La felicità e la saggezza nel “De vita beata” di Seneca

«Seneca è uno dei massimi pensatori del mondo romano e uno dei più rappresentativi protagonisti del tardo stoicismo»1. La sua vita è votata, insieme, alla filosofia e alla politica. Nasce a Cordoba tra il 4 e l’1 a.C; rientrato a Roma nel 31 dopo un periodo trascorso in Egitto, «lo stile dei suoi scritti, rapido, essenziale, apparentemente facile ma in realtà estremamente denso e fascinoso […] lo [rende] noto a tutti: come segnalerà Quintiliano […] “all’epoca, in pratica non c’era che lui a circolare tra le mani degli adolescenti”»2. All’età di cinquant’anni è pedagogo del giovane Nerone per poi diventare suo consigliere fino a quando l’imperatore non decide di assumere totalmente il potere e dare vita a un nuovo corso politico. A quel punto, nel 62, Seneca sceglie di ritirarsi a vita privata per poi accettare la condanna al suicidio nel 65.

Il De vita beata è composto prima del ritiro dalla vita pubblica, sotto il regno di Nerone, e in quest’opera Seneca «affronta la questione della ricchezza materiale e del suo rapporto con il concetto stoico di “virtù”»3, chiarendo anche la condizione del proficiens – ovvero quell’uomo che è in cammino verso la virtù, la verità e la giustizia ma non le ha ancora raggiunte e non è, quindi, ancora sapiens.

La prima parte del dialogo è dedicata al confronto con la dottrina etica epicurea, che pone al centro della vita il piacere, telos (fine) della vita saggia. Epicuro, infatti, aveva elaborato una proposta filosofica votata all’edonismo – ma dipendente comunque dalla razionalità – che Seneca critica perché «gli antichi ci hanno insegnato a seguire la via retta, non la più gradevole, affinché il piacere sia non guida, ma compagno della volontà buona»4. «Alcuni [infatti] sono infelici non per mancanza di godimenti, ma proprio a causa di essi. Questo non accadrebbe se il piacere fosse legato alla virtù»5. Seneca è coerente interprete della dottrina stoica, che pone come fulcro e telos della vita saggia la virtù, ovvero il vivere in modo coerente e secondo natura. La prospettiva fisica e metafisica stoica, infatti, propone una realtà formata da due principi – materia e logos – mai separati ma fusi insieme, in modo che ne derivi una materia insieme passiva e attiva grazie ad una logica produttiva, viva, che permea l’intero cosmo. Il vivere, quindi, in accordo con il principio razionale del tutto – logos – consiste nel vivere secondo virtù, e la felicità non è che una diretta conseguenza, in una prospettiva che lega strettamente fisica ed etica.

La felicità, allora, viene a configurarsi in collegamento diretto con la verità:

«Cerchiamo dunque ciò che è bene fare, non ciò che è fatto più frequentemente, quello che ci può mettere in possesso della felicità eterna, non quello che è approvato dal volgo, pessimo giudice della verità»6;

con la natura:

«Vita felice è dunque quella che si accorda con la sua natura, raggiungibile soltanto se lo spirito è, in primo luogo, sano e in perpetuo possesso di questa salute […]»7;

e con la virtù:

«[…] si può anche definire l’uomo felice come colui per il quale non esiste altro bene o altro male se non un animo buono o malvagio, colui che coltiva l’onestà e si contenta della sola virtù»8.

Questi tre termini – verità, natura e virtù – rappresentano il fulcro del repertorio etico di Seneca e dello stoicismo, una prospettiva che richiede all’uomo di mettersi in cammino verso la verità attraversando il sottile filo teso tra finitezza umana e perfezione del logos. Sapiens e proficiens hanno, infatti, a disposizione la capacità di giudizio razionale che permette loro di operare le giuste scelte, esercitando la loro libertà inserita all’interno di una prospettiva determinista, nel percorrere questa via.

Molto interessante è il tema della coerenza che viene affrontato da Seneca a partire dal capitolo XVII. Il filosofo romano affronta di petto una possibile critica che un ipotetico accusatore potrebbe muovere alla sua pratica di vita: «Tu parli in un modo e ti comporti in un altro»9. Questa obiezione, che riguarda particolarmente da vicino Seneca, viene affrontata magistralmente, mostrando tra le altre cose come, in realtà «[agli accusatori] conviene, infatti, che nessuno sia ritenuto virtuoso, perché per [loro] la virtù degli altri suona rimprovero alle [loro] colpe»10. Seneca invece, con grande onestà intellettuale, afferma:

«[nulla] m’impedirà di continuare a lodare la vita, non quella che conduco, ma quella che so di dover condurre; non m’impedirà di rispettare la virtù e di seguirla, sia pure arrancando da lontano»11.

Non abbiamo lo spazio per affrontare gli altri grandi temi presenti in quest’opera eterna nel tempo, perciò rinvio al testo stesso, grande miniera di riflessioni preganti anche – se non soprattutto – per il mondo contemporaneo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. S. Maso, Filosofia a Roma, Roma, Carocci, 2017, p. 147.

2. Ivi, pp. 148-149.
3. Ivi, p. 153.
4. L.A. Seneca, De vita beata, in Dialoghi morali, Torino, Einaudi, 1995, p. 139.
5. Ibidem.
6. Ivi, p.127.
7. Ivi, p. 131.
8. Ivi, p. 133.
9. Ivi, p. 163.
10. Ivi, p. 167.
11. Ivi, p. 165.

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

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Dal Marchese de Sade al femminismo: la lettura di Angela Carter

Senza dubbio una delle personalità più estreme della cultura occidentale, il Marchese De Sade (1740-1814), pornografo, libertino, scrittore e filosofo, è stato oggetto di numerose analisi e interpretazioni critiche: dalle più celebri di Bataille, Barthes e Klossowski, a quelle più sofisticate di Deleuze e Lacan. Già Simone De Beauvoir nel 1972 si era chiesta se fosse il caso – da un punto di vista femminista – di “Bruciare Sade”, visto il forte fallocentrismo della sua opera e la misoginia dei libertini che la abitano; e si era risposta negativamente. Al termine dello stesso decennio la scrittrice visionaria Angela Carter in un articolato pamphlet dal titolo La donna sadiana affronta in un’ottica femminista l’opera del Marchese, concentrandosi principalmente su “Justine” e “Juliette”, romanzi con protagoniste due antitetiche sorelle: una, virtuosa e puritana, che soccombe alle depravazioni e al potere sfrenato della società maschilista e sadica francese; l’altra, icona del vizio e della corruzione, che invece naviga a vele spianate nelle storture del libertinaggio, fino all’acquisizione d’un elevato status sociale. La contrapposizione dialettica delle due opere dimostra che Sade non è un semplice pornografo, perché non riempie le pagine di ossessioni carnali (a dispetto della ripetitività che spesso gli viene contestata; che è però elencatoria, eccessiva in senso verbale, non volta a costruire schemi descrittivi per la prurigine del lettore), non crea “copie” di Justine ma cambia punto di vista, nella medesima vicenda. Ribalta l’ottica della situazione, la teoria, per mostrare tutti i lati della situazione-mondo assunta a esempio sommo della sua visione. In questa fessura dialettica Carter scova una rappresentazione esauriente della condizione femminile, e soprattutto della sua iconografia; è un contribuito in termini di storia delle idee (idee di “corpi”) in rapporto all’immagine della donna.

Il corpo femminile, in quanto corpo materno, comprensivo di grembo e utero, possiede connotazioni mitologiche ed antropologiche che per secoli lo hanno elevato a oggetto sacro e insieme reso crogiuolo di inquietudine, tramutatasi poi in misoginia o culto misterico ed esoterico; la Carter ritiene necessario rifiutare questa simbologia millenaria, desacralizzare il corpo, restituirne gli organi alla loro dimensione carnale, privarlo dell’estatica ammirazione che lo circonfonde (accompagnata dall’ignoranza che si è sempre giustificati ad avere verso gli oscuri misteri della natura). Sade, primo nella storia della letteratura, fa esattamente questo, rendendo il grembo materno una metafora della reificazione femminile, degradandolo in modo ironico e grottesco, soprattutto ad opera di donne libertine e dominatrici che rifiutano la sacralizzazione e l’oggettivazione metafisica del proprio utero (tipica della gravidanza, rifiutata o spogliata della sua aura). Difatti “questa teoria della superiorità materna è una delle più dannose di tutte le finzioni consolatorie e le stesse donne non possono farne a meno”, e il suo rifiuto strappa il corpo femminile, dopo millenni, ad una “immagine pressoché impenetrabile, mistificatoria e kitsch, che tende ad allontanarla dal fatto reale o psicologico”. Questa credenza spacciata per ovvietà sarebbe la causa primaria dei maltrattamenti subiti da Justine, emblema della condizione storica della donna, perché “non c’è alcun modo di profanare ciò che è sacro” a prescindere da ciò che gli si infligge. Il rifiuto della maternità è il trionfo della sessualità (“la madre è in sé una negazione concreta dell’idea di piacere sessuale”) nella quale Sade vede il raggiungimento della libertà individuale e della completa uguaglianza; tuttavia per quanto teorizzata questa definitiva sconfitta della repressione sessuale non è mai realmente auspicata: la sua persistenza è fondamentale nell’economia narrativa sadiana, innanzitutto perché la vittoria del piacere sul dolore libererebbe dai tabù, annichilendo così lo stesso genere pornografico. Questo evento però – al contrario di ciò che sostiene la Carter, che vi scorge una debolezza – è la massima dimostrazione della verità della tesi sadiana, una verità che non può compiersi proprio in virtù dell’equivalenza disinibizione=libertà, ed è quindi utopia. In second’ordine si rivela la natura puramente teoretica dell’opera del Marchese: il suo è un sistema filosofico, di cristallinità spinoziana, e come tale per avanzare tesi compiute ha bisogno di tenere ferme delle premesse (in questo caso la repressione sessuale), dei principi indiscutibili, a prescindere dalla possibilità concreta di un cambiamento, di una “rivoluzione” che – a dispetto di ciò che spesso si dice – non è un tema sadiano. E si potrebbe a questo punto avanzare l’ipotesi che il suo radicale nichilismo è anch’esso una premessa del sistema, un elemento non per forza riferibile alla psicologia dell’autore, uno strumento dimostrativo.

La donna sadiana non è quindi rivoluzionaria fino in fondo, “non sovverte la società se non incidentalmente”, (e la stessa Juliette è un modello di donna storicamente raggiunto, ma indice di un femminismo compromissorio, abortito), se non in senso classista, e ciò rende merito a un’interpretazione marxiana di Sade (accanito lettore di Rousseau). Carter scava nell’opera sadiana restituendogli una originalità e una preminenza nella storia delle immagini concettuali della donna, non allineata agli standard della società patriarcale; ma alla fine lo riposiziona nel suo contesto, ne riconosce i limiti, e – come ogni analisi perspicua – ne metabolizza i risultati in una prospettiva più ampia, offerta dalla psicoanalisi kleiniana e dall’etica animalista. Il senso ultimo del messaggio pornografico sadiano, nel suo discorrere di femminilità, è esistenzialista, “heideggeriano” (prelude l’ “essere-per-la-morte”) e restituisce l’ambiguità insita in tutte le spietate disamine del potere, contenenti sempre una fascinazione per l’oggetto deplorato fino all’identificazione, alla complicità. 

 

Dario Denta

 

Dario Denta è nato a Bari nel 1994. Laureato in matematica a Perugia, studia logica e filosofia della scienza a Firenze. Si occupa di logica applicata, epistemologia della cosmologia, metabioetica. Appassionato di filosofia letteratura e cinema, ha all’attivo una raccolta di poesie e scrive su Shivaproduzioni – il portale del cinema underground.

 

[Photo credit Nicole Honeywill su Unsplash.com]

Tra misura ed ebrezza per una (sobria) filosofia di vita

La combinazione tra vino e filosofia può svelare uno dei fondamenti più attraenti del filosofare. Il principio immateriale più autentico della filosofia, infatti, sembra essere caratterizzato da un’essenziale variazione, che divide i confini della misura consentita: ovvero, ciò che può essere definito buono e vero.

Così, solo a partire da una prospettiva “smisurata” può essere affrontata la questione della misura, che può essere misurata solo ponendosi oltre, al di là di essa.

Lo stesso Holderlin (in Poesie, 1971) considerava l’armonia come ragione ultima dei limiti del mondo, delle sue misure e proporzioni. Mondo in cui l’uomo spesso viene spinto a liberarsi dai suoi legami, mentre non è in grado di cogliere la misura (quella vera).

Da questo punto di vista, il vino può essere considerato come simbolo “vivificatore”, che non può essere semplicemente ridotto a delirio dionisiaco. Infatti, gli effetti di come lasciarsi andare a dis-misura a questo piacere, possono essere considerati parte dell’esperienza filosofica. Perché il solo fatto di sperimentarlo in modo positivo e ragionevole, porta l’uomo stesso a farsi consapevole di questo limite, che divide il bene dal male (o il vero dal falso).

Attraverso la sua storia, in questo caso, il vino può essere considerato l’emblema di questa ambiguità, perché da un lato emerge come qualcosa di sacro, mentre dall’altro esprime la vita quotidiana dell’uomo consumatore da sempre legato al desiderio di superare i propri confini.

Come tra vino e conoscenza, come la filosofia…

Epicuro stesso aveva insegnato come valore fondamentale la misura, limite che oggi indica l’esatto opposto, ovvero Edonè, che in Lettera a Meneceo viene considerato come misura che aiuta a raggiungere il vero godimento di vita.

L’intero pensiero greco in questo senso emerge come pensiero della misura, concetto avente la funzione di simbolo collettivo che rispecchia la distanza degli eccessi, c che viene ristabilito tra i desideri e i turbamenti che attraversano l’animo umano. Solo così questa possibilità di misurarsi, per un autocontrollo effettivo, può essere legata a quel dominio di sé connesso alla virtù.

Anche questo può mostrare il vino: esso rende possibile l’esercizio di equilibrio sul limite tra misura e dismisura; esperienza che può rendere possibile all’uomo una vera e propria pratica del razionale, ma anche dell’impossibile.

Costituisce una relazione altra tra una determinazione e la sua negazione, per vivere il negativo come semplice alternativa rispetto al positivo, e non contradditorio. Solo attraverso questa prospettiva, l’ebrezza, come afferma Massimo Donà in Filosofia del vino (2003), può essere considerata come il vero modo in cui si mostra la sobrietà, perché «nulla di realmente diverso può esserci offerto da un’alterità che da questo mondo venga esclusa»1. Sobrietà che è anche fatta di questo senso della misura, riconoscendo un valore reale alle cose in ogni circostanza e ritrovando un contatto con se stessi che non ha mai perso la sua parte più vera.

Martina Basciano

NOTE:
1. Massimo Donà, Filosofia del vino, Bompiani, 2003, 232 p.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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Il pendolo di Schopenhauer: l’attesa

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«La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia»1.

Arthur Schopenhauer ritiene che sia un pendolo a giostrare la nostra vita e l’attesa dell’oscillazione che ne scandisce il tempo è ciò che ci è concesso per sperare. Di questo tempo nel mezzo, dell’attesa che impregna ogni attimo parlerà questo promemoria filosofico.

Siamo indiscutibilmente proiettati verso il futuro. Siamo in perenne attesa che qualcosa accada per andare avanti e magari qualcosa possa migliorare.

Aspettiamo una svolta per l’Italia, una politica più trasparente e che si rivolga in primis sempre al bene dei suoi cittadini, ma intanto con il sarcasmo di Crozza ci consoliamo e ridiamo della sua corruzione. Ci crogioliamo nel tempo in attesa di una democrazia più vera e concreta, se mai sarà possibile.

C’è chi aspetta una casa dopo che il terremoto gli ha rubato la sua. Le macerie che sono rimaste non sono solo che briciole di quel tetto pieno di ricordi che era una volta. E il freddo e il gelo che non dà tregua in quelle zone non fa che peggiorare la situazione e sperare però che torni il prima possibile il sole o uno squarcio di primavera. Si attendono aiuti e volontari perché possa tornare un po’ di normalità dopo tante scosse che non hanno travolto solo la terra.

Si attende una proposta di lavoro, o almeno si cerca un posto. La disoccupazione è solo uno stato di passaggio dal non fare al fare che non dovrebbe farsi attendere troppo. Se sei giovane c’è chi dice che di tempo ce n’è sempre e bisogna fare esperienza per trovare un lavoro stabile, ma non si vive di sole esperienze se manca il sostegno economico dietro a queste. La voglia di imparare e l’impegno dovrebbero essere ripagate come giusto meritano e non essere sottopagate o peggio, sfruttate.

Se sei una mamma o un papà anche tu hai aspettato con pazienza per nove mesi qualcosa di meraviglioso, che poi è arrivato e ti ha sconvolto la vita. Meritava, non è vero?

L’importante è il viaggio e non la meta, qualcuno diceva, e aveva ragione: siamo bloccati nel tempo che passa, un attimo prima era ora, e qualche secondo dopo è passato. L’unico modo per sopravvivere a questo è lasciare che gli eventi ci attraversino, rimanendo però saldi e presenti per viverli.

In fondo è una vita che aspettiamo qualcosa e la risposta forse è molto semplice: speriamo sempre in un futuro che sia migliore.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1.Aforisma tratto dall’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” 

[Immagine tratta dall’opera L’attesa di Baron Daniele (Google immagini)]

Mangiamo per vivere o viviamo per mangiare?

Il latino sarà anche una lingua morta, ma per (s)fortuna di molti studenti, non lo sono gli insegnanti che lo perpetuano e che a colpi di falce mietono ogni anno più sofferenze che altro.
La mia esperienza non fu tanto diversa da quella di migliaia di ragazzi: debito a settembre e odio cieco.

Dopo lo scoglio grammaticale, però, arrivammo alla traduzione di massime e aforismi, quelle frasi celebri che si trovano (deo gratia) già tradotte interamente sul vocabolario e che portano gioia e agevoli versioni. Dalla semplice traduzione siamo passati alla riflessione; dalla lettura di un latinorum incomprensibile, all’illuminazione su concetti che non avremmo mai considerato, ma che in poche parole racchiudono pillole di verità.

Una di quelle incontrate per imparare le subordinate finali, recitava: “non ut edam vivo, sed ut vivam edo”, che (con la garanzia del vocabolario) significa “non vivo per mangiare, ma mangio per vivere”. Ma cosa significa questo gioco di parole di Quintiliano?
Ci comunica che dobbiamo guardarci dal peccato di gola: a detta del retore romano non siamo su questa terra per mangiare e cercare con il cibo un piacere fine a se stesso, ma dobbiamo ricordarci che il cibo è soltanto un carburante, né buono né cattivo, utile a mantenerci in vita e a darci sostegno.

Vallo a spiegare a tutti quei bambini che allontano dalla bocca ogni cosa di colore verde! E che dire inoltre di tutta quell’estetica del cibo che si è sviluppata negli anni? Artisti culinari ovunque: bar, ristoranti, pub, kebab, pizzerie, pasticcerie, supermercati e via dicendo. Le città sono invase di servizi per il cibo, che cercano di proporre il meglio che c’è sul mercato. Parrebbe insomma che molti vivano per mangiare, per gustare il non plus ultra dei cibi in circolazione.

La pillola di saggezza sembra venir meno, non tanto per la corruzione morale della società (che i detentori dell’etica propinano come minestra riscaldata in ogni epoca), quanto invece per un bisogno umano diverso dal semplice mantenimento della specie: il piacere, il godimento puro, che, guarda caso, è sempre unito ad ogni azione di procreazione e mantenimento.

Più tardi il greco mi ha insegnato che le pillole (anche quelle di verità) sono un farmaco (φαρμακον), che letteralmente può equivalere tanto a sostanza salvifica quanto a veleno mortale. Dove sta la verità di questa pillola? Ci porta salvezza o distruzione?
Ogni aforisma va dosato, come una medicina, va preso in giuste quantità, tali da non svilupparne una dipendenza dalle frasi altrui. Dovremmo invece inghiottirlo e deglutire, farlo nostro, rielaborarlo e integrarlo con il nostro organismo, con il nostro pensiero.

Il latino è così, o nero o bianco, tertium non datur, ma esistono davvero solo due possibilità? La filosofia ci viene ancora una volta in aiuto, e ci fa capire che sulla terra non c’è nulla di assoluto, di così spaccato e definito nella sua contrapposizione all’opposto: in medio stat virtus. Né l’una né l’altra allora, né viviamo per mangiare né mangiamo per vivere, ma mettiamo in atto una commistione di piacere e godimento assieme alla necessità di avere la pancia piena, di avere un organismo che funzioni perfettamente e in cui inserire il giusto carburante.

Apriamo la bocca e assaggiamo una pietanza: gli organi di senso sono totalmente recettivi, come durante un amplesso. Il corpo si prepara a ricevere qualcosa che lo sostiene, che lo salva, che conferisce quel principio di piacere al quale non ci si può sottrarre. L’attività quotidiana del mangiare non si limita all’immissione di un carburante meccanico, ma alimenta la mente e lo spirito, sensi e percezione, piacere e godimento.

Ma non basta un cibo buono, serve anche un cibo sano, quello che i bambini ancora non capiscono, quello che gli adolescenti non accettano, quello che gli adulti cercano di dimenticare.
Ecco che quindi l’aforisma iniziale assume un senso diverso, un’interpretazione che lo rende più accettabile e sensato. Se è vero che non viviamo per mangiare, insomma, non viviamo per mangiare e basta; ma mangiamo per continuare a vivere e poter continuare a mangiare. Il cibo è funzionale alla vita, ma la vita è felicità e gioia, è ricerca del piacere e sperimentazione costante di esso.

Mangiamo per vivere, certo, ma viviamo per essere felici, per godere della vita e del cibo con cui viviamo.

Giacomo Dall’Ava

[immagine tratta da Google Immagini]

Metamorfosi (la perfezione inesistente)

 

Viviamo in una realtà stereotipata, viviamo inseguendo dei modelli, decretati da non si sa bene chi, forse da una collettività troppo concentrata sul sembrare e poco interessata all’essere.
Questa considerazione sappiamo bene potersi estendere, bene o male, a qualsiasi sfera dell’esistenza umana. Questa riflessione non è altro che immagine scritta di una società priva di valori.
Questi stereotipi, tuttavia, vengono addidati e allo stesso tempo inseguiti ossequiosamente da ogni singolo individuo che io abbia mai avuto la possibilità di incontrare. Chi vuole essere il figlio perfetto, chi lo studente modello, chi il compagno ideale, la moglie che l’immaginario collettivo desidera, la ragazza che tutti si voltano a guardare per strada..la ragazza che desidera ardentemente ricevere lusinghe, quella che posta foto sui social perché la “fame del like” e la bramosia di approvazione sono troppo forti per non ricercare ossessionatamente l’approvazione altrui.
La premessa serve unicamente ad aprire la strada alla riflessione che sento di dover attuare, soprattutto ora, qui, perché nel mondo delle parole non si trova mai abbastanza spazio per valorizzare una donna per ciò che è e non per ciò che dovrebbe essere.
I media manipolano, persuadono, modificano la nostra opinione, il nostro pensiero, il nostro modo di agire. I media possiedono quel potere coercitivo in grado di mutare spazi e tempi, divengono estensioni del nostro io, ci affidiamo a loro, ascoltiamo, agiamo. Il passaggio da ascoltare e restare passivi ad agire e diventare attori attivi sta avvalorando, giustificando e legittimando la violenza che le donne subiscono dai media…violenza che, come per un effetto osmosi, è portata avanti dalla società reale, dal sistema nel quale viviamo, ci rapportiamo.
Il viso perfetto, i capelli perfetti, il corpo perfetto. Cercando di mostrare donne normali, attuano ancor di più la corsa alla somiglianza di modelli del tutto sbagliati.
So cosa vuol dire vivere in sovrappeso, sentire le risate, le prese in giro, le cattiverie gratuite… La preclusione alla definizione di “normale”, l’ inclusione nel gruppo dei ciccioni, dei brutti, di coloro che valgono meno. Di questo parliamo, della privazione del valore personale con l’aumento del peso corporeo.
Ad ogni epoca corrispondono stereotipi, in ogni epoca le donne fanno la corsa per tagliare il traguardo. Passare le notti insonne, passare le giornate a resistere, a privarsi del piacere del cibo, dell’unica cosa in grado di saziare davvero l’animo, per ottenere un sorriso, un complimento…il compiacimento. Perché la volete sapere la dura verità? A nessuno piace andare in palestra a sentire la ciccia che salta su e giù mentre si corro sul tapisroulant, nessuna donna prova piacere nel sostituire una fetta di torta con una carota o una costa di sedano…e chi vi dirà il contrario, mente.
Malgrado le lacrime, i dolori, le privazioni, nulla potrà mai discostare una donna dal raggiungimento del proprio obiettivo, nessuno potrà convincere una donna che l’approvazione altrui non conta, che le persone che offendono sono stupide. Nessuno.
Il baratro, nel quale il genere femminile è caduto,sta continuando a risucchiare autostima, sorriso, felicità del sé. Accendete la televisione, sfogliate un giornale, una rivista, accedete a Facebook… Vorrei sapere quante donne “normali” avranno un vostro sorriso, quante super magre avranno il vostro like. Potremmo disquisire a lungo su programmi, asserzioni, pensieri e opinioni sulla magrezza, sull’obesità, ma non vorrei mai fare polemica o trasformare un veicolo di libertà di espressione e verità, come lo sono queste parole, in un arma di discussione inutile.
La verità, mio malgrado, deve esser dispiegata. Questa è, però, una realtà scomoda, qualcosa che la maggior parte delle donne negherà. Per me scrivere tutto ciò è difficile, affrontare i propri mostri lo è sempre…ma la propria sofferenza potrebbe esser la chiave di lettura della sofferenza altrui.
Questa rubrica, la possibilità di trasmettere il mio pensiero al mondo, mi ha fatto comprendere come la narrazione  dell’attualità non sia la strada più giusta per esplicitare e chiarificare le forme di violenza contro il genere femminile. Sono le storie vere a dispiegare la totalità di un evento, di atteggiamenti, di condizioni.
Oggi ho deciso di scrivere di un tema, se pur con toni “smorzati”, che mi sta molto a cuore.
Cercare di reincarnare lo stereotipo della donna supermagra, perché la si percepisce come un’imposizione della società odierna, è una violenza… Se vogliamo, una violenza amplificata e legittimata.
Come potrebbe esser altrimenti, per un fenomeno che porta le donne, e anche gli uomini, perché nessuno ne viene escluso, a cambiare sè stessi, la propria immagine, la figura che è riflesso della propria anima, per compiacere una società ossessionata da valori distorti?
Perché oggi come oggi, non importa chi sei, ma come appari.
IODICOBASTA.ETU?

Nicole Della Pietà

[Immagine: opera Metamorfosi IV – pavone di Clarae]