Eraclito, Buzzati e il divino a portata di mano

A volte leggendo un autore capita di sentirsi come sopraffatti dalla bellezza e dalla profondità dei suoi scritti, e sembra di trovarsi di fronte a qualcuno di eccezionalmente dotato, dalle qualità superiori alle nostre, quasi facesse parte di un’altra dimensione, quasi vivesse in una realtà diversa dalla nostra. Forse è per questo che ci affascinano gli aneddoti sui grandi uomini del passato: contribuiscono a ridimensionare l’immagine che abbiamo di loro e a farceli sentire più vicini alla normalità.

Uno degli aneddoti più eloquenti a nostra disposizione riguarda Eraclito. Si racconta che dei visitatori venuti ad Efeso per sentirlo parlare, una volta bussato alla sua porta, rimasero interdetti constatando che questi si scaldava vicino al fuoco. Vedendo la loro titubanza, egli li incoraggiò così: «Entrate, gli dèi si trovano qui come dappertutto!»1. Non conosciamo la reazione dei visitatori, ma ciò che conta è che il vedere quell’enorme pensatore in un contesto così banale, così indegno per qualcuno del suo calibro, abbia prodotto una sorta di turbamento in loro, che lo figuravano intento in chissà quali elucubrazioni metafisiche.

La visione del saggio “fuori contesto” produce uno choc, ed è questa la cosa affascinante. Eraclito afferma che gli dèi sono anche lì, nel più banale dei contesti. Perché i visitatori sono turbati? Il fatto è che nell’immaginario collettivo il filosofo, l’artista, il letterato – insomma colui che dedica la sua vita a produzioni fuori dal comune, nel senso più letterale di questa espressione – in qualche modo disdegni le esperienze per così dire banali e si preoccupi di vivere soltanto quelle cariche di senso, che esulerebbero dal quotidiano perché rare e di difficile accesso. Lo choc dei visitatori è quindi prodotto dal contrasto tra quest’idea e la constatazione che Eraclito non sta vivendo nulla di straordinario. Eraclito, dal canto suo, risponde loro bonariamente che lo straordinario non è da qualche parte al di là delle esperienze quotidiane, e che ciò che fa la differenza sono la sensibilità e la penetrazione dello sguardo, la capacità di coglierlo nei contesti quotidiani, perché, in fin dei conti, la vita si svolge giorno per giorno, e dà agli ospiti l’insegnamento che forse erano venuti a cercare, ma che probabilmente non colgono.

La filosofia tende all’astrazione perché il suo sguardo è universale e vuole cogliere il mondo nella sua totalità, non lasciandone fuori alcun aspetto. Tuttavia il mondo prende significato in quanto è vissuto da noi, ed il vissuto è sempre legato al contesto, alla situazione particolare in cui ci troviamo. Il filosofo riesce a non perdere mai di vista questa lezione, ed è anzi consapevole che le grandi verità si nascondono nelle piccole cose, che come tali passano inosservate e richiedono una grande sensibilità per essere colte. Non è senza consapevolezza che Eraclito stesso afferma che «La natura ama nascondersi» (Eraclito, Frammenti, B123 D-K), o che Aristotele ci dica che la filosofia nasce dal sentimento della meraviglia di fronte a ciò che abbiamo davanti2.

Vi è un altro autore, più vicino ai nostri tempi, che sembra volerci persuadere con forza che lo straordinario si nascondono nei contesti più comuni. Si tratta dello scrittore, giornalista e pittore bellunese Dino Buzzati. Profondamente convinto che il misterioso abiti ed animi il mondo e sia sempre dietro l’angolo, nei suoi racconti egli mette in scena gli avvenimenti più surreali e paradossali, a volte anche incomprensibili, partendo da situazioni assolutamente banali ed apparentemente prive di qualsiasi interesse filosofico: una passeggiata nel bosco si trasforma nella più grande delle avventure, una semplice visita medica diventa un’angosciosa odissea verso l’ignoto e la consapevolezza della propria impotenza, una normalissima nuvola ci mette di fronte alle nostre debolezze più recondite, la quotidiana ricerca di un parcheggio finisce col liberarci definitivamente dalle nostre gabbie mentali3.
Insomma, pare che in molti cerchino di suggerirci che il sale delle cose si trova proprio davanti a noi, dentro le pieghe, e che si tratti soltanto di saperlo e di volerlo cogliere.

Concludiamo riportando una singolare esperienza capitataci di recente. Leggendo Le avventure di Pinocchio, il testo all’improvviso si è arrestato e nella pagina successiva continuava un romanzo a noi ignoto. Il fatto, che di per sé può sembrare ridicolo, ci ha però riportato alla mente la vicenda di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Proveremo quindi a recuperare il libro sconosciuto e vedremo dove ci porterà.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Questo aneddoto ci è trasmesso da Aristotele, Le parti degli animali, libro I, cap. 5.

2. Cfr. Aristotele, Metafisica, libro A.
3. I racconti cui facciamo riferimento sono, nell’ordine: Il borghese stregato, Sette piani, Le tentazioni di Sant’Antonio, Il problema dei posteggi in Sessanta racconti, 1958.

 

[Photo credit Stefan Widua via Unsplash]

banner-riviste-2023-aprile

Per un 25 aprile consapevole

Nell’agosto del 1944 Irma Bandiera venne torturata e accecata poiché non voleva rivelare dove si trovavano i suoi compagni. Venne poi uccisa e gettata in strada, perché si sapesse qual era la fine destinata ai partigiani.

Il 25 Aprile è senz’altro il simbolo dell’antifascismo, della resistenza contro la dittatura. Resistenza, ovvero il rifiuto della dittatura e di tutto ciò che essa impone: negazione della libertà, della dignità, umiliazione, eliminazione fisica di coloro che escono dai rigidi confini dell’ideologia su cui si fonda.
A ben pensarci, la lotta per la libertà non può non configurarsi come una resistenza: la libertà per sua natura non può essere imposta, ed è questo il tratto che la distingue da un regime. La libertà si ottiene e si mantiene impedendo che venga soppressa con la forza. La libertà, cioè, si guadagna resistendo. In questo senso, l’orrendo episodio di cui sopra è uno dei più alti esempi di difesa della libertà.
Ma il 25 Aprile va al di là di questo: è una ricorrenza che ci ricorda più in generale che ci sono cose che valgono più della vita. Per Irma Bandiera ve n’era almeno un’altra: l’amicizia, che è la responsabilità che abbiamo nei confronti delle persone a cui vogliamo bene.

Credo che oggi sia un’occasione per fermarci un momento e riflettere proprio su questo: la responsabilità. Vi è una tendenza sempre più diffusa a pensare, più o meno consapevolmente, che libertà significhi fare quello che si vuole, e qualunque cosa risulti in qualche modo d’intralcio a questa indeterminata ed ideale espressione di sé viene vista come una limitazione della stessa, e di conseguenza percepita da noi con insofferenza.
Stare al mondo significa inevitabilmente relazionarsi a situazioni, avvenimenti, persone, poiché dal momento in cui facciamo il nostro ingresso in questa scena siamo immersi in un intrico di relazioni, e non possiamo sfuggirne, neanche isolandoci in una fredda grotta di montagna. L’idea della libertà come assenza assoluta di vincoli è una vuota astrazione che non tiene conto che ognuno di noi vive in un mondo, e che le nostre azioni hanno delle conseguenze sul contesto nel quale ci troviamo.
In questo senso, la democrazia può, se vogliamo, essere vista come un’immagine della nostra condizione nel mondo. Democrazia significa che ognuno è responsabile dei propri pensieri e delle proprie azioni, perché è tenuto ad esprimersi e a prendere una posizione all’interno della società, a prendersi cura del contesto in cui vive e delle persone con cui vive. È fondamentale cercare di sentire questa responsabilità, che non è un’invenzione, bensì la condizione reale del nostro stare al mondo.

Irma Bandiera la sentiva: sapeva che anche in quell’orribile situazione nella quale si trovava, in mezzo a quei soprusi disumani e agghiaccianti – soprattutto in mezzo a quei soprusi – era importante mantenere ciò che rende una vita degna di essere vissuta: la responsabilità nei confronti di ciò che è giusto. E la vera libertà non può essere dissociata dal sentimento e dalla consapevolezza del nostro ruolo nel mondo, un ruolo che ognuno di noi ha dal momento in cui è al mondo, perché basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto.

Noi siamo più fortunati: non ci troviamo davanti alla scelta di morire per quello in cui crediamo o piegarci alla violenza e all’ingiustizia. Sicuramente però è importante per noi prenderci un momento per riflettere su questi temi, e soprattutto sul fatto che, se abbiamo questa fortuna, è perché molti giovani ragazzi non l’hanno avuta, e hanno deciso di dare la propria vita per qualcosa di più prezioso di essa: la libertà, e questo in virtù della responsabilità che sentivano nei confronti dei loro cari, dei posteri e del mondo.
Questo giorno, la democrazia, l’antifascismo, la libertà, la responsabilità, tutto ciò è legato assieme da un elemento, ossia la consapevolezza del nostro ruolo in quanto uomini: ecco cosa possiamo trarre da questa ricorrenza. Prendiamoci un momento per pensare a tutto ciò. Come scrive Michele Serra, basta un minuto per sentire che oggi è il 25 Aprile1.

 

Pietro Bogo

 

NOTE:
1- Michele Serra, L’amaca del 25 aprile 2017

[Photo credit unsplash.com]

Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottomette per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto il fatto che la nozione di diritto e quella di forza siano nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

banner-riviste-2023

Cartesio e il problema della libertà

Il concetto di libertà è uno di quei temi che non passano mai di moda. Comprensibile, visto che difficilmente possiamo trovare qualcosa che tocchi più da vicino la nostra sensibilità. Più o meno consapevolmente, la libertà viene chiamata in causa nei contesti più disparati: se n’è parlato molto in politica quando la questione del green pass era al centro dei dibattiti; se ne parla moltissimo a scuola, quando si affronta la nozione di diritto; se ne discute implicitamente innumerevoli volte prima dei diciott’anni, con i propri genitori, quando trattiamo sull’orario di rientro la sera. E quando finalmente diveniamo maggiorenni, il mondo ci sembra ad un tratto un posto più grande, perché “adesso possiamo fare quello che vogliamo”. E quest’idea sembra essere la più popolare, quella che dà la sua accezione al concetto di libertà che ha il senso comune: assenza di limitazioni esterne.

Presto ci rendiamo conto che la vita in società non può ammettere l’assoluta libertà di ognuno, pertanto ridimensioniamo la nostra idea ed affermiamo che “la nostra libertà finisce laddove inizia quella dell’altro”. Tuttavia quest’idea di una completa indipendenza da vincoli persiste ad un livello più intimo: le nostre scelte sarebbero libere nella misura in cui non vi è nulla, se non la nostra volontà, a determinarci. E in questo senso, saremmo tanto più liberi quanto più la nostra volontà è scevra di fattori che possano spingerla in una direzione piuttosto che in un’altra. Ed è in virtù di queste ragioni, sembra, che storciamo il naso all’idea che i nostri pensieri e le nostre azioni siano causati da fattori esterni alla nostra volontà, ma che la determinano: il determinismo in tutte le sue forme è percepito come negazione della libertà.

A questo punto sorge un problema. Se da un lato un’azione libera è determinata esclusivamente dalla nostra volontà, dall’altro non possiamo però decidere che cosa vogliamo: di fronte a due alternative diamo la preferenza all’una o all’altra secondo le nostre inclinazioni, che non dipendono da una deliberazione consapevole.
Insomma, come potrò agire esclusivamente in virtù della mia volontà, se questa è determinata a sua volta da fattori che le sfuggono? Per decidere in piena libertà che cosa fare, non dovrei forse essere per l’appunto libero dalle inclinazioni che mi spingono in una direzione piuttosto che nell’altra?

Un approccio interessante alla questione della libertà è offerto da Cartesio nelle sue Meditazioni metafisiche, pubblicate per la prima volta nel 1641 (in particolare nella quarta, titolata Del vero e del falso). L’autore francese mostra come nell’atto di prendere una decisione intervengano due facoltà: la volontà e l’intelletto. La prima è definita come «la potenza di deliberare», di pronunciarsi su qualcosa. È il potere di decidere se accettare o rifiutare, oppure se è il caso, per il momento, di astenersi perché non abbiamo abbastanza informazioni. In questo senso, essa è intesa da Cartesio come libero arbitrio. La volontà è quindi ben distinta dalle inclinazioni personali verso qualcosa. Le inclinazioni sono un fatto, mentre la volontà è un potere d’azione, e le due cose agiscono separatamente l’una dall’altra. Per esempio, se in questo momento ci fa voglia un gelato, non possiamo farci nulla: è un fatto, ed è ciò che qui abbiamo chiamato inclinazione. Tuttavia possiamo decidere se è il caso di prenderlo oppure no: se ne abbiamo già mangiati dieci, sappiamo che mangiarne un altro ci farà male, pertanto decidiamo di non prenderlo, pur facendoci voglia.

Ad un’osservazione più attenta, ciò che ha determinato la nostra volontà a rifiutare il gelato contravvenendo alla nostra inclinazione immediata è la consapevolezza del fatto che troppo gelato fa male. La conoscenza è di competenza della seconda facoltà, l’intelletto. La conoscenza delle cose ci aiuta a prendere delle decisioni accurate: vedendo ciò che è bene e ciò che invece è dannoso, ci comportiamo di conseguenza.

Da questo testo di Cartesio emerge un’idea davvero affascinante: l’indifferenza tra più alternative non è libertà, ma indecisione causata dal fatto che non conosciamo ciò su cui stiamo decidendo, e ciò produce una sorta di paralisi. Quando invece sappiamo bene cosa scegliamo quando lo scegliamo, ci decidiamo molto più spontaneamente, e siamo tanto più liberi non avendo che una sola alternativa: quella giusta, poiché nulla ci ostacola nella nostra azione. Recita Cartesio:

«Se conoscessi sempre ciò che è vero e ciò che è buono non sarei mai nella difficoltà di decidere […], e sarei interamente libero, senza mai essere indifferente» (Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1986).

Insomma, quello che Cartesio vuole dirci è che libertà e conoscenza sono inseparabili: soltanto conoscendo ciò che è bene, che non può che giovarmi, asseconderò la mia natura e sceglierò liberamente, eliminando così l’imbarazzo della scelta.

 

Pietro Bogo

 

[Photo credit Kaffeebart via Unsplash]

la chiave di sophia 2022