La vita fugge e non s’arresta un’ora. Riflessioni sul tempo

«La vita fugge e non s’arresta un’ora» recita un famoso sonetto del Canzoniere del poeta Petrarca. Niente di più vero! Ogni giorno facciamo i conti con la consapevolezza che il tempo a nostra disposizione trascorre velocemente e verso l’inevitabile fine. Ciò nonostante, quante volte, non curanti, lasciamo che passi, cullati dall’illusione di poter recuperare le occasioni perdute? Così rimandiamo a un domani, vicino o lontano, quello che potremmo fare oggi, mettiamo in stand by la nostra vita, senza poi realizzare le nostre “buone” intenzioni.
Ci capita, poi, di consolidare l’abitudine a procrastinare perché tacitamente ci convinciamo che non siamo noi ad appartenere al tempo, ma che sia il tempo ad appartenerci, come se fosse una proprietà che ci è stata consegnata al momento della nascita per poterne disporre a nostro piacere.

Ecco, allora, il dilemma: siamo effettivamente noi che disponiamo del tempo o è il tempo che dispone di noi?
Certamente non abbiamo potuto decidere quando nascere e dare inizio al nostro tempo, né tanto meno possiamo prevedere il termine della nostra vita; tuttavia è vero che siamo noi a disporre del tempo: ce ne serviamo per quantificare lo scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni e la quotidianità della nostra esistenza, per soddisfare il nostro bisogno di porre ordine ai fatti che ci vedono personalmente coinvolti o che avvengono al di fuori di noi.

È stato il filosofo Aristotele, nel libro IV della Fisica, a definire il tempo come «la misura di ciò che muta, secondo l’ordine del prima e del poi», evidenziando che il tempo ci serve per ordinare e quantificare ciò che accade. Ed è evidente che questa capacità di misurare secondo l’ordine del prima e del poi non è qualcosa che risieda nel tempo, bensì è un’attività specificatamente umana.

Il tempo non sarebbe se non ci fosse l’uomo a concepirlo. Lo aveva ben compreso Sant’Agostino che nelle Confessioni, riflettendo sul tempo passato, futuro e presente, giunge a costatarne l’inconsistenza, notando che «il primo non è più, il secondo non è ancora» e che il terzo, il presente, è un attimo che velocemente trapassa nel passato. Difatti il tempo si annullerebbe, passerebbe senza lasciare traccia se l’uomo non lo trattenesse nella sua anima e nel suo pensiero, custodendo la memoria delle azioni compiute nel passato; attendendo la concretizzazione di progetti e speranze nel futuro; prestando, infine, attenzione ai fatti che accadono hic et nunc, nel presente.

Facciamo ora un’altra riflessione. Il tempo ci consente di quantificare, secondo parametri oggettivi, la durata dell’anno solare o i cicli delle stagioni, di definire in date fisse e inequivocabili ricorrenze e festività, di scandire lo scorrere delle giornate secondo tabelle orarie che sappiamo essere valide allo stesso modo per tutti. È però innegabile che nel dato oggettivo del tempo vada contemplato sempre anche un aspetto soggettivo. Il tempo esteriore dell’orologio, pur rappresentando per tutti la medesima quantità, interiormente può essere percepito in maniera totalmente diversa da soggetto a soggetto, a seconda della situazione emotiva che si prova in quel momento: così gli stessi cinque minuti per alcuni possono essere fonte di dolore e sembrare infiniti, per altri invece possono trascorrere gioiosamente e dare l’impressione che passino in un baleno. Il tempo possiede un indiscutibile valore e significato privato e personale, che riguarda esclusivamente chi lo vive.

Ed ecco l’ulteriore domanda: da chi o da che cosa dipende il valore e il significato del nostro tempo? Nonostante siamo convinti di poter disporre del tempo a nostro piacere, spesse volte cadiamo in contraddizione quando, lamentandoci di essere stati sfortunati e di non aver ricevuto buone occasioni, incolpiamo forze a noi esterne – il caso, il destino, un dio – della nostra infelicità, della brevità della vita, che ci pianta in asso proprio quando ci apprestiamo a vivere. Sicuramente non possiamo prevedere o evitare gli imprevisti che intralciano il nostro cammino e che sembrano ridurre le possibilità di cui temporalmente disponiamo per fare della nostra vita un capolavoro. Non possiamo, però, nasconderci dietro a questa giustificazione per non ritenerci responsabili del nostro tempo. Vivere un tempo sufficiente e di buona qualità dipende anche e soprattutto da noi, dal nostro impegno e dalla nostra determinazione a saper cogliere, nell’immediatezza del presente, ogni occasione, per contribuire a rendere la nostra vita soddisfacente, sforzandoci anche di convertire il negativo nel positivo. Seneca nel De brevitate vitae ci avverte che «non dovremmo preoccuparci di aver vissuto a lungo, ma di aver vissuto abbastanza», di aver saputo dare spessore e intensità alla nostra vita, disponendo del nostro tempo con saggezza, fruendone appieno senza sprecarlo, considerando «ogni giorno come una vita intera.» (Seneca, Lettere a Lucilio, 2010).

 

 

Maria Buonadonna

 

[Photo credit Nathan Dumlao via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Parole che allungano la vita: la lezione di Ivano Dionigi

«Sono simili a bagliori, che s’accendono nell’oscurità e s’imprimono negli occhi della mente»1. Con queste parole Gianfranco Ravasi inizia la prefazione al libro Parole che allungano la vita di Ivano Dionigi, tra i maggiori latinisti italiani e già rettore dell’Università di Bologna. Il piccolo ma prezioso e profondo volume edito da Raffaello Cortina è la raccolta delle riflessioni – con piccole variazioni e brevi aggiunte – apparse nel primo trimestre del 2020 sulla prima pagina del quotidiano Avvenire.

Da raffinato filologo Dionigi invita a prendere sul serio le parole, a conoscerle, a comprenderne il senso, il valore, il bacino di sapienza in esse racchiuso. Per fare questo sono frequenti i suoi richiami all’etimologia dei vocaboli, al fine di porne in rilievo il significato originario invitandoci ad un uso puntuale degli stessi. «Noi parliamo male» sostiene Dionigi, quasi a certificare una vera e propria patologia del linguaggio che impoverisce e così facendo assottiglia il nostro orizzonte, il nostro mondo. Sì, perché le parole non sono flatus voci, non sono aria. Le parole hanno il potere di costruire il mondo o di distruggerlo, possono creare relazioni o possono ferire, possono edificare ponti o erigere mura, possono salvare o uccidere. Ecco che per l’autore è quanto mai necessaria una «ecologia linguistica» capace di ripulire il linguaggio, proprio a partire da una conoscenza più ampia e approfondita dello stesso.

In questo senso Dionigi mostra, con semplicità e rigore, come il ritorno alla filologia non sia affatto indifferibile. Invero, questa disciplina nata in epoca ellenistica e sviluppatasi in particolare con l’Umanesimo non è per nulla antiquata o da riservare a pochi addetti ai lavori, ma è un’arte che consente, proprio oggi, di curare la degenerazione del linguaggio e la povertà dello stesso che caratterizza il nostro tempo dominato da superficialità e banalità.

Leggendo le riflessioni lucide e profonde dell’autore scorgiamo tra le righe come lo studio e la riflessione sulle parole divenga una vera e propria filosofia, ovvero una più ampia riflessione sulla vita in generale ed in particolare sul suo senso, sul dolore, sulla morte, sull’amicizia, sul tempo, su Dio. I brevi scritti che compongono questa sorta di breviario nascono dal silenzio, custode e generatore del pensiero. In questa direzione Dionigi rileva come la parola, ridotta a chiacchiera, sia la conseguenza di una vera e propria «anoressia del pensiero». Per questo motivo, prosegue, «urge imboccare la strada del rigore, abbassare il volume e dare il nome alle cose». Ed è questa la strada da intraprendere per ritornare a interrogarsi, a porsi le domande, a chiedersi che cosa stiamo per dire, affermare e sostenere. Prima di parlare è dunque necessario rieducarsi e riprendere l’abitudine di fare silenzio in noi stessi, quindi di pensare e conoscere il significato autentico delle parole e a ponderarne l’utilizzo.

Al contempo è costante in Dionigi il richiamo al valore della conoscenza della storia – oggi sempre più bistrattata – e ai classici che ad essa si legano. Questi ultimi non sono entità museali e polverose ma sono «utili e rivolti al futuro soprattutto perché le loro lingue ci permettono di capire chi siamo e come pensiamo». Dal latino abbiamo infatti ereditato il lessico che costituisce la cultura e la formazione etica e politica. Basti pensare a parole quali civitas, virtus, res publica, religio, negotium. Il greco ci ha invece consegnato il lessico che costituisce il sostrato filosofico e intellettuale europeo. È qui sufficiente richiamare termini quali tempo (chrònos), parola, discorso, ragione (lògos), interiorità (psyché), dolore (pàthos). Questa notevole eredità è lì a rammentarci da dove proveniamo. I classici sono le radici necessarie affinché l’albero della nostra esistenza possa proiettarsi consapevolmente in avanti. Non è forse questo l’insegnamento che ereditiamo da Petrarca il quale, sulla linea di confine fra classicità e modernità e come anello di congiunzione fra le stesse, si diceva rivolto con lo sguardo «contemporaneamente avanti e indietro» (simul ante retroque prospicens)? Da un lato queste parole del poeta aretino sembrano esortarci a non recidere i fili con il nostro passato storico e culturale, senza il quale si è come alberi privi di radici. Dall’altro il Petrarca sembra sostenere, con equilibrio, l’importanza di non rimanere ancorati in maniera feticistica al passato ma di mantenere lo sguardo anche in avanti con curiosità, passione, interesse per lo sviluppo della vita e della storia. L’impegno umano e intellettuale di Dionigi è teso a mostrare proprio come i classici siano una lezione che continua ad illuminare il nostro cammino, a interpellare le nostre coscienze, invitandoci a conoscerci ogni giorno di più. L’invito a tornare in se stessi diviene per l’autore l’occasione per richiamare all’imprescindibilità dell’elemento umano: «l’unità di misura, l’alfa e l’omega, l’oggetto e il soggetto, rimane l’uomo: l’essere più stupendo e tremendo (deinòn), come l’ha definito la tragedia greca». Trapela qui il sentito invito ad una visione del mondo e della vita che riporti al centro delle proprie riflessioni l’uomo nella sua interezza. A partire da questa convinzione è possibile rileggere e interpretare anche il ruolo decisivo che per Dionigi riveste la politica, la cura del bene comune, la dimensione relazionale della solidarietà, la centralità dell’educazione. Puntuali in questo senso le considerazioni sul ruolo della scuola, il richiamo al bisogno di tornare a riconoscere il ruolo dell’insegnante e dell’insegnamento. Realistiche le amare considerazione sui talenti intellettuali che l’Italia lascia andare o spreca, non offrendo adeguate opportunità di lavoro. Si chiede Dionigi: «Può avere un futuro un Paese che sottrae ai giovani i diritti prima ancora che le speranze e i sogni?».

Questo breve volume, nell’affrontare temi di capitale importanza, si discosta radicalmente dai toni demagogici, aggressivi e violenti del discorso dominante riportando il focus dell’attenzione sulle parole e il loro uso. Attraverso un dettato sobrio e un’invidiabile chiarezza stilistica e di pensiero, l’autore fa dono al lettore delle sue riflessioni per stimolare quest’ultimo a riprendere contatto con se stesso, a fare silenzio, a meditare per poter far fiorire pensieri e parole alti e luminosi.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Questa e le seguenti citazioni sono tratte da I. DIONIGI, Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, Raffaello Cortina, Milano, 2020.

[Photo credit Raphael Schaller su unsplash.com]

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Per una psicologia della montagna: le fasi emotive del cammino

Chi, come me, è solito frequentare la montagna e fare escursioni più o meno impegnative, potrà riconoscersi nelle fasi che mi appresto a descrivere.
Quando intraprendiamo una camminata, che sia essa lunga o corta, difficile o di stampo più turistico, ci apprestiamo in fin dei conti a salire svariati “gradini”. Ognuno di essi rappresenta uno stato d’animo, un certo sentire che porta con sé particolari riflessioni.
Vediamo nel dettaglio quali sono queste tappe emotive dell’escursionismo montano.

Fase uno: il gioioso entusiasmo. È la fase della partenza che porta con sé uno slancio colmo d’eccitazione: non si vede l’ora d’iniziare la camminata e perdersi in mezzo alla natura. Si pregustano il buon profumo dei boschi, i raggi solari che si riflettono sulle creste delle montagne, le bellezze che i nostri occhi raccoglieranno. Impetuosamente ci allacciamo gli scarponi, sistemiamo le cinghie dello zaino, ripassiamo il percorso sulla cartina e con un gran sorriso, partiamo!

Fase due: l’inizio della fatica psico-fisica. Il fervore provato poco prima comincia lentamente a scemare. Arrivano gli aspetti sgradevoli: il sudore e il calore dovuti allo sforzo fisico, il fiato che si fa corto. Alcune domande serpeggiano nel nostro cervello: perché mi sto imponendo questa fatica?
Sentiamo la stanchezza aumentare fino a raggiungere un punto che crediamo sia il punto limite. Ma non lo è: abbiamo ancora forze.

Fase tre: l’ultimo sprint prima della cima. L’aspettativa della meta ci mette l’acquolina in bocca: improvvisamente il corpo sembra ricaricato, siamo in quota e ci godiamo estasiati i panorami montani. Dall’alto osserviamo laghi che sembrano minuscole pozze d’acqua, il verde si perde nel nostro sguardo e mangiamo questi paesaggi con gli occhi per digerirli nel cuore e portarli con noi. Ci culleranno e conforteranno, con quel pizzico di struggente nostalgia, una volta tornati in città, alla vita di sempre.

Fase quattro: l’arrivo in vetta e la sconfinata soddisfazione. Siamo arrivati: che il luogo sia un rifugio accogliente, ma alla buona, dove potersi godere una birra fresca oppure una cima desolata con una croce come unico ornamento, resta il fatto che sentiamo d’aver fatto una grande conquista. Abbiamo raggiunto una meta alla quale ci eravamo prefissati di arrivare: è stata dura ma siamo arrivati fino in fondo. Tolti gli abiti sudati e appiccicaticci, indossata una felpa pesante o una giacca a vento, dopo esserci rifocillati, un enorme e piacevole appagamento ci invade. Chi l’ha provato lo sa: è una delle migliori sensazioni che ci siano al mondo. Sopraggiunge poi la consapevolezza che l’impresa appena compiuta altro non sia che una metafora delle prove cui siamo sottoposti nella nostra vita quotidiana: portare a termine un compito lavorativo, risolvere una crisi familiare o sentimentale, abbandonare qualcuno o qualcosa perché ci nuoce… Tutte cose che talvolta crediamo saremo incapaci di portare a termine.
Cadiamo in uno strano stato semi-meditativo: ciò che abbiamo bevuto e mangiato aveva un sapore più buono del solito, sentiamo una sazietà che pervade anche il nostro animo. E ci rallegriamo pensando “D’ora in poi è tutta discesa”. Riusciamo curiosamente a vivere il momento presente senza preoccuparci delle innumerevoli salite – metaforiche e non – che ci aspettano.

Fase cinque: il riepilogo – la discesa e l’assimilazione emotiva del ritorno. Scendere è un po’ come iniziare a salire: percepiamo nuovamente una pulsante euforia e le nostre gambe sembrano procedere da sole, senza sforzo, senza una guida consapevole. Ma ad un tratto le ginocchia cominciano inevitabilmente a cedere, perché scendendo portiamo sulle spalle dei pesi dei quali forse non siamo nemmeno consapevoli. Il peso del ritorno, ad esempio: torniamo da qualche parte, e quel tornare rappresenta lo spezzarsi di un’armonia che s’era creata salendo e doppiando la vetta. È come svegliarsi da un sogno travagliato e confuso. Tornare è un ri-approcciarsi alla realtà. Una zavorra che trasportiamo assieme al nostro zaino e simboleggiata da tutte le riflessioni che abbiamo fatto nel corso della camminata. Abbiamo pensato alla nostra quotidianità, alle nostre abitudini consolidate, e abbiamo visto il tutto sotto una differente prospettiva, con un distacco che – se siamo fortunati – ci ha permesso di mondarci e liberarci del negativo e del superfluo. Camminando sudiamo e portiamo fuori il nocciolo di noi stessi, la nostra identità più profonda e primitiva. Non ci sono substrati, trucchi o artifici, solo noi, in tenuta sportiva, con uno zaino contenente lo stretto indispensabile. Non dobbiamo essere nulla, mentre saliamo in montagna: siamo e basta. Non possiamo mentire, correre più del dovuto o fingere di essere più o meno allenati di ciò che siamo. Possiamo solo andare al nostro ritmo: i nostri piedi che si rincorrono creano una musicalità interiore e cadenzata, tutta nostra, che stimola e facilita il nostro pensare.

Mi torna alla mente Petrarca e la sua ascesa al Monte Ventoso. La sua salita gli aveva rivelato – con l’aiuto del famoso passo tratto dalle Confessioni di Sant’Agostino: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi» – che nulla è importante quanto l’anima, specchio divino. La maestosa bellezza della montagna resta di fatto un elemento terreno, non degno quindi di attenzione. Petrarca attraversava una profonda crisi mistica e si sentiva in colpa poiché provava interesse per le cose mondane. Eppure anche lui, proprio salendo, era giunto alla sua grande verità. Il sentiero impervio, la stanchezza e le cadute, lo avevano condotto ad un’insostituibile consapevolezza. Credo sia lo stesso per tutti noi: ad ogni nuova camminata giungiamo a nuove consapevolezze, a nuovi traguardi interiori ed esteriori.

Un pensiero dopo l’altro, un piede dopo l’altro. E infine, quando giungiamo al punto di partenza (ora diventato punto d’arrivo), siamo consci che le salite torneranno e saranno ripide e scivolose. Ma così è la vita: un saliscendi.

 

Francesca Plesnizer

 

[Credit Lucas Clara]

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Solitudine necessaria

Ritiratevi in voi ma prima preparatevi a ricevervi, sarebbe una pazzia affidarvi a voi  stessi se non vi sapete governare. C’è modo di  fallire nella solitudine come nella compagnia.

(Montaigne, Saggi, Libro I, capXXXI)

La solitudine è una condizione esistenziale, un sentimento o una necessità?

La solitudine è un concetto difficile da definire perché racchiude in sé molte sfumature e differenze, prima tra tutte quella tra solitudine cercata o imposta.

In questo articolo mi soffermo sul primo tipo di solitudine, quella rincorsa e voluta coscientemente.

Su di essa numerosi pensatori e scrittori hanno disquisito, ricercando in essa il senso dell’esistenza umana; proprio da questo, dall’essenza del nostro essere, possiamo partire per cercare di vedere la solitudine come condizione necessaria all’uomo per, paradossalmente, sentirsi in compagnia, perché permette di stare lontano da tutti e di rifugiarsi in luoghi immaginari solitari in cui accrescere le proprie doti morali ed intellettuali, come riteneva Petrarca nel De Vita Solitaria.

In quest’opera Petrarca valorizza il concetto di solitudine considerandola come assolutamente utile, se non necessaria, per la conquista della pace interiore e per l’accrescimento di una maggiore consapevolezza personale.

La solitudine è vista, dunque, come modello etico da seguire e per il quale bisogna allenarsi duramente.

Nel mondo frenetico di oggi incontrare la solitudine voluta è quasi utopia: tra lavoro, famiglia, sport e hobbies vari, l’uomo non ha più modo né tempo di stare da solo, perdendo così quella fondamentale esperienza di viverSI e, perché no, di conoscersi in modo più approfondito.

La solitudine è una condizione che, se raggiunta con equilibrio e consapevolezza, genera gioia e pienezza per l’esistere quotidiano dell’uomo.

La vera solitudine, però, non deve essere confusa con il mero isolamento spaziale, ma deve coincidere con uno stato di auto-consapevolezza interiore raggiunto solo attraverso il reale ascolto di se stessi; solo in questo modo impariamo ad osservare il flusso dei nostri pensieri e a percepire le vibrazioni più interiori, rendendoci conto anche del nostro grado di fragilità.

Secondo Pascal l’incapacità umana di starsene da soli con se stessi era addirittura una delle cause dei mali del mondo, perché tale mancanza ci porta all’inconsapevolezza delle nostre più segrete inclinazioni ed intenzioni, rischiando così di agire con molta superficialità: questo è il rischio della nostra società, in cui, oltre alla difficoltà di isolarsi, vi è anche la paura di ascoltarsi, preferendo a questo una vita inconsapevole.

Questa è una delle perdite più grandi per l’uomo: perdere il tempo per se stessi, mentre non ci dovrebbero essere lavoro, famiglia o impegni che possano impedire il dialogo con noi stessi, perché solo sapendo ascoltare se stessi possiamo sapere ascoltare l’Altro, relativizzando anche molti pregiudizi.

Amare la solitudine non significa amare l’isolamento dagli altri, ma vuole dire stare bene con se stessi ed avere la capacità di non perdere gli altri nella propria solitudine ma di ritrovarli in modo più libero e obiettivo, senza condizionamenti esterni.

In questo senso la solitudine genera libertà, perché, riportando l’uomo alla sua dimensione più intima, gli permette di mettere a fuoco se stesso, le situazioni che gli ruotano attorno e di trovare, forse, il perché di tutto.

Valeria Genova

Salviamo i classici

“I classici greci e latini sono minacciati non da una cultura che li sfida, ma da una che li ignora. Il problema non è se i classici sono attuali, ma se lo siamo noi nei loro confronti”.

Prima di affrontare il tema dal punto di vista critico, dobbiamo chiederci cosa sono i classici, cosa intendiamo con questo termine.

È un libro che tutti odiano perché sono stati costretti a leggerlo a scuola”, così dice Umberto Eco.

Io ritengo che il classico sia una parte del passato che ha permesso il nostro presente e che noi possiamo utilizzare per il futuro. Se il passato e i classici non ci fossero stati o se fossero stati diversi da quelli che sono, anche il presente sarebbe diverso, perché inevitabilmente ha le fondamenta in loro e da loro si è sviluppato. Qualunque modifica può essere significativa, un po’ come il DNA nel corpo umano: un errore o una diversità possono provocare un danno più o meno grave oppure, più raramente, qualcosa di positivo.

Nel contesto contemporaneo di una scuola che corre per modernizzarsi ed essere sempre aggiornata, ritengo che il classico venga considerato superfluo rispetto ad Internet, che ha ormai preso il sopravvento, ma penso anche che in fin dei conti non sia necessario fare una scelta tra libro, classico, cartaceo ed Internet.

Il digitale può essere utilizzato per la ricerca di informazioni aggiuntive a quelle che i libri ci forniscono, tanto più che oggi molti libri di testo sono riportati anche in formato elettronico con alcune integrazioni, ma anche come fonte di apprendimento in maniera diversa da quella che conosciamo.

Può esser utile studiare un classico anche utilizzando video e film che lo rappresentano in maniera più nuova e divertente, stando però attenti che non si distacchi troppo dalla versione originale e non dia informazioni errate. Ciò, infatti, potrebbe stimolare all’apprendimento anche chi non ama così tanto lo studio ed i classici.

Dal mio punto di vista ogni opera che viene studiata può nascondere se non tutti almeno alcuni aspetti che possono colpirci, se è stata conservata e viene tramandata c’è di sicuro qualcosa da conoscere di lei!

Per esempio lo studio della “Divina Commedia” di Dante è, se non avvincente o bello agli occhi di tutti, almeno utile poiché dà parecchie informazioni storiche, legate a personaggi realmente esistiti nel Medioevo, contemporanei all’autore, o anche nei tempi più antichi.

Gli incontri con i vari personaggi ci mostrano credenze popolari o difetti umani o della società che spesso vediamo essere comuni anche a noi oggi.

Per esempio l’idea, profondamente religiosa, che non si debba superare il volere della divinità, i limiti imposti all’uomo.

Oggi lo vediamo nello sfruttamento dei territori e nella risposta data dalla natura attraverso terremoti e tragedie naturali; nella Commedia ne troviamo un esempio nella Cantica in cui il protagonista è Ulisse, eroe dell’Odissea.

Egli viene colpevolizzato per essere voluto andare oltre le Colonne d’ercole, limite imposto dagli dei, oltre il quale si pensava, ritenendo che la terra fosse piatta, che il mondo finisse.

Ulisse fu troppo curioso e fu punito per questo con la morte.

Se riflettiamo sui poemi omerici, Iliade ed Odissea, notiamo, poi, che da lì emergono temi riscontrabili anche nella nostra quotidianità: amore, guerra, contese soprattutto di tipo economico, desiderio di ricchezza.

Effettivamente nonostante il mito ci presenti come causa scatenante della guerra di Troia il rapimento di Elena, storicamente sappiamo che la causa era in realtà economica, quale argomento è più attuale?

Ciò che è interessante di questi poemi è come effettivamente gli eventi, i popoli e le terre siano reali, anche se tutto viene incorniciato dal mito per rendere la storia più stimolante.

Penso che il rischio maggiore per gli autori di classici sia quello di essere messi da parte e dimenticati. Ma così come queste opere sono arrivate fino a noi e ci è stata data l’opportunità di conoscerle e decidere se ci piacciono o no, se vogliamo studiarle o meno, chi siamo noi per non dare questa possibilità ai postumi?

Si ricade, come spesso succede, nell’ambito della conservazione di testi, opere, beni culturali: quello che abbiamo noi oggi, è giusto che ce l’abbiano i nostri figli e nipoti domani.

Già molte, troppe cose sono andate perdute nei secoli passati, è il momento di salvare la maggior parte del patrimonio culturale possibile!

 

Emma Boccato

Sono al primo anno di Scienze del testo letterario e della comunicazione, mi piace scrivere e vorrei fare la giornalista o lavorare comunque nel campo dell’editoria, infatti sono stata caporedattore del giornalino scolastico alle superiori.
Mi piace molto viaggiare e leggere.