8 brevissime lezioni di etica dalle piante, maestre di sostenibilità

«Andai per i boschi perché desideravo vivere con saggezza» scriveva Henry David Thoreau nel 1854. La natura è certamente maestra di saggezza, ma come possiamo cogliere i suoi insegnamenti noi che frequentiamo così poco i boschi? In questo ci viene in aiuto chi ha studiato a lungo le piante, come uno dei più autorevoli studiosi di neurobiologia vegetale: Stefano Mancuso, direttore del LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale). Le sue appassionanti opere divulgative sono un’occasione per svelare come le piante possano essere un modello di ispirazione per i principi dell’etica e della bioetica. Infatti, mai come ora abbiamo bisogno di sensibilizzarci alla cura dell’ecosistema “Terra”, la nostra casa, dove tutto è intimamente connesso. Eppure, sentire la Natura come un sistema di interconnessione tra tutte le forme di vita diventa sempre più difficile, se dalla natura viviamo distanti; ripromettendoci di passare più tempo immersi nel verde, possiamo subito iniziare a rimediare con gli strumenti che ci offre la conoscenza.

Cosa possono insegnarci le piante? Ecco otto brevissime lezioni di etica1:

1. Le piante non possono scappare di fronte a una minaccia ma se vogliono sopravvivere devono trovare una soluzione, per questo si sono ingegnate in una varietà di risposte tra le più originali e diversificate. Hanno solo bisogno di tempo, perché la velocità non è il loro forte. Forse anche per questo ci sfuggono le loro strabilianti performance. Noi, invece, fuggiamo facilmente ma, al momento, da questo pianeta non ce ne possiamo andare. Dovremmo sforzarci di essere più originali.

2. Non potendo scappare, le piante hanno fatto della cooperazione il loro successo. Ad esempio, attraverso le radici e i funghi possono inviare nutrimento a piante più piccole, oppure, grazie agli animali, al vento o altri espedienti più bizzarri attuano lo spargimento dei loro semi affidando alla buona sorte il futuro della loro prole. In natura il “mutuo appoggio” (teorizzato da Kropotkin2) è la strategia più diffusa di proliferazione della vita. Anche Darwin aveva visto nella cooperazione il punto focale dell’evoluzione.

3. Le piante consumano pochissimo e producono tantissimo. Ricordiamo che il nostro pianeta sarebbe senza la vita che vediamo se non fosse che pazientemente le piante hanno preso luce e anidride carbonica, loro nutrimento, restituendo al mondo ossigeno prezioso. Noi, invece, prendiamo di tutto restituendo perlopiù montagne di rifiuti.

4. Le piante sfruttano il fatto di essere mangiate: sembrano sacrificarsi ma questo consente, in vari modi, di garantire la sopravvivenza della loro specie. Soltanto gli umani tendono a mettere in crisi questo ciclo, ad esempio: impoverendo la diversità genetica mediante produzione di frutta senza semi; concentrando le coltivazioni in poche culture (mangiamo meno varietà di vegetali, soprattutto cereali, rispetto a tutta la nostra storia passata); cementificando il suolo e attraverso altri diabolici espedienti.

5. Le piante non conoscono le gerarchie, sono le paladine dell’uguaglianza. Primo, perché non hanno un corpo specializzato in organi, ma hanno una struttura modulare. Secondo, non avendo un apparato peculiare decisionale (come per noi è il cervello), realizzano le loro scelte olisticamente, grazie anche a una fitta rete di relazioni con l’ecosistema. I sistemi decisionali decentrati sono più diffusi in natura di quanto pensiamo e, in caso di minaccia, garantiscono più probabilità di successo. Le gerarchie, invece, tendono a produrre effetti dannosi come l’incompetenza e il declino di responsabilità (si pensi alla formula “ho soltanto eseguito gli ordini”, il cui scenario più tremendo è quello emerso durante il processo del nazista Eichmann).

6. Le piante modulano la loro crescita in base alle risorse presenti di volta in volta, mentre noi umani mangiamo anche a scapito di tutto.

7. Le piante sanno aspettare pazientemente il momento buono per farsi vive. Vi siete mai chiesti quanto possono sopravvivere dei semi? Finora, si è riusciti a far germogliare semi vecchi di circa duemila anni!

8. Le piante sono maestre di resilienza, di fronte alle difficoltà dimostrano una forza impensata, mai brutale e prevaricatrice (di cui siamo spesso protagonisti noi). Ne sono testimonianza la rigogliosa vegetazione che, nonostante le radiazioni, invade Cernobyl da quando gli umani sono scappati o gli alberi sopravvissuti a pochi metri dall’impatto della bomba a Hiroshima, onorati dai giapponesi col nome speciale di Hibakujumoku.

Insomma, questi e altri aspetti della vita delle piante ci invitano a considerarle molto di più di quanto facciamo quotidianamente, sia per promuovere la loro presenza, sia per emulare le loro virtù! Appena possibile allora, cerchiamo di allungare lo sguardo esplorando parchi o boschi, quando invece stiamo ricurvi su libri e cellulari, proviamo a sfruttare l’accesso alla conoscenza che essi offrono. Scienza ed etica sono due pianeti della conoscenza che non sempre dialogano in sintonia, ma in questo caso la scienza delle piante ci può fare da guida per ripensare un‘esistenza umana più etica, perché anche noi, come le piante, non possiamo vivere senza Terra.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:

1. Alcuni dei suoi libri, utilizzati qui, sono: L’incredibile viaggio delle piante, Laterza, 2018; Plant Revolution, Giunti, 2017, La nazione delle piante, Laterza, 2019.
2. L’opera Il mutuo appoggio fattore dell’evoluzione di P.A. Kropotkin, è scaricabile gratuitamente qui.

[Immagine tratta da unsplash.com]

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Imparare a vivere dalle piante per arginare l’emergenza ambientale

Sapete cos’è l’EOD? Oppure è la prima volta che vedete e leggete questa sigla?
EOD significa Earth Overshoot Day ed è conosciuto anche come il “giorno del debito ecologico”. Viene calcolato ogni anno dal Global Footprint Network, un’organizzazione internazionale no-profit con sedi in Svizzera e Stati Uniti. L’Italia e l’Europa hanno già superato per il 2019 il “punto di non ritorno”: è stato esattamente lo scorso 10 maggio. Fino al 2020, allora, noi consumeremo risorse del pianeta non rinnovabili.

Cosa significa? Per capirsi: che tagliamo gli alberi prima che diventino adulti; che emettiamo più carbonio nell’atmosfera di quanto le foreste siano in grado di assorbire; che peschiamo più pesce di quanto gli ecosistemi siano in grado di rigenerare.

Negli ultimi tempi l’emergenza climatica ha cominciato a diventare notizia. Sulla stampa, nei tg, sui social media si parla finalmente di cambiamento climatico, di quanto stia mutando il nostro pianeta, del rischio di estinzione che minaccia specie viventi e veri e propri ecosistemi. Tuttavia ancora in molti, per ignoranza, per superficialità o per la smania di una crescita che non è più sostenibile, non comprendono la portata drammatica e micidiale di questo fenomeno, di cui è proprio l’uomo la causa principale e che mette a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza.

«Attraverso la sua storia la Terra ha subito cinque estinzioni di massa ed un certo numero di estinzioni minori. […] Adesso siamo nel bel mezzo della sesta estinzione di massa. Un evento di una portata tale che percepirne le conseguenze non è per niente facile. […] Le passate estinzioni di massa di cui si ha conoscenza, sebbene veloci, si sono sempre manifestate lungo un arco di milioni di anni. L’attività umana al contrario sta concentrando la sua letale influenza sulle altre specie viventi in una manciata di anni»1. Essere consapevoli del disastro che i nostri consumi stanno creando, sottolinea Stefano Mancuso nel suo libro, dovrebbe renderci tutti più attenti ai nostri comportamenti individuali, ma anche arrabbiati verso un modello di sviluppo che per premiare pochissimi, distrugge la nostra casa comune.

Mettiamocelo in testa: il nostro pianeta ha risorse limitate. Mi sembra più che normale, essendo un pianeta finito. Non occorre essere dei geni della scienza per capire che il modo di agire e di vivere che l’umanità ha avuto e ha tutt’ora è totalmente insensato, a meno che l’obiettivo finale non sia l’estinzione. E se non invertiamo la rotta è molto probabile che ci arriveremo.

«Risorse limitate non possono sostenere una crescita illimitata. E badate bene: quando parlo di crescita illimitata, non intendo parlare di crescita della popolazione – tutt’altro – ma di crescita dei consumi. Il pianeta potrebbe tranquillamente ospitare una popolazione umana molto più numerosa di quanto non sia oggi, e anche ampiamente superiore ai 10 miliardi di persone che si prevedono per il 2050 o giù di lì. Potrebbe, appunto. Ma soltanto qualora l’umanità cambiasse radicalmente il proprio stile di vita, riducendo drasticamente l’uso di risorse non rinnovabili»2.

Esiste, quindi, una soluzione al problema? Un modello virtuoso da poter seguire? La risposta è sì ed è da sempre sotto i nostri occhi. Secondo Mancuso, infatti, dovremo semplicemente imparare dalle piante. Nel suo libro, lo scienziato ribalta completamente la prospettiva e per una volta, invece di essere l’uomo al centro di tutto, sono le piante ad esserlo: le piante, con il loro sistema di sviluppo, la loro organizzazione, le loro regole, che sono ovviamente completamente diverse dalle nostre, eppure, fa notare Mancuso, molto più funzionali:

«Il mondo vegetale segue la semplice regola di crescere fin che è possibile farlo, in accordo con la quantità di risorse disponibili. In altre parole quando i mezzi cominciano a scarseggiare , la crescita si riduce. L’insana idea che si possa crescere all’infinito con risorse finite è solamente umana. Il resto della vita segue modelli realistici. […] Non potendosene andare in giro, come fanno gli animali, alla ricerca di nuovi territori da sfruttare quando il cibo scarseggia, le piante hanno imparato a convivere con la finitezza delle risorse e a modulare lo sviluppo»3.

Le piante, quando necessario, riducono la loro taglia, si assottigliano, si avvolgono, si curvano, interrompono la loro crescita, «fanno tutto ciò che è necessario, perchè il loro equilibrio con l’ambiente sia il più stabile possibile»4. Non solo, c’è un’altra caratteristica che la “nazione delle piante” possiede, di cui lo scienziato mette in luce l’efficienza: la cooperazione. «Non potendosene andare in giro a cercare ambienti o compagni migliori, una pianta deve per forza imparare ad ottenere il massimo dalla convivenza con i suoi vicini. Quest’arte della convivenza la ritroviamo nella maggior parte delle relazioni vegetali»5.

La nostra idea di come funzionino le relazioni naturali è basata sulla semplicistica e arcaica nozione che in natura valga la legge del più forte. Una visione della natura come di un’arena, che Mancuso considera figlia di una grande ignoranza sui meccanismi che denotano il funzionamento delle comunità naturali. Le piante invece, collaborano tra di loro, vivono in simbiosi, uniscono i propri destini, cooperano per mantenersi in vita, evolversi, crescere e prosperare.
Anche con noi uomini hanno questo comportamento. Le piante che circondano le nostre case, i parchi, gli orti, hanno stabilito con noi un rapporto di cooperazione e domesticazione: una lunga relazione durante la quale due specie imparano a stare bene insieme e a trarre l’una dall’altra dei vantaggi. La cooperazione è la forza attraverso la quale la vita prospera e per la “nazione delle piante” è il primo strumento di progresso delle comunità.

Pensare che il problema ambientale sia qualcosa di lontano dalle nostre vite quotidiane, di cui non vediamo gli effetti sotto i nostri occhi, non ci dà più il diritto di pensare che non sia un nostro problema. Nel nostro piccolo, nella nostra vita, ogni gesto è importante per dare una mano al nostro pianeta e concedere a noi stessi e ai nostri figli di poter ancora godere della sue bellezze: cercare di sprecare meno acqua, farne un uso moderato, scegliere di bandire la plastica monouso dalle nostre tavole, andare a lavoro in bici invece che in auto, o magari utilizzare i mezzi pubblici, sono tutti piccoli gesti che ognuno di noi può introdurre nella sua quotidianità. Pensate alla potenza che potrebbero avere se tutti, tutti noi, tutta l’umanità andasse in questa direzione!

Come diceva Madre Teresa di Calcutta: «Sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe. Importate non è ciò che facciamo, ma quanto amore mettiamo in ciò che facciamo; bisogna fare piccole cose con grande amore».

 

Martina Notari

 

NOTE
1. S. Mancuso, La nazione delle piante, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 78.

2. Ivi, pp. 100-101.
3. Ivi, pp. 108-109.
4. Ivi, p. 109.
5. Ivi, p. 138.

[Photo credit Noah Buscher  via Unsplash]

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Ogni parola è un seme, biologia e pensiero: uomo e pianta gemelli diversi

C’è un lungo filo rosso che, snodandosi, lega il nostro destino a quello del mondo vegetale. Come la pianta, anche noi siamo fatti di tessuto vascolare, di un midollo che ci permette una posizione eretta, che ci spinge, nel corso della crescita, sempre più in alto, a mirare il cielo. La nostra posizione è radicata nella terra e anelante il cosmo. È un’unità statica ma soprattutto spirituale, come tradizioni orientali suggeriscono, parlando della spina dorsale come della strada fisiologia che porta all’illuminazione e del profondo legame tra la posizione del corpo e la rettitudine dell’uomo.

Polmoni con bronchi e trachea non ricordano forme un albero dalla vegetazione compatta? Non è forse questa forma d’albero che ci permette di respirare e, così, di vivere? Noi e la flora necessitiamo di nutrimento, ci radichiamo e ci nutriamo per crescere verticalmente, l’uomo sostenendo il peso della testa tramite le vertebre cervicali, la pianta quello delle sue fronde.

Ritengo anch’io, come Susanna Tamaro, che dovremmo iniziare ad essere veramente grati, primo fra tutti, al mondo vegetale che – ora meno di un tempo – ci circonda, fulcro e colore della nostra storia, musa che ha ispirato nello scorrere dei secoli opere di poeti, pittori, e artisti di ogni talento. Soprattutto, dobbiamo ricordare che è da esso che dipende la nostra esistenza, l’ossigeno che inaliamo e il nutrimento che rende funzionale la nostra struttura biologica. Tutto inizia con la comparsa nel brodo primordiale di alcune premonere, forme di vita ancestrali, anteriori all’evoluzione del nucleo cellulare, in grado di nutrirsi di luce, grazie alla clorofilla, trasformando anidride carbonica e acqua in nutrimento. Uno dei prodotti finali della fotosintesi è l’ossigeno molecolare, un gas che si ben concilia, combinandosi, ad altre sostante. È stata proprio la sua capacità di legarsi a provocare una delle più grandi rivoluzioni della vita, quella della trasformazione dell’atmosfera densa di ammoniaca, metano e acido cianidrico in quella attuale, costituita prevalentemente da anidride carbonica azoto, vapore acqueo e, appunto, ossigeno molecolare. Attraverso la complessità di un processo evolutivo, l’energia luminosa di cui si nutrono le piante alla fine sostiene anche noi. La biosfera intera si regge proprio sulla fotosintesi.

Nell’oscurità che vive silenziosa, la flora porta il circolo delle proteine, sintetizzate nella luce del giorno, fino ai semi. Senza la necessaria riserva di nutrimento, infatti, questi ultimi non potranno aprire il tegumento e irrompere, dal sottosuolo, sulla superficie delle terra. Privo di proteine, degli amminoacidi, eterni custodi e mattoni dell’esistenza, neanche  lo stelo avrebbe la forza di svilupparsi, di affondare le radici e vestiti di manto verde, di innalzarsi verso il firmamento, divenendo pianta. Anche lui, come noi, gode della forza dell’ascolto e della comunicazione tra simili.

Nel corso della lunga lotteria evolutiva, le piante hanno compreso l’eccezionale potere che il seme, per loro, protegge, assiste e dischiude. Il seme è la grande rivoluzione silenziosa della vita: sì, proprio lui, che ha già tutto dentro di sé. I semi sono potenzialità in sapiente attesa.

Con il Devoniano, più di 400 milioni di anni fa, per le piante qualcosa muta. Prima erano vissute propagandosi esclusivamente in orizzontale poi, impercettibile, qualcosa cambia. Si formano nuove cellule, lunghe, capaci di trasportare l’acqua verso l’apice e altre in grado di riportare verso il basso la linfa elaborata. Si sviluppa così una sorta di tessuto vascolare con al centro una struttura simile al midollo. C’è aria nel mezzo, che implica il respiro. Cellule con clorofilla circondano il tessuto vascolare e la pianta si copre di piccole bocche, gli stormi. Bocche che si aprono e si chiudono per trattenere o liberare vapore. Il vapore sale al cielo e il cielo lo restituisce sotto forma di pioggia. Ed è a questo punto che la terra comincia il grande processo del respiro. Gaia gioisce nel vento che porta vita.

Ogni parola è un seme: entrambi, quando fecondi, contengono in se stessi il proprio nutrimento.

La parola e il talento di progettare sono due peculiarità dell’uomo. Nate, pare, per riuscire nella caccia, sono poi evolute in altro. Con la parola si comunicano abilità, con il progetto l’abilità viene convertita in processi sempre più complessi.

Oggi le nostre parole non riescono più a radicarsi, smarrite nel chiasso che ci avvolge, incapaci di trovare il terreno adatto ad aprirsi un varco, spiraglio di senso, verità e fondamento. Le nostre non sono parole-seme bensì parole-coriandolo, trasportate solo dal fiato, fragile e limitato per definizione. Parliamo senza sosta, esuli dal dubbio che la parola, per esistere davvero, deve vivere nell’ascolto, cullato dal silenzio. Ogni parola è infatti un seme che trova nel nostro cuore il luogo adatto a posarsi. Lì, radicandosi, spezza il tegumento dell’indifferenza, crescendo e innalzandosi. Ma noi, invece,  smarrendoci nel tempo, rimaniamo incapaci di proferire una parola in particolare: nostalgia, sì, la nostalgia dell’anima.

Per capire il tempo, per capirne il significato più profondo, invece di interpretarlo, bisognerebbe spogliarsi. Spogliarsi dell’io prima di ogni altra cosa. […] Spogliarsi e attendere. Attendere e ascoltare. […] È il tempo del mistero e della trascendenza, […] in cui verrà svelato ad ogni seme il suo progetto. È il tempo dell’umiltà , della discesa nelle radici […], dell’ascolto che si trasforma in dialogo […], dell’accoglimento e della riconoscenza. È il tempo del seme che diventa germoglio e del germoglio che diventa pianta. È il tempo della pianta che trasforma l’energia della crescita nell’inutile bellezza del fiore e che, un istante prima di appassire e lasciar cadere i semi, si accorge con stupore che ciò che fino a quell’istante aveva chiamato Luce, in realtà era Amore.

Esistere nel tempo è prima di ogni altra cosa radicarsi. E il radicamento implica acqua, sorgente di vita e campo dove il mondo conosciuto ha iniziato a mettere radici. Lì, nell’acqua del ventre materno la vita di ognuno di noi inizia il percorso di crescita. In Ogni parola è un seme, questo concetto torna, proposto, continuamente. È la spinta a ritrovarci in questa dualità uomo-pianta, una delle chiavi adatte ad aprire la serratura della comprensione di sé affinché ciò che comunichiamo torni ad essere, finalmente, un seme fecondo che, da germoglio ancorato ad un terra di pragmatico senso, si sviluppi in fronda anelante l’universo di domande.

 

Riccardo Liguori

 

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Lo spettacolo “Botanica” per cercare di capire le piante

Le piante sono necessarie alla vita dell’uomo.

È una cosa che sappiamo tutti, ma l’abbiamo mai capita? Ne abbiamo veramente preso coscienza mentre sentiamo con un orecchio che la foresta amazzonica viene distrutta giorno per giorno nel silenzio più totale?

Forse no.

Ecco perché il professor Stefano Mancuso, botanico di fama internazionale, ha capito che il messaggio, per penetrare a fondo, doveva essere comunicato in modo nuovo. I Deproducers, gruppo che unisce importanti personalità del panorama musicale italiano, hanno contribuito a progettare e costruire una forma che si sta dimostrando vincente e che si chiama “Botanica”. Gli interventi parlati del professore, appassionati e divertenti (perciò leggeri e piacevolissimi da ascoltare), si mescolano in modo del tutto convincente con la musica, realizzata da alcuni strumenti canonici (chitarra, basso, pianola ecc) con il supporto di sporadiche e studiate percussioni su tronchi di legno, una musica modulare che si ispira alle piante stesse; a fare da sfondo ci sono grafiche colorate e a tratti psichedeliche, video rallentati di piante in movimento (e chi l’ha detto che le piante stanno ferme?), mandala digitali di forme e colori.
Noi de La chiave di Sophia abbiamo avuto modo di assistere a questo spettacolo in occasione del festival Pordenonelegge lo scorso sabato 16 settembre 2017. Siamo entrati senza sapere bene cosa aspettarci e ne siamo usciti profondamente toccati ed entusiasti.

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La balenottera azzurra non è affatto l’essere più grande esistente (la Sequoia sempervirens lo è) e le tartarughe marine non sono affatto le più longeve (cosa sono del resto 200 anni contro i 4700 del Pinus longaeva?); le piante non sono esseri individuali ma sanno instaurare rapporti sociali, non sono affatto prive di sensi né prive di intelligenza. Siamo noi uomini gli stupidi quando continuiamo imperterriti a distruggere proprio gli esseri senza i quali la nostra vita è del tutto impossibile. Circa il 97,3% della biomassa del pianeta è vegetale e nel restante 2,7% animale l’uomo costituisce più o meno lo 0,02%, perciò verrebbe da chiederci: ma chi ce lo dà il diritto di distruggere il 99,98% del pianeta? Eppure, lo stiamo facendo. Per davvero. Distruggere le foreste in particolare è il vero e proprio unico crimine nei confronti dell’umanità perché eliminare le piante significa privare noi e le generazioni future della possibilità di continuare ad esistere.

Dobbiamo solo compiere quel piccolo sforzo che ci consente di capirle, queste piante; anche perché abbiamo anche molto da imparare da loro. Dico “piccolo” ma in realtà è enorme: il loro modo di fare e di pensare è talmente diverso dal nostro da non poterlo forse mai capire fino in fondo, questo perché il loro corpo è immensamente diverso da quello animale (per esempio distribuisce in tutta la superficie gli organi, mentre nel nostro sono concentrati in punti), e il fatto che possano vivere migliaia di anni contro i nostri 80 di media ci impedisce di comprendere cosa possa significare crescere in un così ampio lasso di tempo, stare al mondo e vivere con lentezza tutti i cambiamenti che i millenni portano con sé.

Però possiamo cominciare ad interessarcene. Possiamo almeno essere a conoscenza del fatto che non sono “solo piante”, infinitamente inferiori alla grandezza dell’uomo (in realtà è l’opposto, direi), e che hanno una loro dignità. Sì, dignità. Meritano di vivere, di essere considerate e rispettate. Se non altro per la nostra stessa sopravvivenza e salute, poiché oltre all’ossigeno basti anche pensare che 9 principi medicinali su 10 derivano dalle piante: considerando che secondo molte stime conosciamo meno della metà delle specie vegetali presenti sul pianeta, rischiamo ogni giorno di distruggere le cure mediche che stiamo affannosamente cercando da anni, forse decenni.

Ma non è soltanto questo, o almeno non dovrebbe esserlo. Dovremmo rispettare le piante perché esse hanno una dignità, hanno una complessità, hanno capacità relazionale: dovremmo rispettarle perché ogni forma di vita va rispettata, anche se non riusciamo del tutto a comprenderla, dovremmo insomma rispettarla solo perché esiste ed è viva; dovremmo rispettare le piante come rispettiamo gli anziani per la loro età e saggezza, perché esse sono altrettanto anziane (ma hanno prospettive di vita molto migliori delle nostre) oltre che altrettanto capaci e sagge.

 

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L’idea di Mancuso è che lo spettatore esca da “Botanica” con la consapevolezza di tutto questo. Non si può agire, del resto, senza prima essere consapevoli. Io ho riassunto qui soltanto pochi degli spunti offerti dallo spettacolo, ma se non potete vederlo con i vostri occhi vi potranno essere da supporto il libro e il cd che sono in vendita dal medesimo titolo “Botanica”. Questo è il primo passo d’azione. Il secondo è fare la propria parte quotidiana, guardando alle piante con occhi nuovi e con un cuore un po’ più aperto.

 

Giorgia Favero

 

Informazioni sullo spettacolo qui.
Presentazione video del progetto qui. Buona visione!

 

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Anche le piante hanno un’anima

L’opinione per cui le piante hanno un’anima non è nuova in filosofia. In tempi antichi, l’aveva per esempio già espressa il “maestro di coloro che sanno”, Aristotele. Il grande filosofo greco, nel suo trattato Sull’anima, aveva infatti sostenuto l’esistenza di ben tre tipi di anima: quella razionale, propria dell’uomo; quella sensitiva, propria degli animali; e infine quella vegetativa, propria delle piante.

Altri pensatori, dopo Aristotele, hanno, consapevolmente o meno, seguito le sue orme, attribuendo un’anima o qualche forma di coscienza e consapevolezza ai vegetali. Un tentativo particolarmente interessante in questo senso è rappresentato da un libretto pubblicato più di un secolo e mezzo fa dal fisico e filosofo Gustav Theodor Fechner: stiamo parlando di Nanna, o l’anima delle piante (1848).

L’obiettivo dichiarato di Fechner è quello di oltrepassare il materialismo della sua epoca e fare spazio a una visione che veda il cosmo come un tutto vitale, animato in ogni sua parte. Comunemente, ricorda Fechner, la natura viene concepita come un aggregato di materia di per sé inanimata e incosciente, con il risultato che «le creature animate appaiono in mezzo al resto della natura solo come circoscritte isole di anima nel­l’oceano universale dell’inanimato e del morto». Secondo Fechner, invece, «tutta la natura [è] animata da Dio» e «da questa animazione nulla nel mondo, né pietra, né onda, né pianta [è] escluso».

Quella che Fechner propone è dunque una vera e propria “rivoluzione copernicana” rispetto al senso comune. Per millenni – ricorda lo scienziato – si è pensato che la Terra fosse immobile, e il sole le girasse intorno, mentre ora invece sappiamo che è il sole a stare fermo e che è la terra a ruotargli attorno. La messa in discussione del geocentrismo tolemaico è stata certamente una grande conquista per il sapere umano; ma adesso, secondo Fechner, è arrivato il momento, per la scienza, di fare un altro passo avanti, smentendo un ulteriore pregiudizio: quello per cui gli esseri umani (o gli animali in genere) sarebbero esseri privilegiati e superiori rispetto alle piante, in quanto unici detentori possibili dell’anima. Dobbiamo insomma prepararci a cambiare radicalmente il nostro punto di vista sull’uni­ver­so, e cominciare a pensare che l’anima si possa trovare anche in corpi fisici molto difformi da quelli umani o animali, come appunto sono quelli delle piante.

Certo, interrogarsi sulla presenza o meno dell’anima nelle piante può sembrare un’occupazione sterile, ma Fechner è agguerrito e pronto a ribattere colpo su colpo per dimostrare la necessità e la validità delle sue ricerche. «A chi passa per la mente di pensare sul serio ad un’anima delle piante? Se si attribuisce loro un’anima i più lo prendono per un gioco concettuale», egli si lamenta; ma poi passa all’attacco: «se molti respingono [l’idea dell’]anima delle piante perché non vedono che importanza essa possa avere, io devo invece [assolutamente] esigerla [come parte integrante del mio sistema di pensiero], […] perché ritengo che senza di essa rimarrebbe nella natura un vuoto gigantesco».

Secondo Fechner è del tutto assurdo pensare che di fronte all’immensa varietà di corpi fisici che Madre Natura è riuscita a produrre, essa, dal punto di vista “spirituale”, si sia poi limitata a creare anime soltanto per gli animali: «le conformazioni dell’anima», egli scrive, «sono tanto numerose quanto lo sono le conformazioni corporee […]. [Se] la natura, nella sfera della corporeità, non ha esaurito col regno animale la possibilità di diversi piani di struttura e di vita, perché essa ha anzi col regno vegetale aggiunto un nuovo ordine di corpi, per quale ragione dovrebbe essa essere [invece] rimasta indietro nel campo dell’anima?».

E aggiunge: «Perché non ci dovrebbero essere, oltre alle anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono e spandono odori, e appagano la loro sete nell’assorbimento della rugiada, i loro impulsi nello spinger fuori le gemme e le loro ancor più alte brame nella ricerca della luce? Io non so perché il camminare e il gridare debba, a preferenza del fiorire e dello spandere odori, essere ritenuto quale [esclusivo] depositario della psichicità; non so perché la forma elegantemente costrutta e bellamente ornata d’una pianta sia meno degna di albergare un’anima dell’informe corpo d’un lombrico».

Dopo aver comparato la struttura di piante e animali, averne notato le somiglianze e aver esposto tutte le prove che lo inducono a pensare che anche in esse vi sia un principio vitale analogo a quello che alberga negli animali, rispondendo nel mentre – e peraltro in modo audace e brillante – alle principali obiezioni che possono essere rivolte contro la sua visione delle cose, Fechner conclude dicendo: «ad un attento esame mi sembra che tutto ciò che si può essenzialmente esigere per la presenza dell’anima, si trovi nelle piante proprio altrettanto quanto negli animali. Tutte le differenze tra le une e gli altri, in quanto struttura e manifestazioni di vita, richiedono soltanto di collocare le piante in una sfera diversa d’anima […]; ma non già escluderle [del tutto] dal [possesso del­l’]a­ni­ma».

Ciò che risulta da tutto questo discorso è che non c’è nessuna “piramide”, “scala” o “gerarchia” tra gli esseri: «le piante non si sottordinano agli animali come esseri inanimati, ma si coordinano ad essi come una specie diversa di esseri animati, o si sottordinano solo riguardo alla specie dell’ani­ma­zio­ne». «La semplice gradualità discendente», scrive Fechner, «è inadatta a rendere il rapporto complesso in cui gli organismi stanno l’uno rispetto all’altro e, comunque si cerchi di disporli, le piante non si potranno mai collocare senz’altro sotto gli animali; ed anche se [per assurdo] ci si riuscisse, si dovrebbe pur sempre attribuire ad esse un’anima d’un grado più basso, sensibile, ma non mai negarla loro totalmente».

Il messaggio finale del libro di Fechner è chiaro: uomini, animali e piante sono tutti esseri senzienti e pertanto stanno tutti sullo stesso piano: nessuna di tali forme di vita “vale di più” delle altre o ha il diritto di credersi padrona delle altre specie e di usarle come se fossero meri strumenti a sua disposizione da sfruttare e sopprimere crudelmente. Tutti i regni della natura concorrono egualmente, ognuno agendo e “pensando” a modo proprio, a mantenere in essere il grande cerchio della vita, che avrà la possibilità di perdurare nel­l’e­si­sten­za solo se ogni tipologia di viventi svolgerà la funzione che è chiamata per natura a esercitare al suo interno.

Il suggerimento che ci proviene dalla lettura di questo suo saggio è allora: cerchiamo di evitare di distruggere il delicato equilibrio creato con tanta sapienza dalla Natura nel corso di milioni di anni soltanto per trarne nell’immediato dei facili profitti economici che potrebbero però avere conseguenze ambientali disastrose a lungo termine, e sforziamoci di non danneggiare gli altri esseri viventi credendoci superbamente superiori a essi. Anche quelli apparentemente meno somiglianti a noi potrebbero infatti essere abitati da una qualche bellissima e sviluppata forma di psichicità. L’ani­ma, in fin dei conti, può nascondersi non solo dietro ai volti dei nostri simili, ma anche all’in­ter­no di corpi fatti di radici, foglie e fiori profumati.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
G.T. Fechner, Nanna o l’anima delle piante, a cura di G. Moretti, trad. di G. Rensi, Adelphi, Milano 2008 (1a ed. orig. 1848)

[Immagine tratta da Google Immagini]