La sintesi incompiuta: Giasone nella Medea pasoliniana

Dopo aver affrontato le vicende di Edipo in Edipo re (1967), Pier Paolo Pasolini tornò ad occuparsi di tragedia greca in Medea (1969): una pellicola, questa, che però non è soltanto incentrata sugli eventi che vedono protagonisti la maga e Giasone, bensì anche quelli che precedono la loro unione, ossia la spedizione degli Argonauti. Medea risulta quindi diviso in due metà: nella prima, Pasolini racconta l’infanzia di Giasone, l’educazione impartitagli dal centauro Chirone e la successiva conquista del vello d’oro, mentre nella seconda il regista descrive gli eventi occorsi a Medea e all’uomo a Corinto. La scelta registica appare particolarmente sensata, in quanto permette allo spettatore di giustificarsi il matrimonio fra i due personaggi, nonché di avere chiara la visione del mondo della donna.

Vi sono varie coppie concettuali che possono identificare le visioni del mondo dei due protagonisti di Medea: natura\cultura, religione\ragione, in particolare sacro\sconsacrato. L’esistenza che conduce la maga prima dell’arrivo degli Argonauti è agreste, scandita dal ripetersi ciclico delle stagioni, dalla reiterazione di quei riti religiosi (fra i quali vi è anche l’adorazione del vello d’oro) tesi a propiziare il favore degli dei, panteisticamente presenti in ogni raggio di sole, in ogni spiga di grano inchinata al vento, in ogni rumoreggiare dei torrenti.

Anche l’esistenza di Giasone era marcatamente agreste, perlomeno durante la sua infanzia ed adolescenza. In queste fasi della vita, il futuro condottiero della spedizione argonautica, viveva nei pressi di un lago incontaminato dalle acque immote, dedito ad attività come la pesca con il solo utilizzo dei piedi. Nessuna forma di cultura, se non il linguaggio con il quale Chirone gli trasmette i suoi insegnamenti, è ammessa in quel luogo, che per questo – ed è lo stesso centauro a sottolinearlo in un monologo nelle fasi iniziali del film – è sacro, la forma di esistenza di Giasone altrettanto sacra, ed in quella accezione panteistica che già si è evidenziata nel caso di Medea. 

La maga e l’altro protagonista del film sono dunque accomunati da ciò, sembra sostenere Pasolini, ossia da una forma di vita religiosa in un ambiente naturale, dal sacro. Però, con l’ingresso nell’età adulta, ecco che il genere d’esistenza di Giasone muta, diventando razionale e culturale, secondo il regista sconsacrato. Perché ciò che interessa ora all’eroe è, prima, la conquista del vello d’oro che gli permetterà di guadagnarsi il trono di Iolco, in Tessaglia, e, in seguito, la mano di Glauce, ciò che gli consentirebbe di aspirare al ruolo di futuro sovrano corinzio. Con l’ingresso nell’età adulta, a poco a poco, in altre parole si può affermare che l’uomo diventi cosciente del fatto che in lui coesistano due opposte visioni del mondo e modi d’esistenza: il fanciullo, ente naturale di una natura pantesticamente intesa, nell’adulto, attore della cultura in una realtà piegata dalla ratio tecnologica. Il sacro, afferma Pasolini per bocca del suo Chirone, viene negato dallo sconsacrato, sopravvivendo precisamente in esso appunto in quanto ciò che non è più ma che ancora è.

Negato, ma non tolto. In un’ottica d’analisi hegeliana, si può assentire con il regista nell’ammettere che il sacro possa sopravvivere in ciò che è sconsacrato, sicché ciò che è sconsacrato è tale proprio perché “ex-siste”, è, a partire da un Grund, da una “radice” appunto sacra. Con Hegel, la tesi si mantiene come negata nell’antitesi. E Giasone, in Medea, pare proprio essere l’antitesi cultura della tesi natura che è Medea. Ma non è la sintesi, e non lo è perché le due visioni del mondo, i due modi d’esistenza non sono armonizzati insieme a costituire un unico modo di vita: Giasone ha semplicemente negato la natura, la religione, quindi il sacro (tesi) in sé per trapassare nell’altro da sé, nella cultura, nella ragione, nello sconsacrato (antitesi).

Questa, dunque, l’obiezione filosofica che, in ultima analisi, si può avanzare a Pasolini: il sacro non viene tolto dallo sconsacrato, viene semplicemente negato. Perché si dia vera sintesi è necessario che sacro e sconsacrato trapassino in un’altra unità, che è poi quella dell’io vivente, in cui si dà tanto l’uno quanto l’altro, in cui non si dà quindi né veramente il primo e né veramente il secondo.

 

Riccardo Coppola

 

[Credits image: @olva via Unsplash.com]

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“Comizi d’amore” di Pasolini: il conformismo è ancora tra noi?

Sono i primi anni ‘60 quando a Pier Paolo Pasolini, intento a cercare per l’Italia interpreti per il suo film Il Vangelo secondo Matteo, viene un’idea: intervistare gente d’ogni età, sesso ed estrazione sociale per sapere cosa ne pensa di sessualità, matrimonio, divorzio, prostituzione, ruolo della donna e – persino – omosessualità. Nasce così Comizi d’amore, documentario uscito nel ‘65. In esso troviamo anche interventi di celebri amici di Pasolini: lo scrittore Alberto Moravia e Cesare Musatti, considerato il padre della psicanalisi italiana, i quali dialogano con il cineasta friulano esternando i loro punti di vista.

L’audace perspicacia e il costruttivo anticonformismo emergono da ogni domanda posta da Pasolini, che si pone con eleganza e garbo, pur volendo indagare «nel più sincero proposito di capire e riferire fedelmente». All’inizio egli ragiona sul senso della sua inchiesta, e ciò equivale a una dichiarazione d’intenti: il reportage va fatto, afferma Moravia, poiché è cinema-verità che per la prima volta tratta in Italia un tabù, il sesso.

L’idea di girare questo documentario è accolta per lo più male dagli intervistati: di sesso si parla già troppo, dicono. Sconcerta, ad esempio, la carica aggressiva di un padre di famiglia interpellato su un treno: l’uomo, sulla difensiva, afferma di tenersi lontano dall’immoralità; a suo dire i problemi sessuali vanno visti solo nell’ottica della riproduzione e dell’esaltazione di famiglia e specie. Egli non accetta di parlare di figli omosessuali nemmeno per ipotesi: scappa dall’argomento perché prova repulsione.

Non c’è apertura nemmeno in una balera milanese: degli “invertiti” non si sa nulla né se ne vuole sapere. L’unica cosa certa è che nessuno desidera averli come figli: l’omosessualità è considerata innaturale. Pasolini domanda: «Non vorreste conoscere l’argomento per capirlo?», ma le risposte sono quasi sempre negative. Chi risponde affermativamente crede che l’omosessualità possa essere curata e/o prevenuta.

Non a caso Pasolini intitola questa parte del suo film-verità «Schifo o pietà?»: la compassione sembra essere l’unico altro sentimento possibile nei confronti di chi è attratto da persone dello stesso sesso.

L’accettazione giunge dalla saggezza ungarettiana: il poeta, interrogato sulla normalità e l’anormalità sessuale, afferma serafico che tutti gli uomini sono, in realtà, anormali, fin dal primo momento: «l’atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura» è, di fatto, «un atto contro natura». Ogni uomo, continua, è diverso nel corpo e nello spirito, di conseguenza tutti «in un certo senso, sono in contrasto con la natura».

Normalità e anormalità sono uno yin e uno yang irreversibilmente contaminati e destinati a fondersi cancellando ogni linea di demarcazione.

Dalle interviste emerge che “non sta bene” mostrarsi disinibiti, informati sul sesso, tolleranti. “Sta bene”, invece, indossare una maschera di decoro e nascondere i fenomeni scomodi, come la prostituzione. Pasolini ne discute poiché dal ‘58 era entrata in vigore la legge Merlin che l’aveva messa al bando chiudendo le case di tolleranza; ma la gente – e le prostitute stesse – preferisce che le case chiuse esistano: dietro le loro mura il mestiere più vecchio del mondo può continuare a essere esercitato «in maniera onesta» e omertosa.

Qual è invece l’opinione degli italiani in merito al divorzio1?

Molti, soprattutto donne, si dicono favorevoli. Ma c’è chi, come un padre con il figlioletto in braccio, spiega con arroganza che «il matrimonio è un fatto sociale, le istituzioni non devono cambiare e la famiglia è sacra: forma il cittadino e va difesa; senza il nucleo familiare che tipo di moralità si avrà?».

Dello stesso avviso è un’aggressiva signora anziana, convinta che il matrimonio sia la legge di Dio, che va rispettata a maggior ragione in Italia, “casa” del Cattolicesimo. Nelle spiagge calabresi viene addirittura detto che gli episodi di violenza fra coniugi sono preferibili, perché «divorziando l’uomo resta cornuto». La società è – specie al Sud ma non solo – fortemente retrograda: si pensa che l’onore della donna “angelicata”, sempre e comunque inferiore all’uomo, vada ipocritamente difeso.

Pasolini si rende conto che «se c’è un valore in questa nostra inchiesta, esso è un valore negativo, di demistificazione. L’Italia del benessere materiale viene drammaticamente contraddetta nello spirito da questi italiani reali», che nuotano nel più bieco perbenismo qualunquista. Secondo Musatti vestiamo i panni conformistici per proteggerci dall’oscuro antro che racchiude le nostre pulsioni più primordiali e più vere.

Oggi, dopo più di cinquant’anni, parlare di sesso è più facile, ma resta «estremamente faticoso» come rileva Pasolini. C’è ancora tanto silenzio intervallato da episodi di violenta intolleranza, tanta ignoranza pigra e testarda. Servirebbero coraggio e genuinità, che Pasolini ritrova solo nei giovani, «la vera sorpresa dell’inchiesta»: le loro idee sono limpide e (ancora) non filtrate da educazione genitoriale-sociale o morale cattolico-borghese.

Comizi d’amore è sorprendentemente attuale, poiché ha un intento conoscitivo e una straordinaria forza veridica. Guardandolo, ci si accorge con amarezza che i nostri tempi non sono poi così progressisti: pensiamo al Family Day, alla demonizzazione della teoria gender, all’antidiluviana convinzione che un bambino necessiti a ogni costo di un uomo e di una donna per essere cresciuto in maniera sana.

L’essere umano è un oceano vasto e sfaccettato, ha le idee più disparate, per i motivi più disparati. Per questo dovrebbe esserci dialogo e comprensione dell’altrui punto di vista e stile di vita: così si sconfigge l’oscurantismo e l’odio.

Per dirla con Musatti: «quando una credenza viene accettata passivamente, è lì che nasce il conformismo» – testardo, aggressivo, irragionevole.

A fine documentario compaiono due giovani sposi, Tonino e Graziella, pregni d’una «grazia che non vuole sapere»; ma la loro candida ignoranza è invece colpevole. L’augurio che Pasolini rivolge loro è: «al vostro amore si aggiunga anche la coscienza del vostro amore».

 

Francesca Plesnizer

 

NOTE:
1. Il divorzio sarebbe stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano con la legge Fortuna-Baslini nel ‘70.

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La Chiesa all’opposizione: un’intuizione pasoliniana

Il destino della Chiesa, il potere, la lotta e la rivoluzione. Termini e uso del linguaggio anacronistici, desueti: infatti sto prendendo in considerazione un articolo di Pier Paolo Pasolini uscito esattamente il 22 settembre 1974 sul Corriere della sera, pubblicato con il titolo I dilemmi di un Papa, oggi.

Raccolto in Scritti corsari, l’articolo richiamava la possibilità che la Chiesa si facesse paladina di un movimento antagonista rispetto alla società di massa che proprio in quegli anni era agli albori, con la sua sacra dedizione al consumismo e la consegna della propria anima ai vizi dell’edonismo. Pasolini disegnava un orizzonte in cui il cattolicesimo potesse realmente “passare all’opposizione”, realizzando quel distacco (in tutto e per tutto volontaristico ed eminentemente “morale”) dall’incipiente disfacimento ultracapitalistico della società.

«Questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo», scriveva Pasolini.

Il nuovo fascismo, come lo chiamava, aveva infatti relegato la Chiesa ai margini della storia, mediante una sorta di nietzscheana trasvalutazione di tutti quei valori (cristiani e paleocapitalistici) che avevano dominato la storia recente. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità avevano ceduto il passo alla felicità legata ai consumi e ad uno stile di vita imperniato sul piacere e sul godimento.

Certo è lo stesso Pasolini a definire quest’idea della “rivoluzione” della Chiesa come «una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica». Il tono usato dallo scrittore però tradisce un’ultima – recondita – speranza.

«La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante. È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi».

Un richiamo, quello di Pasolini, che è chiaramente rimasto inascoltato nel tempo. E lo è stato perché in quell’articolo lo scrittore poneva una precondizione che la Chiesa non è mai stata disposta ad accettare: «Per passare all’opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa». La direzione è stata invece diametralmente opposta, visto che la Chiesa, più che accettare passivamente il potere, ne ha assunto anche la fisionomia. Non c’entrano nulla la ricchezza e lo sfarzo, che se mai ricordano un appannaggio quasi nobile del clero.

Parlo dei sistemi di comunicazione di massa, dei messaggi semplici e a forma di slogan veicolati attraverso la televisione e internet, della riduzione del messaggio evangelico ad articolo degno del peggior opuscolo, o della sua compressione (demonica?) in “stati” o “post”.

Questo rapporto simbiotico della Chiesa con la società dell’edonismo tecnicizzato potrebbe essere interpretato come un’alleanza, ma anche come una resa incondizionata e mai annunciata del Vaticano, o addirittura come un sodalizio tra due poli apparentemente indifferenti l’uno all’altro, oppure come una miscela – placida e silenziosa, non certo esplosiva – di questi tre elementi.

Certo è che la vicinanza dei modi e dei metodi del Cristianesimo degradato con il nuovo Potere, come lo definiva Pasolini, è assolutamente evidente. Tanto più quanto ormai le categorie del “lavoro”, dello sviluppo, della felicità e dell’amusement di cui si parla nella Dialettica dell’Illuminismo non vengono mai messe in discussione. Il suicidio sta proprio nel credere di poter veicolare un messaggio cristiano attraverso dei mezzi e degli atteggiamenti che sono per loro intrinseca natura anticristiani.

Ci vorrebbe il Tau al posto della cupola: ma questa è davvero – soltanto – un’utopia.

Roberto Silvestrin

[Immagine tratta da Google Immagini]