Philosophy with the people in: filosofia e antropologia a confronto

Antropologia e filosofia sono molto più vicine alla vita quotidiana di quanto solitamente si pensi. Un confronto fra le due ci può aiutare a capire non solo in che modo esse toccano la nostra quotidianità, ma anche perché sono così importanti per il mondo di oggi.

Qual è dunque la differenza fra queste due discipline? E, soprattutto, vi è davvero una differenza? Anche solo a guardare la loro storia si direbbe di sì. Mentre la filosofia nasce agli albori della civiltà occidentale, assieme a quella che oggi chiameremmo “scienza” (si pensi ai fisiocratici come Talete, Anassimandro o Anassimene, e ancora di più ad Aristotele e al suo Liceo), l’antropologia si sviluppa nel corso dell’Ottocento, e quasi fin dall’inizio già come disciplina accademica. Difatti, Edward Burnett Tylor, colui che nel proprio Primitive Culture (1871) propose per primo la definizione scientifica del concetto di cultura, fu anche il primo ad occupare una cattedra di antropologia, nel 1896 all’Università di Oxford. Si potrebbe forse sostenere che l’antropologia sia in qualche modo derivata dalla filosofia, e in particolare dal pensiero illuminista, dal momento che le prime riflessioni sulle società cosiddette “primitive” (termine ormai desueto e totalmente non-scientifico) risalgono a intellettuali quali Hobbes, Locke e Rousseau. Va detto però che lo “stato di natura”, come lo concettualizzarono questi pensatori, consisteva più in un esperimento teorico che nella rappresentazione di una società umana davvero esistente. Esso costituiva infatti uno strumento metodologico attraverso cui analizzare quegli elementi che, secondo questi stessi filosofi, differenziavano la società moderna da un’ipotetica condizione originale (primitiva, naturale, appunto). Solo grazie all’emancipazione dallo “stato di natura” poteva infatti iniziare quel processo di civilizzazione, che avrebbe portato dalla condizione primitiva a quella moderna. Come si è detto, però, questa visione apparteneva a esponenti del pensiero illuminista, e in particolare ad alcuni filosofi settecenteschi.

Qual è stato dunque il passaggio che ha permesso all’antropologia di distinguersi dalla filosofia, imponendosi come disciplina a se stante? Quale il suo elemento caratteristico? Nel tentare di rispondere a queste domande, può essere utile rifarsi alla visione dell’antropologia di Tim Ingold. Considerato uno dei più influenti antropologi contemporanei, Ingold propone una definizione di antropologia incisiva e originale, criticata da alcuni suoi colleghi, ma comunque rappresentativa di un certo filone dell’antropologia attuale. In 0, egli definisce infatti l’antropologia come “philosophy with the people in” (“filosofia con le persone dentro”). Per capire il significato di questa affermazione, ritorniamo per un momento alle origini della disciplina. Si è detto come i primi pensatori ad affrontare la questione di una “scienza dell’essere umano” siano stati dei filosofi, intellettuali di alto profilo che indicarono diversi stadi dell’organizzazione della società umana. Questi sviluppi teorici si fondavano sì su racconti di viaggiatori – come ad esempio la descrizione dei cosiddetti “selvaggi” da parte degli esploratori del Nuovo Mondo – ma non erano mai il risultato di esperienze “sul campo”. Al contrario, è proprio questa osservazione diretta delle popolazioni indigene (più tardi denominata “osservazione partecipante”) a caratterizzare l’antropologia e ancor più l’etnografia, ovvero la pratica scrittoria ad essa connessa. Questa specificità si sviluppò solo a partire dalla fine dell’Ottocento e, in modo ancor più consistente, agli inizi del Novecento. È infatti in quel periodo che il colonialismo, in particolare quello britannico, rese possibile, assieme all’assoggettamento violento dei popoli colonizzati, la conoscenza diretta di questi ultimi da parte dei primi antropologi.

“Filosofia con le persone dentro”, dunque, significa proprio questo: lo sviluppo di teorie su vari aspetti del genere umano partendo proprio da coloro che lo compongono, ossia le persone in carne ed ossa con tutti i loro difetti, le loro ambizioni, i loro sogni. Secondo Ingold, è questo l’elemento che maggiormente distingue l’antropologia dalla filosofia: mentre i filosofi sono chini sui testi dei loro predecessori (spesso altri maschi, occidentali e ricchi), gli antropologi studiano e imparano direttamente dai comportamenti, dalle usanze e dai costumi di altri gruppi di individui, vivendo insieme a loro e condividendo le loro esperienze. Riprendendo il titolo del testo di Ingold, l’antropologia importa (it matters) perché permette di raccogliere la conoscenza, ma soprattutto la saggezza, delle molteplici culture che colorano il mondo. Essa non rappresenta più un mezzo per dividere costumi “primitivi” e “moderni”, ma uno strumento per la condivisione di saperi e pratiche, un modo per imparare dalla creatività del mondo.

Oggi, in un mondo surriscaldato dalle dinamiche della globalizzazione e dalla minaccia sempre più palpabile dei cambiamenti climatici, abbiamo ancora più bisogno di conoscere altri modi di abitare il pianeta. E questo è possibile solo grazie a una filosofia che viva tra la gente, che ascolti e parli, ma che, soprattutto, sia pronta a imparare.

 

Petra Codato

 

[Photo credit mauro mora via Unsplash]

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La continua conquista della libertà nella non-autobiografia di Björn Larsson

«Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta» (Dante, Divina commedia, Purgatorio, Canto I): Virgilio presenta Dante a Catone, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, come un cercatore di libertà. Nel caso del Poeta essa è declinata come libertà dal male, intrinseco nella condizione umana; nel caso dell’Uticense, invece, come libertà politica, perseguita con il gesto estremo e al tempo stesso eroico del suicidio, che Dante infatti eccezionalmente non condanna – si pensi al contrario a Pier delle Vigne nella selva dei suicidi (Inferno XIII).

La libertà è un a-priori mai scontato, uno dei diritti fondamentali e inalienabili dell’essere umano, una bandiera nazionale e un ideale individuale e collettivo da tutelare, per la quale – e a volte, ahinoi, in nome della quale – combattere. Refrattaria a ogni definizione, la libertà è una necessità che ognuno a modo suo ricerca ma è anche una componente insita nella definizione stessa di “essere umano”, tralasciando le pagine di Storia sulla schiavitù e quelle delle diverse Religioni sulla creazione dell’uomo: siamo liberi in quanto siamo ma è nell’affermare noi stessi che affermiamo anche la nostra libertà. Ed è questo il leitmotiv di Bisogno di libertà (Iperborea, 2007), la non-autobiografia di Björn Larsson. Nel ripercorrere la propria vita, senza alcuna mera autocelebrazione da scrittore (liberatosi programmaticamente quindi da quel cliché autobiografico povero di valore letterario, come spiega anche nella postfazione Paolo Lodigiani) l’autore analizza alcuni episodi per lui cruciali attraverso i quali ha potuto e voluto ricercare quel bisogno che dà il titolo al libro.

«Non si nasce liberi, lo si diventa» (B. Larsson, Bisogno di libertà, 2007)

Questo è il punto di partenza delle considerazioni dello scrittore svedese, docente di Letteratura francese all’Università di Lund, che ha composto la sua opera in francese, sebbene, come spiega nell’Avvertenza, si fosse riproposto di non scrivere mai un testo in una lingua che non fosse quella materna ma «dove prendersi delle libertà rispetto alle proprie decisioni, se non in un libro sulla libertà?» (ivi).

La libertà è una conquista e va rinnovata ogni giorno per tutta la vita, richiede di essere costantemente presenti a se stessi ‒ «chi è smarrito […] non è libero […]. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione» ‒ e richiede la costruzione di un “io” stra-ordinario, un io cioè “fuori dall’ordinario”, un “io” che viva da protagonista la propria quotidianità secondo quella grandezza, ad esempio, del giovane Jay Gatsby ‒ «formare me stesso, piuttosto che lasciarmi formare, scegliere la mia vita, piuttosto che lasciarmi scegliere» (ivi). Un “io” che dica “no” all’individualismo conformista che è diventato di questi tempi un movimento di massa ‒ «Mi è impossibile capire la gioia che prova certa gente a confondersi con la massa» (ivi) ‒ quel “no” citato dallo stesso Larsson di una scena del film Brian di Nazareth dei Monthy Pyton – un “io” che sia la consapevole realizzazione di un proprio progetto:

«Per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale» (ivi).

Nella prima parte del libro, Larsson analizza il suo «sogno di una vita in libertà» riflettendo sul rapporto «conflittuale ma inevitabile» tra libertà e amore e tra libertà e amicizia: tre assoluti totalizzanti che danno alla vita senso, pienezza e dignità ma che per essere vissuti richiedono un compromesso tra di loro e un confronto con la realtà; quindi un compromesso con se stessi, e fino a che punto si è disposti ad accettarlo? «Perché ho accettato la riunione, l’appuntamento o il caffè con quella persona con cui non ho quasi niente in comune? Perché andare a quella cena, se non ne ho più voglia? Alla lunga questi compromessi usurano» (ivi), afferma l’autore, per il quale contrarre legami a vita è un pericolo ma ritiene anche che «la convinzione di dover passare il resto dei suoi giorni senza vero amore gli toglieva l’appetito di vivere» (ivi). 

Se nella seconda parte del libro Larsson disserta in modo più filosofico sulla definizione di libertà, delineando una sorta di teoria superomistica – non nietzschiana ben inteso – di individuo dotato di un alto e consapevole livello di effettiva libertà, e se nella terza parte conclude con un decalogo di precetti per soddisfare il proprio bisogno di libertà, tuttavia Larsson non fa la morale a nessuno, consapevole che, come diceva Boris Vian, «ciò che conta non è la felicità di tutti, è la felicità di ognuno. Idem per la libertà».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Eneko Urunuela via Unsplash]

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Manuale di sopravvivenza all’apocalisse robot

Domanda a bruciapelo:

“Chi sei?”

Non vale rispondere con nome e cognome.
Né per automatismo, né per tentare di delegare la risposta al proprio profilo Facebook,  scansando lo sforzo di pensarci e distraendoci con le foto della Tailandia in bacheca.

Per rispondere prova a cercare qualcosa in più:
Cosa sceglieresti per rappresentare quello che fa di te ciò che sei?

Se incontri una persona mai vista prima, è dura non notare prima di tutto i dettagli più superficiali. Allo stesso modo potresti fare tu mentre ti muovi verso “te stesso”. Soffermarti sulle caratteristiche della tua figura, il tuo stile nel vestirti. O andare un poco oltre: potresti descrivere le peculiarità dei tuoi movimenti. Sei vittima della goffaggine oppure agile, elegante? I tuoi gesti affermano un certa fiducia e sicurezza, o tradiscono la tua timidezza? E via continuando verso dettagli meno evidenti al primo sguardo. Potresti raccontare il tuo carattere. O le tue abitudini. I tuoi pregi o le tue nevrosi. La tua storia, passata e progettata, ricordi e sogni.
Pezzo dopo pezzo si costruisce una tua immagine, una tua rappresentazione, che cerca di essere autentica e aderente al reale. A quello che sei, ma che magari non sai, che non è facile raggiungere fino in fondo, completamente. Un figura in cui specchiarsi, rigirando e rivoltando il proprio profilo, cercando di capire come siamo e appariamo, possibilmente trovando il lato migliore.
Non è facile scegliere se tra queste c’è qualcosa che ci rappresenti in modo essenziale. Forse in misura diversa tutte insieme collaborano a renderci quella creatura che spesso frettolosamente etichettiamo e riconosciamo grazie a un nome e un cognome.

A volte finiamo per conoscerci meglio se abbiamo la possibilità di riconoscerci negli altri. Individuando qualcosa che ci risuona in coloro che appaiono simili a noi per questa o quella caratteristica.

Ci rispecchiamo in “qualcuno”, e ci rivediamo attraverso di lui.

Ma se invece cominciassimo a trovare ulteriori e sempre più frequenti similitudini con “qualcosa”?

L’avanzamento delle tecnologie robotiche prosegue senza sosta, e i suoi prodotti si rinnovano, si aggiornano e progrediscono.
Gli automi rinascimentali suggestionavano le corti mimando l’apparenza umana. Cavalieri meccanici che riproducevano i movimenti dell’uomo. Meraviglia in chi li osservava e stava al gioco dell’artificio teatrale. Ma poco più di una marionetta per chi riusciva a guardare al di là dell’armatura e scorgeva nell’ingegno del meccanismo un guscio vuoto d’anima.

Da allora robot e androidi si sono evoluti in molte forme, emulando caratteristiche umane, spesso migliorandole. Si pensi a tutti i compiti che richiedono un movimento ripetitivo e programmabile: più forti, più precisi, più rapidi.
Una somiglianza superficiale, che ci fa comodo e ancora non disturba. Anzi. Avere un doppio che ci sostituisce è intrigante. Il termine robot deriva proprio dal termine ceco robota, che significa lavoro pesante o lavoro forzato.

L’evoluzione scientifica è continuata, e a diventare meccanica è stata l’intelligenza. Qualcosa che è di consuetudine attribuito alla sfera dell’interiorità e della soggettività.
Intelligenza artificiale.
E le sue possibilità forse complicano le cose.

Macchine che parlano, reti neurali artificiali che elaborano informazioni, parole e immagini sino ad arrivare a riprodurre facoltà di stampo creativo. Le macchine, le “cose”, invadono il nostro territorio insomma, il campo di quelle possibilità una volta ritenute esclusiva dell’homo sapiens.
E che ne è dunque di quella marionetta vuota?
Impara a muoversi, a percepire l’ambiente circostante, a parlare il mio linguaggio e comprendermi. Si relaziona con me in modo sempre più realistico, analogico, umano. Mi somiglia sempre di più. Portandosi dietro quel vuoto di macchina, vuoto che rischia di risucchiarmi.
L’immaginario della fantascienza spesso ci ha raccontato un futuro apocalittico di terminator robotici che porteranno la distruzione per il nostro mondo di persone. Ma più che una battaglia campale tra agguerrite IA e soldati in carne ed ossa parrebbe che lo scontro avvenga sul piano concettuale. Più etereo, subdolo, inconsapevole.

Gli oggetti diventano riflesso dei soggetti, privandoli poco a poco dell’unicità rispetto a ciò che tradizionalmente li caratterizza. E lasciano ben poco in cui riconoscerci, conservando una sostanziale diversità dai macchinari. Cosa ci caratterizza in quanto umani? Cosa mi differenzia da quella marionetta vuota di coscienza?

“Chi sei?”

Sicuramente qualcuno che ha molto in comune con quella marionetta. E osservandola potrei addirittura imparare qualcosa di più su come “funziono”. E utilizzare quelle nuove conoscenze come base per costruire nuove domande. Senza esaurire la ricerca, per scoprire qualcosa di più.

“Chi sei?”

La tua apparenza, i tuoi pensieri. La tua capacità di imparare, ricordare. Il modo in cui ti relazioni con gli altri. I tuoi gesti, il tuo lavoro. E anche qualcosa di più.

Qualcosa di più.
È questo lo spazio in cui andare a cercare, per salvarsi dall’invasione dei robot.

 

Matteo Villa

P.s.: nel frattempo possiamo rassicurarci con qualche esempio di “stupidità artificiale”

 

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La filosofia dietro le note di “Lento/Veloce” di Tiziano Ferro

Sono in macchina, accendo la radio e parte il nuovo singolo di Tiziano.

Scriverti è facile, è veloce
Per uno come me.
Non temo mai le conseguenze, amo le partenze.
 
Ridere è difficile, è lento
E fosti un imprevisto.
Un angelo in un angolo mi strappò un sorriso vero.
 
Starò ancora bene veramente veloce o lento.
Appena smetterò di domandarmelo suppongo.
Veloce/Lento1 non è solo una canzone ma anche una riflessione celata di filosofia di vita a ritmo di musica, che sarà protagonista proprio di questo promemoria filosofico.
Si parla di tempo, o precisamente dello scorrere del tempo, i richiami sono certamente legati a Eraclito (vedi articolo Tutto passa), ma già dal titolo si può intuire che Tiziano Ferro vuole focalizzare l’attenzione su una chiara domanda e dà la sua risposta: come scorre il tempo? Veloce e lento.
 
Ascoltando più volte il tormentone estivo, si può cogliere questa analisi nel testo del cantante di Latina. Il tempo passa veloce in certi casi e in altri sembra non passare mai. Da qui è semplice e quindi veloce scrivere al destinatario delle strofe per il cantautore per esempio, ma è anche in un attimo che si può commettere un errore e rovinare un rapporto per incomprensioni oppure perdersi nell’innamorarsi e dimenticarsi di sé, riprendendo sempre il testo. In certe situazioni anche succede di accelerare il passo, si prendono decisioni di fretta d’istinto e di petto senza ragionarci tanto, di cui alcune volte ci si potrebbe pentire, ma non sempre.
 
In altre occasioni invece il tempo passa ma pare rallentato: è difficile trovare un momento per ridere in una giornata piena di tensioni o semplicemente ci vuole tanto tempo alcune volte per imparare certe lezioni che la vita ci offre, nonostante l’esperienza. Tiziano descrive anche come lento il tempo passato assieme ad una persona per non sentirsi soli, soffermandosi su quelle relazioni non realmente autentiche e sentite dal vivo, che si creano per colmare quei vuoti di solitudine che si possono provare nell’esistenza. Ma anche per amare ci vuole tempo: l’amore evolve negli anni, dallo stato d’innamoramento si scopre e si consolida l’amore, piano piano in tutte le sue sfaccettature.
 
È forse da quest’ultimo pensiero che pulsa il cuore della canzone, durante ogni giorno solo alla fine possiamo capire come abbiamo vissuto il nostro tempo, con quale intensità lo abbiamo attraversato e quale importanza ha avuto per noi. Malgrado questa riflessione, si sa, non si può tornare indietro e non ci resta che protenderci sempre al futuro e, in questo caso, all’estate che verrà.
 
Infine prima di chiudere, prova pensare anche tu a quali situazioni vivi con più gradualità e senti lento il loro succedersi nel tempo e a quali momenti nella tua vita invece volano veloci e neanche te ne accorgi: magari quando ascolterai questa canzone, un particolare ricordo ti verrà in mente e quel pensiero, se sarà felice, riuscirà a strapparti un fugace sorriso.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

 NOTE
1. Link ufficiale del video della canzone.
 
 
 
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Riflessioni circa scrittura ed architettura: del senso, dello spazio

Victor Hugo era molto appassionato di architettura tanto che definiva quest’arte “regina”; era più di tutto attratto dalle città medievali poiché ne percepiva l’unità, la forza interna, l’ “organicità” medievale, che era ai suoi occhi un ideale perduto.
C’è un intero capitolo in Notre Dame de Paris, “Paris à vol d’oiseau”, che esprime perfettamente l’intuizione di questo attento scrittore: «Non era soltanto una bella città; era una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medio Evo, una cronaca di pietra».
Nel capitolo “Ceci tuera Cela”, Victor Hugo andò ancora oltre, sviluppando una vera e propria filosofia dell’architettura.
Le poche pagine in cui paragona l’architettura ad un linguaggio, oltre ad essere illuminanti circa la funzione storica dell’architettura medievale, costituiscono un prezioso monito.
Victor Hugo ha scritto il saggio più illuminante che sia mai stato scritto sull’architettura.

«Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio». Le enigmatiche parole dell’arcidiacono, nella loro lucida perentorietà, hanno forse bisogno di essere interpretate. Sicuramente esprimono nel contesto del romanzo il pensiero di un prete, il terrore del sacerdote dinnanzi alla tecnica, alla stampa.
Ma c’è una lettura più profonda che comprende l’osservazione del cambiamento in atto che a noi interessa particolarmente: Victor Hugo aveva capito che l’architettura era un linguaggio e aveva intuito che non si sarebbe più scritto nello stesso modo e con gli stessi mezzi.
La stampa, la nuova arte, stava per detronizzare l’altra, la più antica: l’architettura.
Da un libro di pietra, l’uomo si sarebbe affidato ad un libro di carta per tramandare la sua sapienza ed esperienza.
Dall’origine delle cose fino al secolo XV dell’era cristiana, l’architettura era infatti il gran libro dell’umanità, la principale espressione dell’uomo nei suoi diversi stadi di sviluppo.
I primi monumenti furono massi di pietra, non tagliati, anzi come disse espressamente Mosè, “che il ferro non aveva toccati”.
L’architettura cominciò così a compitare il suo alfabeto, partendo dai rudimenti della sua scrittura: i massi, la pietra alzata dai Celti.
Più tardi si fecero parole, combinando sillabe di granito.
Il dolmen e il cromlech celtici, il tumulo etrusco e il galgal ebraico, sono parole.
I tumuli invece, sono nomi propri.
E poi si fecero interi libri, le tradizioni avevano elaborato dei simboli sotto i quali la nuda pietra andava scomparendo, rivestendosi invece di significato.
Allora l’architettura si sviluppò a pari passo col pensiero umano, fissando tutto quell’universo simbolico fluttuante in forma eterna, visibile e palpabile.

L’idea madre: il verbo, era nella loro forma. Il tempio di Salomone non era la rilegatura del libro santo, era il libro santo stesso.
E così fu fino a Gutemberg, l’architettura rimane la principale scrittura.
Di questa scrittura si possono distinguere due forme storiche: l’architettura di casta, teocratica; e l’architettura “del popolo”, paradossalmente più ricca, e meno consacrata.
Tra le due vi è la differenza che intercorre tra una lingua sacra, rara, dotta e precisamente codificata, dove nessuna parola deve cadere a vuoto e nessuna ricolatura è concessa poiché ha il potere di legare e sciogliere, di fare atto ciò che nomina e dice; è una lingua volgare, quotidiana, funzionale in continua evoluzione e contaminazione con gli eventi.
Nel secolo XV tutto cambia, il pensiero umano scopre un mezzo più duraturo e più facile: le lettere di Gutemberg.
L’invenzione della stampa è la rivoluzione madre: è il modo di esprimersi dell’umanità che si rinnova completamente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne riveste un’altra.
Da qui in poi, l’architettura si atrofizza e si denuda; inizia quella meravigliosa decadenza che noi chiamiamo Rinascimento.
A volte le albe e i tramonti si assomigliano.
Con il tramonto dell’architettura, infatti, le altre arti hanno più spazio e iniziano il processo di emancipazione da questa che era sempre stata l’arte tiranna che a sé tutte sottometteva.
L’isolamento ingigantisce ogni cosa: la scultura si fa statuaria, l’iconografia pittura, il canone musica.

Ritornando a Parigi, e al xv secolo bisogna ribadire che era non tanto una bella città, quanto una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medioevo, una vera cronaca di pietra.
Ma quale Parigi l’ha mano a mano sostituita?
La Parigi di oggi è difficile da descrivere e definire, non ha più una fisionomia generale, appare invece come una collezione di elementi eterogenei.
La capitale si estende solo per il numero di case.
Questo ci riconduce ad un altro fondamentale cambio di guardia: il secolo XVIII.
Il Settecento ha ridefinito cosa fosse la città, e l’ha tramutata di sistema di reti e rapporti, ad un agglomerato di cose ed edifici.
Dalla città delle persone e degli scambi, alla città delle strutture.

Laura Ghirlandetti

Laura Ghirlandetti, 1983.
Filosofa on the road con base a Milano, teatrante, e cittadina mediamente attiva.
Ha due blog ed un canale You Tube.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Voci mute e ascolti sordi

Ricordate quando a scuola, specialmente nei primi anni, si veniva a formare quel brusio di sottofondo tanto condannato dai docenti? I richiami erano frequenti, ma nessuno imparava mai a quanto pare. La lezione non entrava in testa, tanto che dopo qualche minuto dal rimprovero, ogni scolaro si ritrovava di nuovo a parlare, ad impiegare la sua voce assieme a quella di tutti gli altri suoi compagni, formando appunto quel rumore, un’unica imponente voce che comprendeva ogni tono, parola e discorso di ciascun partecipante.

Avete mai fatto caso alla struttura di quest’ultima? Fermarvi per un istante ad ascoltare, cercare di distinguere ogni singola componente, scinderla dal complesso e portarla al vostro orecchio, lo avete mai fatto? È una cosa che mi diverte sempre, soprattutto ora che a scuola non ci vado più, ora che sono immerso nel mondo, quel mondo che appartiene ai “grandi”. E li vedo, anche loro sono lì ad impiegare le loro voci, anche loro non hanno imparato la lezione, riempiendo fino all’orlo luoghi che altrimenti sarebbero silenziosi. Mi piace osservarli come facevo con i miei compagni, vedere i loro comportamenti così corretti e omologati, ognuno intento a dire ciò che deve assolutamente dire, raccontare se stesso a più persone possibili forse per ingannare la solitudine, per ingannare se stesso. Ovunque voi andrete potrete sentire questa continua chiacchiera, questo suono che pare così necessario, di cui nessuno si domanda l’utilità, o più precisamente, nessuno si rende conto dell’effetto che può avere. Potrete sostare ad una caffetteria qualunque ed essere immersi nei mille discorsi che la animano, tutto ciò senza preparazione, senza accordo alcuno tra le persone. È così per ogni luogo pubblico e non solo, si sta invadendo con ingordigia ogni angolo del pianeta, in ogni singolo posto pare esservi una parola intenta a descriverlo, renderlo vivo, cercando disperatamente di aggiungere qualcosa, come se ciò che ci è fornito non ci bastasse. Non ci bastano i bellissimi paesaggi di cui disponiamo, le meraviglie che la natura riesce a mostrarci, luoghi che da sempre ricerchiamo. Ogni tanto sentiamo il bisogno di partire, di abbandonare la quotidianità e di riscoprire noi stessi in altri luoghi, magari più solitari e liberi. È capitato anche a me di recente e forse è per questo motivo che sto trascrivendo qui questo mio pensiero, proprio perché anche io mi ritrovo in mezzo alla folla chiassosa che tanto condanno nelle prime righe. Ne facciamo tutti parte e ce ne rendiamo conto quando ne usciamo, quando passiamo al meravigliarci di certi momenti che non richiedono parole, che non vogliono essere descritti, che si fanno bastare così come sono. Penso sia questa la chiave del rapporto che abbiamo con gli altri e della solitudine che spesso si presenta come sentimento nella nostra vita.

Difatti il nostro accontentarci del quotidiano, del far parte di tutte quelle voci, lascia spazio ad un grande vuoto, un’insoddisfazione che può crescere rigogliosa al nostro interno. Pensate sempre alla scena in caffetteria, ai vari tavoli che si trovano vicino al vostro e alle persone che sono presenti. Potrete osservare che ogni discorso, ogni dialogo ha la stessa struttura, si concatenano quasi sempre allo stesso modo. Lo si può capire solo osservando l’ascoltatore, o meglio, il presunto ascoltatore. Ebbene è facile ormai notare come ogni nostro interlocutore sia lì, presente forse come un falso interessato, pronto a rispondere con le parole migliori, le meglio pensate, in grado di stupirvi. La verità è che ci sentiamo così protagonisti di questa vita, a volte addirittura della vita degli altri, che arriviamo a pretendere sempre i riflettori puntati verso di noi. Il nostro ascolto risulta essere solo l’attesa per una formulazione efficace, ovverosia ci riduciamo ad ascoltare per rispondere e non per il solo piacere, oltre che all’utilità, di ascoltare. Non so se a voi sia mai capitato di avere un sincero e sentito dialogo con una persona, composto di silenzi, attimi di riflessione e di accordi e concessioni, quasi da ricondurci alla struttura del dialogo tra i vari interlocutori di Platone attraverso la figura parlante del maestro Socrate. Anche in questo caso arriviamo a meravigliarci di quanto risulti essere differente un dialogo del genere rispetto alle solite conversazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno, e tutto ciò solo per il fatto che parliamo veramente con un ristretto numero di persone, quasi da poterle contare sulle dita di una mano. Per la maggior parte del tempo, invece, ci abbandoniamo ad un sistema malato, fasullo se contiamo le necessità di una persona. Tutta quella chiacchiera che continua a circondarvi, secondo dopo secondo, è il motivo principale che ci porta a sentirci soli, incompresi e muti rispetto al mondo. Arriviamo all’incapacità di comunicare davvero noi stessi, bensì solo all’emissione di suoni, un freddo e disinteressato linguaggio che linguaggio non è più. Da noi può librarsi solo un timido e silenzioso grido, quell’inconscia richiesta di essere salvati e che da molte, troppe persone verrà ignorata, finché non incontreremo il nostro miracolo, e potremmo essere noi stessi come un’altra persona che, anch’ella come noi non poteva salvarsi da sola.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

Sono forse io il custode di mio fratello? – Intervista ad una assistente sociale

Secondo i dati della UN Refugee Agency (UNHCR), dal 1 gennaio 2016 ad oggi, sono sbarcate 230.226 persone tra Grecia ed Italia. 2.890 sono coloro che hanno perso la vita nell’attraversamento del Mar Mediterraneo1.
Uomini e donne che hanno deciso di rischiare la loro vita e quel che è peggio, quella dei loro figli, in cerca di un po’ di pace, di dignità. Famiglie che si accollano debiti inimmaginabili per permettere ai propri cari di tentare di raggiungere un luogo della terra non dilaniato da guerre o sopraffatto da terrore e violenze continue e di ogni sorta.
Chi sono questi migranti? Cosa vivono e sopportano nel cercare di raggiungere i paesi del Mediterraneo?
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza e di verità abbiamo incontrato Cristina, 26 anni, lavora come assistente sociale in un centro di accoglienza nella provincia di Treviso. Lei, ogni giorno, opera a diretto contatto con decine, anzi centinaia, di persone che, per i motivi più disparati, hanno deciso che rischiare la morte per sé e per i propri cari, probabilmente, non può essere peggiore di quello che subiscono nei loro paesi o delle condizioni in cui sono costretti a vivere nelle loro città, case, famiglie.

Nel Centro di accoglienza dove lavori di che sesso e nazionalità sono i profughi?

La maggior parte dei richiedenti asilo sono uomini, tra i 20 e i 30 anni. Ci sono anche donne, ma in numero minore. Alcune donne spesso sono accompagnate dai mariti, altre, giovanissime, arrivano sole. Ancora meno, ma comunque presenti, sono i bambini che spesso nascono durante il viaggio o giungono nei centri di accoglienza da piccolissimi.
Nel centro dove lavoro la maggior parte delle persone proviene dall’Africa Sub Sahariana, principalmente Nigeria, Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Mali… Ci sono anche persone originarie dell’Afghanistan, Pakistan e Bangladesh.

Come sono approdati in Italia, quanto dura e quanto costa in media un viaggio per raggiungere il nostro Paese?

Non c’è una regola precisa per la durata e il costo del viaggio. In base ai paesi di provenienza è possibile individuare due tipologie di “viaggio”. Per le persone provenienti dall’Africa subsahariana il primo pezzo del tragitto è differente in base alla città di partenza, però, ad un certo punto del viaggio tutti convergono in Libia e raggiungono l’Italia via mare.
Le persone provenienti da Pakistan, Afghanistan e Bangladesh viaggiano via terra; le tappe obbligate sono Turchia e Grecia, poi il tragitto può diversificarsi, raggiungono il nostro Paese passando per Ungheria e Austria.
Per quanto riguarda i tempi vi sono molte differenze in base al progetto migratorio di ogni persona, variano da 1 mese a 4-5 anni. Relativamente alla durata del viaggio influiscono, oltre che il progetto di ognuno, variabili quali il denaro, i trafficanti, la situazione libica…
Anche per il costo non c’è un “prezzo fisso”, ad esempio si può pagare il viaggio in partenza, oppure tappa per tappa trovando dei lavori occasionali lungo la strada. Dalle storie ascoltate in questi mesi in linea di massima il viaggio è molto costoso, basti pensare che una famiglia si indebita per mandare uno solo dei figli alla ricerca di una vita migliore.

Probabilmente sono tutte persone consapevoli dell’alta possibilità di perdere la vita durante il viaggio, perché decidono comunque di rischiare? Quali storie ci sono dietro ad una tale decisione?

Ogni persona ha una storia, una motivazione e un progetto migratorio diversi. Anche persone provenienti dallo stesso Paese o dalla stessa città scappano per motivi diversi. Il fattore determinante non sono solo le guerre, le violenze che vivono e sopportano, non sono solo il frutto di lotte armate; possono esserci motivazioni familiari, capita spesso che i ragazzi non siano accettati dalla famiglia di origine o dalla comunità per aver scelto una religione diversa, per l’orientamento sessuale o per altre scelte contrastanti con la realtà in cui vivono ed essere vittime di continue ed estenuanti vessazioni. Altri magari vengono da zone di continui scontri tra fazioni politiche o parti religiose, altri ancora cercano la libertà. Spesso la loro idea iniziale non è quella di raggiungere l’Italia però durante il percorso è facile finire nelle mani dei trafficanti e il loro viaggio continua secondo rotte non frutto di proprie scelte, ma obbligate.

Quanto è difficile ascoltare questi racconti di grande sofferenza? Ad un certo punto ci si può “abituare”?

Ci si può abituare a sentire nominare i diversi Paesi attraversati, nell’ordine di percorrenza; è bello scoprire che ad un certo punto della strada qualcuno di loro trova una “persona buona” che li aiuta a proseguire senza voler nulla in cambio… però i vissuti che li portano a fuggire, ciò che sono costretti a vivere/subire durante il viaggio è purtroppo nuovo ogni volta e quando a raccontartelo sono una ragazza o un ragazzo, magari della tua stessa età che cercano di salvare la loro vita e se possibile anche un po’ di dignità, come si può parlare di abitudine…

La stampa riporta spesso lamentele dei richiedenti asilo relativamente alle strutture in cui sono accolti, al cibo, mancanza di televisione, ecc. Sembra impossibile che dopo tutto quello che hanno passato siano scontenti di quello che ricevono.

Appena sento i ragazzi lamentarsi anche a me viene da pensare e a volte glielo faccio notare che con tutto quello che hanno passato i loro problemi dovrebbero essere altri e sarebbe il caso che si lamentassero per altro. Però, se ci penso, io e noi tutti ci lamentiamo quotidianamente per molto meno, per il traffico, per il cellulare scarico e per mille altri futili motivi.
Quindi, credo che queste lamentele che comunque a volte sono anche veritiere, possano essere lette in due modi. Penso che se una persona con il loro vissuto si sta lamentando di una cosa (sia anche superflua per me in questo momento) significa che anche per soli cinque secondi ha pensato ad altro rispetto a ciò che magari ha passato in Libia o in Afghanistan… e quanti di noi riuscirebbero a farlo dopo aver subito anche solo la metà di ciò che è toccato loro?
Poi, ritengo che sia doveroso restituire un po’ della dignità perduta con una buona e attenta accoglienza (sicuramente non fatta solo di buon cibo e televisore in camera).

Cos’è il tanto discusso pocket money erogato giornalmente ai richiedenti asilo e come funziona?

Il “costo” giornaliero per l’accoglienza di un richiedente asilo è di 35 euro, denaro necessario per far fronte alle spese per il vitto, l’alloggio, l’affitto dello stabile e lo stipendio delle persone che ci lavorano. Il pocket money, invece, è la parte di questi 35 euro (solitamente corrisponde a 2,50 euro) che viene erogata direttamente alla persona che vive nel centro di accoglienza.

Molto spesso i nostri connazionali che versano in stato di indigenza riferiscono e lamentano di essere trattati dallo Stato peggio dei profughi…

Probabilmente hanno ragione, ma lo Stato continua a fare per loro ciò che faceva anni fa, prima di questa emergenza. Credo che il sistema dei servizi andrebbe ripensato in base alle nuove esigenze della popolazione indipendentemente da ciò che lo Stato fa o meno per i richiedenti asilo.

Se facciamo una passeggiata nelle nostre città, spesso incontriamo migranti con cellulari ultimo modello ecc…

Non sempre sono persone che scappano da povertà o miseria, ci sono tanti giovani laureati, di buona famiglia e con un lavoro che però sono costretti a fuggire dai loro paesi d’origine per motivi politici, di razza, religiosi… e quindi il cellulare per loro non è un bene di lusso. Poi, ci sono anche persone che fuggono dai loro Paesi per motivi economici, di estrema povertà: loro non arrivano con un cellulare, però è tra le prime cose che acquistano in quanto è l’unica modalità per mettersi in contatto con la famiglia o gli amici. Anche solo per dire loro dove si trovano e che sono vivi.

 

L’ultima domanda non la rivolgo a Cristina ma la cito dal libro Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda: la storia vera del viaggio di Enaiatollah Akbari, un bambino afghano di dieci anni la cui madre, per proteggerlo dai talebani che perseguitano la famiglia e minacciano di ucciderlo, decide di farlo fuggire dal suo Paese.
Lo scrittore, intervistando il giovane, si rivolge a lui chiedendo: «Come si fa a cambiare vita così, Enaiat?
Una mattina, un saluto.
Lo si fa e basta, Fabio. Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
È così. La speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura per sempre»2.

Silvia Pennisi

NOTE:
1. www.data.unhcr.org
2. Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini e Castoldi, Milano 2013, pp. 72-73.

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L’amore. Frankl, oltre Freud e Adler

«Amare è un’angusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro» M. Rilke.

Se la psicoanalisi si è preoccupata di studiare l’istintività, l’analisi esistenziale frankliana ripone la propria attenzione sulla ricerca di significato della vita. Ciò che attraeva Viktor Frankl e che continua ad interessare i suoi seguaci è propriamente il senso dell’esistenza, l’orientamento dell’uomo verso il significato. La massima esistenziale del senso viene proposta da Frankl attraverso la tesi del filosofo e teologo Hans Urs von Balthasar, il quale afferma che «il senso dell’essere sta nell’amore»1. Commenta Frankl: «Affermare fin dall’inizio che l’amore costituisce il senso dell’essere implica che “amore” vuol dire sempre “amore verso un tu”. Posso amare soltanto qualcosa di concreto, mai qualcosa di astratto e, quindi, non un valore come tale, in se stesso»2.

L’amore vero, rivolgendosi alla concretezza di una persona, non riguarda un’attenzione generica all’altro, al suo carattere psicofisico, alle sue facoltà, alla sua superficie. Esso ha come obiettivo scorgere la persona spirituale presente nell’altro. Perché «solo alla persona spirituale si dice tu»3 e l’amore chiama alla relazione con un tu. L’amore, pertanto, o è un rapporto fra un Io e un Tu, intesi come unità indivisibile di corpo, mente e spirito, oppure non è vero amore.

La psicoanalisi freudiana e la psicologia individuale adleriana, diversamente dall’analisi esistenziale, non prendono in considerazione la dimensione ontologica e spirituale della persona. Esse si soffermano sulla sola dimensione istintuale dell’essere (lo stesso Freud, scrivendo all’amico Binswanger, ammette di essersi dedicato solamente “al piano terra” dell’edificio uomo) che non viene integrata con le altre. Per questo risolvono l’amore o partendo dall’Es, dagli istinti, oppure partendo dal complesso di inferiorità sociale. In questo modo però viene meno l’essenza stessa dell’amore. Freud e Adler non parlano d’amore, bensì di un surrogato di esso, legato unicamente alla datità psicofisica o a quella sociale. «Sono ben note – scrive Frankl – le modalità carenti dell’amore: la libido ed il sentimento di inferiorità; questo è ciò che resta dell’amore, ciò che esso diviene nelle loro mani: da una parte pura sessualità, l’istintualità sessuale della persona, e dall’altra sola società, puro rapporto sociale»4. La volontà di piacere e di potenza, sono così in aperta opposizione con la volontà di amare. Se il valore ontologico sta nell’amore e questo viene deviato verso altre mete, si finisce per far degenerare la volontà di significato, appunto perché si smarrisce il senso dell’essere per eccellenza. Proprio per questo il filosofo viennese afferma: «Il potere cerca il valore d’uso di una cosa, mentre l’amore preserva la dignità della persona. Il potere lascia che si diventi egoisti, interessati, mentre l’amore rende attenti al valore»5.

Il nostro tempo sembra aver smarrito il significato profondo dell’amore. Le relazioni affettive non vengono vissute in pienezza, bensì vengono consumate fugacemente perché mosse solamente dal gioco del godimento immediato. La mercificazione dei rapporti comporta legami fragili e personalità altrettanto deboli. Infatti, l’atteggiamento puramente sessuale ha come fine il fisico del partner e in questo aspetto rimane imprigionato. Ugualmente l’atteggiamento erotico è finalizzato all’aspetto psichico, ma anche quest’ultimo non permette di conoscere l’intimità dell’altra persona. Solo chi assume l’atteggiamento dell’amore vero può incontrare l’altro, nella sua intimità pluridimensionale. In proposito Frankl si esprime così:

«L’amore (nell’accezione più stretta della parola) è la forma più elevata dell’erotismo (nell’accezione più estensiva del termine), in quanto offre la possibilità di penetrare il più profondamente e completamente possibile nella struttura personale di un Tu, entrando in una relazione squisitamente spirituale. Il rapporto immediato con lo spirito di un altro rappresenta la più completa forma di partnership. Colui che ama in tal modo non è più eccitato nel proprio fisico o scosso nella propria emotività: è commosso nel profondo dello spirito, toccato dall’umanità di un altro. L’amore è l’essere rivolti alla persona spirituale dell’amato, con la sua irripetibilità e singolarità»6.

Frankl sostiene che l’essere umano è animato dalla volontà di dare un senso alla propria vita e dal desiderio della massima pienezza esistenziale. La scelta d’amore è una delle mete che maggiormente permette di inondare di senso la propria esistenza, proprio perché integrando i diversi piani dell’essere (corpo, mente e spirito) può condurre alla completezza. Nell’epoca ipermoderna, l’uomo fatica a strappare un senso alla propria esistenza, talvolta sembra averlo smarrito e cerca di riempire il vuoto interiore abbandonandosi al soddisfacimento delle proprie pulsioni. Questo accade in particolare nei rapporti che profumano poco d’amore e molto di istintività narcisistica. Ecco che l’uomo e la donna si fanno guidare dal desiderio di godimento laddove:

«la volontà di significato rimane inappagata. Vale a dire che la volontà al piacere fa la sua apparizione quando l’individuo rimane frustrato nella sua volontà di significato; è allora in genere che egli comincia a essere sottoposto al principio del piacere secondo la psicoanalisi. La libido sessuale cresce rigogliosamente soltanto nel vuoto esistenziale!»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Homo patiens, tr. it. Di E. Fizzzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 47.
2. Ivi, p. 47.
3. Ivi, p. 48.
4. Ivi, p. 49.
5. Ivi, p. 50.
6. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it di E. Fizzotti, Brescia, Morcelliana 20056, p. 161.
7. V. E. Frankl, Come ridare senso alla vita,  tr. it. di G. Garbelli e E. Schreil, Milano, Paoline 20122, p. 114.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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“Una giornata particolare”

Una bellissima regia di un grande maestro del cinema italiano, Ettore Scola, da poco scomparso; una trama profonda e vera, spoglia di retoriche e ipocrisie. Una Giornata Particolare si svolge nell’arco di poche ore, è il 6 maggio 1938, giorno della visita di Adolf Hitler a Roma. La città è in fermento e riempie le strade per l’arrivo del dittatore tedesco. In un comprensorio di case popolari Antonietta (Sophia Loren), madre di sei figli, rimane sola in casa dopo aver salutato la famiglia pronta per la parata. Nel palazzo quasi deserto incontra Gabriele (Marcello Mastroianni), suo vicino di casa. L’incontro tra i due, seppur della durata di una giornata, sarà profondo, smuoverà le coscienze afflitte e sole di entrambi.

In questo film ci si trova immersi in un universo molto piccolo, muovendosi tra le scale, gli appartamenti e la terrazza di uno dei più classici e comuni condomini italiani; eppure Scola riesce a svelare e a trasmettere la complessità del momento storico, portandola allo spettatore tramite lo sguardo triste e rassegnato dei protagonisti. La fotografia color seppia avvolge la scena in modo ovattato, caricandola di attesa e portandola in un contesto che sembra fuori dal tempo, come se l’incontro tra Antonietta e Gabriele rappresentasse una timida parentesi. Ai dialoghi tra i due, che si fanno di volta in volta sempre più teneri e intimi, si oppone la vera radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini, che irrompe nella storia, sottolineando ancor di più un senso di oppressione.

Mastroianni e la Loren sono magistrali; ancora una volta recitano in coppia ma la loro bravura lascia sempre sorpresi, come se mostrassero qualcosa di nuovo in ogni singolo lavoro. Sono perfetti nell’incarnare la solitudine e l’inadeguatezza dei due protagonisti. Vivono una discriminazione diversa ma che li avvicina. Il loro sguardo, inizialmente inconciliabile, arriva per fondersi in uno solo. Sono le personificazioni delle voci che il regime soffoca, quella della donna discriminata, relegata a guardiano del focolare, vittima incosciente. E la seconda voce, quella dell’intellettuale impotente seppur consapevole, timido, visto come diverso e pericoloso.
Questi percorsi, così differenti tra loro, si intrecciano, arrivando alla fine della giornata a coincidere; c’è un solo punto di vista, un’equivalenza di solitudine che lega i due in un abbraccio di coscienze sofferenti.

Una Giornata Particolare si dimostra un film straordinariamente acuto nel denunciare gli aspetti più subdoli e ipocriti del fascismo; qui è visto non solo come aberrante ideologia politica, ma come progetto di asservimento socio-culturale. Una macchina bieca che annulla le diversità e appiattisce gli spiriti. Antonietta e Gabriele sono lo specchio e l’esempio delle tante discriminazioni del regime, persone comuni, normali, costrette ad abbandonare le proprie idee e il proprio io.

Lorenzo Gardellin

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La bellezza salverà il mondo

Oggi il mondo è piccolo davvero: immagino uomini francesi o spagnoli nel Medioevo osservare la distesa apparentemente infinita dell’Atlantico e non avere la più pallida idea di che cosa potesse esserci oltre, chiedersi quanto oltre avrebbero potuto trovare qualcosa. Se c’è una cosa per cui voglio davvero benedire tutto il nostro processo tecnologico del XX-XXI secolo è proprio questo effetto restringente dei confini, questa vicinanza così possibile con gli altri e con le cose.

Fosse per me visiterei ogni angolo della nostra piccola e meravigliosa biglia azzurra. I giornali, i libri, i mass media e i social network mi fanno capire che non c’è limite alla bellezza che l’ingegno divino-naturale e l’ingegno umano (mosso da buone intenzioni) è stato capace di creare; adesso ho solo la voglia di toccare con mano tutta questa bellezza, fisso il planisfero nella mia lavagna di sughero con un misto di frustrazione e determinazione. Condivido il folle sogno romantico di Dostoevskij e credo che la bellezza salverà il mondo, intendendo per “mondo” tutti noi cittadini, persone, entità pensanti e dotate di sentimenti ma forse anche la Terra stessa. O almeno, sono certa che potrebbe farlo.

Sono seduta sul sedile di un tram di Amsterdam, mi lascio trasportare come dalla corrente nell’antico letto artificiale della città, scivolo fluida tra la folla della sera, in mezzo alle luci di Natale, sopra ai canali silenziosi. Penso. La gente attorno a me mi fa pensare alla routine, ad un tram preso un milione di volte, ad un lavoro appena concluso, ad una casa in cui tornare, dei famigliari o amici con cui stare. Proprio come il treno che prendo infinite volte per tornare a casa da Venezia dopo una giornata di università, solo che il panorama al di là del vetro è diverso e per me tutt’altro che ordinario, è pieno di possibilità. Scendo a Muntplein e mi immergo nella Kalverstraat dei negozi, sotto festoni di luci natalizie: la gente compra i regali perché dopodomani sarà san Nicola, ovvero l’originale Santa Claus; due ragazzi mi fermano, mi chiedono informazioni in inglese: pensano che io viva lì.

Non sarò mai grata abbastanza ai miei genitori perché mi danno la possibilità di vivere tutto questo. E’ vero che la conoscenza è il vero antidoto per la maggior parte degli orrori del mondo, credo che sia stato proprio mio padre il primo ad insegnarmelo. Lui è tutt’altro che un professorone classicista, ma la sua citazione preferita è sempre stata dalla Commedia, il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse:

Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza.

Mentre lo diceva a mio fratello (che è più grande di me) io piccolina lo ascoltavo e non capivo il senso. C’è stato un momento mentre ero alle medie in cui una lampadina si è accesa: leggi, scopri, vedi, desideri e (se puoi) parti, perché è quello l’unico modo per salvarti dall’oscurità degli animi umani, dalla cecità, dallo schifo del mondo.

Sono felice perché ho scoperto che cosa si prova a mangiare dei caldi noodles take away seduta a terra sul ciglio di un canale olandese, con il vento gelido che punge la faccia e l’occhio digitale del turista che passando in barca ti nota e pensa “Ah! Due allegre olandesi che mangiano in riva al canale”; so cosa vuole dire trascorrere una serata di un anonimo giorno feriale in un teatro del West End e dopo fare uno spuntino con delle patatine del McDonalds, mescolata alla folla che si riversa nelle strade; a Trapani ho assaggiato la sensazione di andare in spiaggia alle cinque del pomeriggio dopo un acquazzone estivo, solo per osservare un diverso colore del mare, per distendersi sulla sabbia fredda e leggere accerchiata dall’aria salmastra e piacevolmente fresca. Nella città che non dorme mai ho scoperto l’abitudinario alzarsi presto al mattino, fuggire con quel bruco di latta fuori dalla periferia, sbucare fuori dalla bocca infuocata ed entrare in un grattacielo per andare a scuola. Nella Parigi oggi ferita solo tre anni fa ho passato un afoso pomeriggio distesa al Parc Citroen, senza pensieri, a sonnecchiare ed ascoltare musica in mezzo a famiglie, coppie di ragazzi, bambine che si sfidavano a fare la ruota.

Però ce n’è anche un’altra di “classica” tra le citazioni preferite di mio padre: è quel momento nei Promessi Sposi, quando Renzo e Lucia osservano il loro lago di Como, con la sua corona di monti, che si stanno lasciando alle spalle. Recentemente anche questo passo mi sembra perfetto: perché è giusto conoscere il mondo, ma non bisogna dimenticare la propria casa. E’ bello partire quando sai che puoi sempre tornare.

Dunque sono fortunata perché so anche cosa vuol dire vivere in un paese infossato tra le colline senesi, uno di quelli dove non vi si raccolgono più di duecento vite, dove si trova quella pace che può dare il canto degli uccelli, il rumore del vento tra le fronde dei cipressi, ma si prova anche la difficoltà di raggiungere il paese più vicino (che in realtà è lontano) senza possedere un’auto; e al contrario, so cosa significa vivere nel formicaio milanese, 1.300.000 residenti e altri 700.000 pendolari giornalieri, tutti indaffarati, tutti presi, un cuore che pulsa e che ti fa sentire vivo ma dove fatichi a trovare un po’ di silenzio che sia vero silenzio, una solitudine che sia vera solitudine. Ho sperimentato anche l’intermedio: una cittadina veneta di provincia, qualche migliaio di abitanti in una campagna che non è vera campagna, un punto in una rete di strade, cittadine, persone. Non si può amare tutto quanto, ma lo si può apprezzare. Questa è la bellezza del mondo, conoscerla (conoscerci) potrebbe salvarci. Prendere in prestito momenti ordinari delle vite degli altri ci fa capire quanto siamo diversi ma soprattutto quanto infondo siamo armoniosamente simili. E poi certo, la bellezza è anche un’alba nel deserto, la nona sinfonia di Beethoven, la basilica di San Pietro, la vista da Machu Picchu, un dipinto di Renoir, un abito di Elie Saab, veder “cadere” una stella di san Lorenzo…

Chi cerca di possedere un fiore, vede la sua bellezza appassire. Ma chi lo ammira in un campo, lo porterà sempre con sé. Perché il fiore si fonderà con il pomeriggio, con il tramonto, con l’odore di terra bagnata e con le nuvole all’orizzonte.¹

Cercare la bellezza, trovare la bellezza e vivere sulla pelle l’emozione che essa porta con sé, ci fa capire che non vorremmo mai vederla distrutta. L’importante del viaggio, come di ogni esperienza, è il tenersi qualcosa da riportare indietro, a casa. Imparare qualcosa di bello che viene da fuori e portarselo dentro per arricchire noi stessi.

Giorgia Favero

[L’immagine è tratta da Google e ritrae l’artista Yves Klein]

Note:

[1] Tratto da Paulo Coelho, “Brida”, Bompiani 1990