichiamo, infatti, che cercare l’unità nella molteplicità – ovvero, fuor di metafora, il nucleo originario e profondo di ogni religione e filosofia – sembra possa avere che effetti benefici anche in termini di ecumenismo e dialogo tra fedi diverse, questioni molto importanti in questo periodo storico.

Proverò dunque a fornire un esempio di sincretismo religioso e filosofico a partire dalla religione in cui sono stato educato, ovvero quella cristiana cattolica.
Nel Vangelo di Giovanni si legge di un dialogo notturno avvenuto tra Gesù e Nicodemo, capo dei farisei. In risposta all’affermazione di Nicodemo che fa intendere che il Figlio di Dio si riconosce dalle opere che compie, ovvero dai miracoli, Gesù afferma che per vedere Dio è necessario rinascere dall’alto, cioè da acqua e Spirito. In sostanza ciò fa riferimento al fatto che la divinità non è riconducibile a categorie logiche e razionali prestabilite e che non agisce in maniera retributiva ma si muove in un ambito assolutamente libero, nuovo, creativo e dinamico.

Ora, cosa può mai significare questa enigmatica espressione di Gesù, cioè il “rinascere dall’alto”? Qui inizia il percorso sincretistico.
Innanzitutto non si può far a meno di notare la somiglianza tra questa rinascita spirituale e l’intuizione dell’idea del Bene proposta da Platone. Intuire l’idea del Bene è estremamente difficile e, per Platone, richiede un lungo percorso di studio e ricerca filosofica. Anche rinascere da Dio è difficoltoso ma – se Dio è il principio, e dunque è uno e buono – questa rigenerazione porterà ad effetti etici simili a quelli proposti da Platone, ovvero contemplazione, conoscenza, serenità, bontà d’animo, ma anche impegno politico e sociale per migliorare le condizioni di vita degli esseri umani.
Lo stesso principio vale per la religione buddista e la filosofia di Schopenhauer. Infatti, la soppressione del desiderio e la negazione della Volontà altro non sono che una ribellione a questo “sistema mondo”, con le sue proprie logiche di ricerca del piacere e del successo a spese degli altri. Ma il cristianesimo di Gesù e quello delle origini propongono lo stesso atteggiamento distaccato dalle realtà mondane e rivolto al misticismo e alla contemplazione, per cui non sembra azzardato affermare che l’illuminazione buddista e il processo che porta ad essa siano piuttosto simili alla “rinascita dall’alto” predicata da Gesù, eliminato ovviamente il discorso della reincarnazione.

Si potrebbero fare altri esempi di sincretismo, ma ciò che importante ancora sottolineare è che, se i risultati di un approccio sincretistico (preso naturalmente cum grano salis) sono l’apertura all’altro e al diverso, e l’inclusione simpatetica, esso non può che portare beneficio al genere umano.
Inoltre, la prospettiva di aderire integralmente ad una data religione può facilmente portare a conflitti di valore, ovvero a chiedersi, ad esempio: “Qual è la religione migliore?”, “Se non aderisco al cristianesimo, significa che non sarò salvato?”, “Posso apprezzare il buddismo anche se non condivido la prospettiva della reincarnazione?”. Ovviamente tutte queste domande sono causa solo di turbamenti spirituali e rischiano di portare ad ostilità e sospetto tra religioni diverse. Per questo motivo credo una ragionata prospettiva sincretistica potrebbe indurre serenità e nobiltà d’animo, laddove si riconosca che ogni religione, se non si cade nel fanatismo, ha di mira esclusivamente il bene e la felicità dell’uomo.

 

Francesco Breda

 

[Photo credit Jean-Baptiste D. via Unsplash]

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C’è un medico in seggio? Elezioni in stato di emergenza

In diversi comuni italiani, è tempo di elezioni. Se è il caso anche del posto in cui vivi, puoi provare a partecipare al seguente piccolo esperimento: quando sei in giro, presta attenzione ai vari manifesti elettorali di chi si candida a sindaco o a consigliere. Bene, noti qualcosa in Comune?

A me ha colpito in particolare un aspetto: nelle immagini, più di un candidato indossa un camice da medico o farmacista, spesso brandendo uno stetoscopio, accompagnato da frasi come “la mia ricetta per città-X” o “con me sei al sicuro”. Evidentemente, non è un caso e la ragione di tutto ciò è facilmente comprensibile: effetto-pandemia, in almeno due sensi.

Il primo senso è più politico-politicante: i vari esponenti di partiti e movimenti hanno annusato l’aria e cercano di cavalcare il trend del momento. “La gente” comincia ad avere come riferimento personale sanitario di varia natura? Allora servono candidati provenienti da quelle file! “Il popolo” comincia a fidarsi di chi ha a che fare con la salute? Allora sotto con l’arruolamento di (pseudo)esperti del settore!

Il secondo senso è più politico-sociale, direi filosoficamente più interessante: che cosa significa il fatto che le persone iniziano a ritenere affidabili i “professionisti della salute”? Senza chiamare ora in causa la biopolitica (ne ho parlato qui), si può dire che stiamo assistendo alla politicizzazione di una parte della società che prima di oggi non aveva (una simile) rilevanza politica. Tra i primi sintomi abbiamo avuto la presenza e il séguito in crescita esponenziale di virologi, epidemiologi e annessi in talk-show e social: la loro diventava una voce in capitolo, se non La Voce per eccellenza – per la gioia dei neo-followers e la frustrazione dei neo-haters.

Così, quando si tratterebbe di fare politicamente sul serio (almeno in teoria), ecco che oltre alle voci servono anche “anima e corpo”: professionisti della salute di ogni tipo assumono un valore politico tutto nuovo e peculiare, come fossero in grado di agire in maniera politicamente buone ed efficace per il solo fatto di essere medici, infermieri, farmacisti, nutrizionisti e via dicendo (già, ma fin dove arriva l’elenco?). In passato, nei manifesti elettorali campeggiavano scritte come “Presidente operaio”: leggeremo presto in giro “Presidente medico”? Insomma, oggi chi si occupa di salute è investibile di un ruolo pubblico, di una funzione politica: manifesta un valore immediatamente comune.

Provo adesso a leggerti nel pensiero: “ok, ma questa cosa è un bene o un male?”. Sarò onesto: non lo so con precisione, perché mi sembra ci sia del bene e del male nella faccenda. Per capirlo, facciamoci aiutare da un’intuizione di Platone ancora significativa dopo oltre 2500 anni 1che influencer!

Una società si compone di diversi ambiti, “tecniche” per Platone e “professionalità” per noi: ciascun ambito è importante e contribuisce alla società, ma il bene sociale generale non coincide con il bene di nessun ambito preso singolarmente. Per un gommista è un bene avere gomme che si bucano ogni 5km; per un produttore di gomme, un guidatore e il traffico stesso no. Inoltre, nessuno specifico “professionista” è competente intorno al Bene complessivo della propria società, essendo preso – giustamente – dal proprio lavoro e dai propri affari. Beh, quasi nessuno, perché Platone aveva un coniglio nel cilindro, che gli è valso persino l’accusa di essere il fondatore di ogni forma di ingegneria sociale o totalitarismo tecnocratico: esiste un tecnico strano q.b., specializzato nella generalità, in grado di cogliere Il Bene DOP, dunque anche Il Bene Sociale. Perciò, tale professionista rappresenta il Candidato Ideale per agire come Politico in senso pieno: vota quindi… il filosofo, curerà l’anima tua e della società!

Possiamo ora tornare alla tua legittima domanda. È un bene che i riflettori sociali comincino a essere puntati su una categoria data per scontata, come ora i virologi (o pensa ai pompieri USA dopo l’11/09), o su una addirittura ostracizzata, come magari in futuro i sex-worker: anche loro fanno la propria parte! Eppure, è un male se si perde di vista quell’“anche”: ok, prendersela con i filosofi è più facile, perché si fatica a capire cosa davvero facciano; ma nemmeno un medico, per quanto si sappia meglio cosa faccia, incarna Il Bene Sociale o possiede una qualche Super-Competenza in merito. Insomma, vota pure il tuo medico di fiducia, ma non sperare che basterà a sconfiggere il nemico più temuto in comune: le buche stradali.

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. Un ottimo testo che discute tutti i seguenti aspetti è G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 
1971.

[Immagine tratta da Unsplash]

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L’utile del più forte. La giustizia nella Repubblica di Platone

Leggendo i dialoghi platonici, chi non ha mai sognato almeno una volta di essere Trasimaco? Sfacciato e insolente, affronta Socrate di pieno petto e non ha paura di denunciare la presunzione del metodo maieutico, che è per lui del tutto inadeguato a ricercare la verità. Perché in fin dei conti esso rappresenta solamente una pretesa con cui Socrate cerca di ricevere vani complimenti, grazie alla bravura con cui sa confutare le risposte che gli vengono proposte in successione.

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire di chi e di che cosa stiamo parlando. Nel suo dialogo più famoso, la Repubblica, Platone si adopera per definire che cos’è il giusto e la giustizia, in modo da poter fornire un modello di armonia sia per la città sia per l’anima. Come sempre, il dialogo è incentrato sulla figura di Socrate che si ritrova a conversare su questo difficile argomento insieme a Cefalo, Glaucone, Polemarco e Trasimaco. Se i primi tre personaggi si mostrano affascinati dalla dialettica e dall’eleganza dei modi retorici di Socrate, Trasimaco non si lascia intimorire e cerca lo scontro diretto con il filosofo per mostrare la giustizia nella sua nuda e cruda verità.
E infatti lo scontro su questo tema non tarda a realizzarsi. Ma a differenza di quanto ci si aspetta, Trasimaco riesce realmente a mettere in difficoltà Socrate, che deve utilizzare un piccolo trucco per liberarsi delle sue obiezioni. Forse un po’ provocatoriamente, forse un po’ ingenuamente, Trasimaco afferma che la giustizia non è altro che ‘l’utile del più forte’, poiché ogni governante (di una tirannide o di una democrazia poco importa) emana leggi che sono vantaggiose per sé stesso. In questo modo, chi comanda determina ciò che è giusto per i cittadini assoggettati al suo potere, che saranno poi puniti se non rispetteranno le leggi decretate giuste.

Questa concezione della giustizia è in realtà composta da due parti complementari. In primo luogo, se la giustizia è l’utile del più forte ciò significa che è giusto ciò che risulta conforme alla norma sanzionata dalla legge. Questo tipo di convinzione si chiama positivismo giuridico e ritiene, appunto, che l’unico diritto sia dato dalla legge del sovrano, che determina il giusto a cui i sudditi devono obbedire. Ma, allo stesso tempo, la legge imposta da chi detiene il potere ha lo scopo conservare il potere stesso del sovrano. La norma, quindi, rappresenta l’interesse di chi detiene la forza. Così la condotta giusta dei cittadini è finalizzata all’interesse del più forte, cioè alla conservazione del potere da parte di chi già lo possiede. Questo vuol dire che oltre al positivismo giuridico, Trasimaco è portatore anche di un positivismo della forza, secondo cui è la forza a legittimare l’emanazione di una norma.

Di fronte all’irriverenza di Trasimaco e alle sue tesi realiste, Socrate si trova effettivamente in difficoltà, forse perché anche per lui il legame così intimo tra la giustizia e la forza è impossibile da rovesciare direttamente. E, infatti, non sapendo come criticare la verità esposta da Trasimaco, Socrate deciderà di limitare la portata della sua definizione. Anziché riguardare ogni forma di potere, Socrate identifica l’utile del più forte con la sola figura del tiranno, estraneo a ogni norma di legge e volto all’oppressione e allo sfruttamento di tutti.
Ma, come abbiamo già detto, il legame che Trasimaco porta alla luce tra la giustizia e la forza è molto più profondo e complesso. Esso rappresenta un rapporto che non concerne solamente quelle forme di potere totalmente ingiuste ma tutte quante, poiché sempre il potere mira alla propria conservazione.

Oggi più che mai una simile tesi di dimostra attuale, perché, dalla politica all’economia passando per l’educazione, non troviamo altro che una forza che per inerzia tenta di mantenersi in vita.
Ma cosa possiamo fare contro tutto ciò? Trovare una soluzione non sembra facile, ma la filosofia è anche questo, uno sforzo propositivo che cerca nuove soluzioni finora rimaste impensate. Contro l’ineluttabilità di questo legame, probabilmente, l’unica cosa che ci è possibile fare è creare delle condizioni sociali che rispettino il più possibile l’interesse della comunità; è produrre degli spazi fisici e metaforici in cui il bene comune si possa esprimere limitando la bramosia individuale.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Tingery Injury Law Firm via Unsplash]

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La follia abita l’amore: spunti dal mondo antico

Un passo del Simposio di Platone recita così: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime  con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Ogni giorno vediamo coppie innamorate tenersi per mano, scambiarsi baci, dirsi “ti amo”, ma ci sfugge la vera essenza dell’amore. Cosa vuol dire “ti amo”? Cosa significa parlare d’amore?

Io non possiedo l’altro, l’altro è qualcosa di estraneo a me da cui non si dipende perché l’incontro è tra due unità e non tra due metà. Questa è la premessa dell’amore e di una relazione sana: accettare che l’altro è qualcosa che sta ed esiste oltre e al di fuori di me. Il secondo passo è non idealizzare l’altro e non plasmarlo secondo le proprie aspettative. Ci illudiamo di amare l’altra persona per quella che è ma in realtà amiamo l’immagine che ci siamo creati nella nostra mente proiettandola all’esterno e privando l’altro della libertà di esprimersi per quello che autenticamente è.

Si tende spesso a creare ciò che si ama. «Diventa così evidente quello che la nostra storia ha sempre saputo e taciuto, e cioè che anche nelle cose d’amore l’uomo ama solo la sua creazione, quindi non la natura, ma quella natura coltivata che siamo soliti chiamare cultura» (U. Galimberti, Le cose dell’amore, 2004).

Umberto Galimberti ha fatto una ricca riflessione a proposito, e mette in luce come l’amore sia quando l’altro ti disarma, ti toglie le difese e ti mostra la tua fragilità e quella parte di te che tu non hai ancora riconosciuto.  Di conseguenza ci innamoriamo dell’altro perché cattura la nostra intima essenza prima che noi ci mettiamo a nudo. È un disvelamento dell’anima che richiede il collasso dell’Io. Non bisogna mantenere le difese, non ci deve essere controllo. L’amore non è faccenda dell’Io, ma piuttosto dell’Es: infatti è da lì che scaturiscono le scelte razionalmente inspiegabili.

L’amore mette in crisi le nostre certezze, crediamo di avere il controllo su noi stessi e sulla nostra emotività fino a quando non arriva l’amore a svegliarci dal torpore dell’illusione in cui dormivamo. La condizione sine qua non, secondo il mio punto di vista, per amare ed essere amati, è accettare di non avere il pieno controllo del proprio inconscio e soprattutto di non avere il controllo dell’altro. L’anima di una persona innamorata vive una continua tensione tra forza e fragilità, una continua lacerazione dell’Io.  

Spesso, erroneamente, si fa coincidere l’amore con la passione e l’uomo moderno, alla ricerca perpetua di emozioni forti per sentirsi vivo, non appena il fuoco della passione è meno ardente mette fine ad una storia d’amore. Si continua a desiderare, sempre di più, in una corsa senza meta. L’amore invece è figlio della stabilità e dell’eternità, il contrario del desiderio che richiede continui stimoli e novità. Amore non è fuoco che brucia in un istante fulmineo, ma luce che dura e che abita la durata.

Penso che l’amore faccia paura a molti perché non è facile entrare in contatto con la parte di sé più autentica che spesse volte è anche quella più vulnerabile e più facilmente feribile. Amare è un atto di volontà che richiede impegno, dedizione, fiducia, reciprocità, affidamento. Si sa che non è semplice perché l’amore è una minaccia all’integrità del proprio Io ed è per questo che bisogna avere il coraggio (etimologicamente “avere cuore”) di perdersi per ritrovarsi riflessi negli occhi dell’altro che ci mostra per quello che siamo. Socrate ha descritto l’amore come una relazione con l’altra parte di noi stessi e non tanto come rapporto con l’altro. Per questo motivo affidarsi all’altro ha a che fare più con una scommessa che con una vittoria certa, ma vale la pena giocarla perché in fondo l’amore è abitato dalla follia e tutti noi siamo un po’ folli.

 

Matilde Zerman

 

Sono Matilde Zerman, laureata magistrale in Psicologia. Amo leggere, stare all’aria aperta e stare in compagnia delle persone per me importanti. Mi pongo tante domande e per la maggior parte non ho risposte, ma è questo che mi affascina della vita, che tutto sia un mistero da scoprire e conoscere.

[Photo credit unsplash.com]

L’eleganza del riccio: l’apparenza che precede l’essenza

L’eleganza del riccio non è un semplice romanzo, ma un vero e proprio testo filosofico. Le protagoniste sono due donne di età e ceto sociale opposti: Renée Michel è la portinaia cinquantenne di un elegante palazzo parigino, vedova, brutta e goffa; Paloma è una ragazzina tredicenne, particolarmente intelligente, che vive nel palazzo in questione con la sua ricca e superficiale famiglia. Entrambe incarnano in maniera emblematica la potenza delle apparenze.

Un tempo era l’insostenibile leggerezza dell’essere, oggi è l’insostenibile leggerezza dell’apparire, questo per via della difficoltà sempre più presente di mostrarsi per ciò che realmente si è. La società dell’iper-modernità ci vorrebbe tutti conformi a determinati canoni  assolutamente arbitrari, che vengono però percepiti come oggettivi. Il bisogno di conferma del proprio valore e il rispecchiamento sociale, portano spesso l’essere umano ad autodefinirsi in  base all’immagine che le alterità si fanno di lui, il che comporta una perdita parziale della propria autenticità.

Le due protagoniste vivono infatti la loro vita all’interno di scontati stereotipi e nessuno dei personaggi con i quali vengono in contatto si mostra interessato a guardare oltre quelle apparenze. Dietro la maschera della goffa portinaia, si cela in realtà una donna con una grande passione per la filosofia, che però decide di non mostrarsi per ciò che è, attendendo probabilmente che qualcuno riesca ad andare più in profondità, come possiamo evincere dalle parole della donna stessa, che in una riflessione molto bella sulla fenomenologia di Husserl, paragona la definizione di quest’ultima, al fermarsi ad un giudizio di superficie:

«Fenomenologia: la “scienza di ciò che appare alla coscienza”. […] Un solitario e infinito monologo della coscienza con se stessa, un autismo duro e puro che nessun vero gatto andrà mai a importunare»1.

Ci verrebbe da pensare che, invece, Paloma, provenendo da una famiglia benestante, non abbia alcun problema a sentirsi accettata, ma non è affatto così: anche lei rimane intrappolata nella rete dei clichéLa ragazzina è bramosa di giungere all’essenza delle cose, motivo per il quale non sopporta la superficialità con cui la sua famiglia si approccia all’esistenza e pianifica di suicidarsi il giorno del suo compleanno e di dar fuoco alla casa, per far capire loro  quali davvero siano i problemi della vita.

Paloma sarà la prima ad accorgersi dell’autentico essere di Renée e questo cambierà radicalmente gli eventi, portandola a rinunciare all’idea del suicidio. La descrizione che la tredicenne fa della sua portinaia lascia capire l’affinità elettiva tra le due:

«Madame Michel […] trasuda intelligenza. Eppure […] fa tutto il possibile per entrare nel ruolo della portinaia e sembrare stupida. Ma io l’ho osservata […]. Madame Michel ha l’eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei […] ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti»2.

Le apparenze rappresentano dunque il fondamento di ciò che crediamo di sapere degli altri e l’essere, che è l’identità autentica del nostro Io, rimane sempre più schiacciato dal mostrarsi altro per sembrare ciò che non si è, a volte per apparire conformi ai canoni imposti dalla società, altre perché si rimane vittime di pregiudizi duri a morire.

Il libro si chiude con il tragico e fortuito evento della morte della colta portinaia, evento che porterà Paloma a riflettere sul senso autentico e al contempo assurdo dell’esistenza, la giovane rinuncerà a mettere in atto il suo piano, dicendo a se stessa queste parole:

«La vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza […]. È come se le note musicali creassero […] una sospensione […] un sempre nel mai. Sì, è proprio così, un sempre nel mai. Non preoccuparti Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente. Perché d’ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai. La bellezza, qui, in questo mondo»3.

Uno dei grandi insegnamenti di questo libro è che dovremmo imparare a guardare oltre le apparenze, a scavare nel profondo delle persone con le quali veniamo in contatto, a non credere che sia tutto oro quello che luccica e neanche che l’abito faccia il monaco; se imparassimo a liberarci dalle catene che ci impongono di guardare in un’unica direzione e, come il filosofo Re dell’analogia della caverna di Platone, provassimo ad uscire a guardare la “luce del sole”, probabilmente come lui rimarremmo accecati, ma potremmo comprendere, con nostra sorpresa, quanto abbiano da esprimere molte persone e quante invece indossino semplicemente una maschera.

 

Federica Parisi

 

NOTE
1. M.Barbery, L’eleganza del riccio, edizioni e/o, Roma 2016, cit. pp. 55-56
2. Ivi, p. 137
3. Ivi, p. 318

[immagine tratta da Unsplash]

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