Il mondo del fitness: tra estetica e trasformazione

“Ho odiato ogni minuto di allenamento, poi ho detto: Soffri ora e vivi il resto della vita da campione”. Testimoniava così Muhammad Alì nel 1964, uno dei più apprezzati pugili statunitensi della storia. È proprio da questa frase che intendo partire per analizzare una delle più diffuse pratiche di modifica, addomesticamento e trasformazione del corpo: il fitness.

La ginnastica è stata da sempre espressione delle finalità biopolitiche dei governi statali per controllare e ammansire i corpi, con il loro culmine durante i totalitarismi. Le attività sportive, per loro stessa logica interna, mirano a dotare il soggetto di particolari competenze fisiche, concentrando l’attenzione sul gesto atletico e sulla sua esecuzione, sulla prestazione eccezionale ai fini della competizione. In queste pratiche il miglioramento del corpo è subordinato alla qualità dell’esercizio sportivo. Il fitness, invece, si differenzia radicalmente dall’atletismo poiché lo stile e la prestazione hanno un valore strumentale ai fini del rimodellamento del corpo e della sua trasformazione. Oggi le pratiche fisico-ricreative risultano de-politicizzate, poiché non sono più pratiche statali volte a uniformare i corpi in vista di obiettivi politici. Le pratiche del fitness, piuttosto, si edificano sui desideri e sui bisogni dei singoli che scelgono di frequentare la palestra.

Le palestre di oggi si presentano sempre più come “isole urbane”, spazi separati e attentamente organizzati per rendere il tempo trascorso al loro interno come “tempo per se stessi”. In questi luoghi ci si estranea dal mondo esterno e si entra in un tessuto relazionale e sociale a sé stante. L’esercizio fisico è l’attività centrale, attorno al quale gravitano attività di rilassamento e momenti di socialità e confronto tra i clienti. Oggi, infatti, la palestra per il fitness è pensata non solo per far bene al corpo, ma anche per essere uno spazio nel quale il soggetto può esprimersi nel modo che gli è più proprio, può svagarsi e rigenerarsi.

Per comprendere la nascita e l’esplosione del fitness dobbiamo guardare agli Stati Uniti degli anni Settanta, in cui si assiste alla nascita di un tipo di ginnastica ricreativa, l’aerobica, improntata a valori sociali nuovi. Vengono a crearsi spazi collettivi nei quali il corpo si plasma secondo i canoni dettati dalla cultura pop del momento: una silhouette sottile, un aspetto fisico slanciato e armonico. Le motivazioni personali diventano l’unico obiettivo. Contemporaneamente cresce l’importanza del fitness, che si configura come attività volta a esprimere i desideri e le volontà del soggetto. Il fitness non fa distinzioni di genere, non detta regole e ben si sposa con la nascente tendenza alla commercializzazione: è l’individuo a scegliere di aver bisogno o meno della palestra, esprimendo una domanda, alla quale il mondo del fitness risponde.

Oggi le palestre si sono lasciate alle spalle le ambizioni atletiche prima e di adeguamento estetico poi delle prime fan dell’aerobica. Quella che sembra esponenzialmente aumentare è l’ansia di conformazione, la ricerca dell’approvazione altrui, la competizione all’interno del gruppo di pari per l’allineamento ai suoi standard. Il successo della pratica del fitness va inquadrato nel crescente consumo di beni e servizi legati al miglioramento e alla trasformazione del corpo, derivati da un diverso rapporto con la corporeità, fondato sulla disinibizione e sull’esteriorità.

Tuttavia, le interpretazioni a cui si presta il fenomeno del fitness non sono univoche.

Per alcuni si configura come pratica per modificare il corpo e produrre autonomamente una propria identità; per altri invece è il trionfo del narcisismo consumistico. A emergere sono la smania di adeguarsi a canoni estetici spesso irraggiungibili e impersonali e l’autocelebrazione della propria forma fisica. Mettere il corpo al centro della propria identità significa sottolineare la presenza di un residuo individuale sul quale poter esercitare potere decisionale autonomo. La stessa manipolazione del corpo può essere dettata dalla volontà di riconoscimento del singolo all’interno di un microgruppo (ad esempio quello dei culturisti), oppure dal bisogno di visibilità dell’individuo nel più ampio tessuto sociale, per evitare il rischio della solitudine.

L’ossimoro funambolico nel quale il singolo è chiamato a barcamenarsi oggi è quello dell’esaltazione prometeica individualista e della responsabilità di adeguarsi ai canoni estetici della società per non subire l’isolamento. La corda è tesa e l’equilibrio può mancare da un momento all’altro.

 

Maria Cristina Mennuti

Maria Cristina Mennuti, 21 anni, di Corato (BA), dove vivo attualmente.
Studio Filosofia all’Università di Bari e mi nutro di curiosità. Sono alla costante ricerca di un dialogo tra la filosofia e gli altri linguaggi, per questo mi piace esplorare strade disciplinari poco battute.
Con un libro sotto il braccio e uno zaino in spalla guardo al futuro. Nel presente scrivo per il magazine online “OublietteMagazine” e mi impegno per il territorio in cui vivo, convinta che la bellezza salverà il mondo.

 

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Quando l’arte si fa esperienza: la percezione come strumento d’indagine

Qualche giorno fa l’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte ha ospitato il collettivo [I] Experience, con la sua performance artistica a 360 gradi. Un progetto complesso e ben strutturato che consiste nell’ascolto attraverso cuffie in modalità binaurale di una sinfonia rock, eseguita live da quattro musicisti e una cantante. Nelle pause tra un brano e l’altro, immerso nel silenzio ovattato delle cuffie, lo spettatore ha la possibilità di seguire sul proprio smartphone o tablet un testo che scorre. La musica è inoltre accompagnata da una visual dai toni psichedelici ed evocativi.

Un’esperienza completa, che invita all’osservazione, all’ascolto e alla rielaborazione degli input narrativi offerti dalla storia che si svolge sullo schermo. Il ritmo della performance è quindi dettato dal respiro della protagonista del racconto: una ragazza con problemi di dipendenza, solitudine e paranoia.the-experience-2_tra_la-chiave-di-sophia

Lo spettacolo ci offre, dunque, uno sguardo sul fenomeno sociale dei giovani hikikomori, particolarmente grave in Giappone, che consiste nella progressiva alienazione volontaria dalla realtà e spesso si conclude con suicidi collettivi.

Emerge un’intenzione di indagine che definirei quasi scientifica e sociologica. Le modalità proprie della fruizione ci trasportano nella dimensione emozionale di un hikikomori: l’interiorità di cui la musica si fa espressione, non coincide infatti con gli input esterni.

Un concerto che dovrebbe essere vissuto collettivamente diventa così una sinfonia intima e privata. Ci troviamo a vivere un’esperienza in solitudine, anche se all’interno di uno spazio pubblico e seduti tra la moltitudine: al di fuori di noi c’è solo silenzio e persone riparate dalle cuffie.

Parole quindi che riflettono la musica, che a sua volta restituisce le emozioni del racconto, o almeno quelle che ognuno può elaborare secondo la sua personale lettura. La propria emotività si trasforma in uno scudo, un rifugio nel quale è dolce ripararsi e ad un certo punto conveniente.

Un circolo vizioso e ipnotico, uno stato che tra l’altro si riflette nelle proiezioni psichedeliche ed oniriche.the-experience-1_tra_la-chiave-di-sophia

L’esperienza artistica forse non può dare delle risposte certe, perché è soggettiva, ma d’altra parte aiuta ad elaborare domande. Chiedersi perché un ragazzo arrivi a diventare hikikomori non ci permette però di adottare la giusta prospettiva sul fenomeno. Le ragioni di questa patologia sono così profondamente radicate nel subconscio che risultano difficili da comprendere; inoltre questo tipo di sofferenza ha una natura totalmente personale ed è impossibile da condividere. Non a caso l’unica condivisione accettata dagli hikikomori è attraverso amicizie virtuali, scambi di parole mediate da una rigida tastiera e semmai addolcite con qualche emoticon.

Bisogna invece cambiare punto di vista e fermarsi a pensare come sia possibile percepire con i sensi strettamente canalizzati, o addirittura oscurati.

Credo sia questa la sfumatura più interessante sulla quale il progetto di [I] Experience ci porta a riflettere: d’altronde si tratta di partecipare ad un concerto ma ascoltando esclusivamente attraverso delle cuffie, che non permettono al suono esterno di entrare, e con lo sguardo concentrato su uno schermo, per cui le altre persone diventano invisibili.

La performance ci invita a sperimentare una sorta di isolamento percettivo, capace di creare universi fittizi, e, senza esprimere alcun giudizio, ad entrare in empatia con la protagonista. Per poi dimostrare, invece, che questa empatia per certi versi è illusoria, poiché ognuno è solo con se stesso. Emerge come il problema sia un’errata canalizzazione degli organi sensoriali: lo sguardo rivolto verso la propria interiorità resta così intrappolato in una paura da cui è difficile uscire e contro cui è impossibile opporsi.

Essenzialmente [I] Experience − che già nel logotipo del nome ci presenta una I (un io quindi) imprigionato tra parentesi − ci invita così a riappropriarci della nostra esperienza del mondo, di sentire al di fuori di noi, come reazione all’isolamento imposto durante il concerto.

Claudia Carbonari

La follia come origine e destino della ragione

Quale relazione esiste tra follia e ragione? A prima vista sembrerebbero due concetti opposti, immaginando la follia come uno stato in cui la ragione è andata perduta. In realtà c’è anche dell’altro.
Proprio questo “altro” hanno voluto indagare i relatori della serata Follia e ragione, organizzata dal festival Pensare il presente di Treviso in collaborazione con TRA – Treviso Ricerca Arte, mettendo in campo non solo la psichiatria (impersonata dal professor Gerardo Favaretto) ma anche la filosofia (rappresentata dal presidente della SFI di Treviso Damiano Cavallin), la teologia (a cui ha dato voce il professor Francesco Paparella) e l’arte (illustrata dalla performance de I didascalici e dall’artista Cristian Fogarolli).

I legami tra le due sono dunque vari e molteplici, poiché varie sono le forme in cui si esprimono l’una e l’altra. Origine e destinazione, arte e scienza, luce e tenebra – opposte e complementari. L’eccesso della ragione sfocia spesso nella follia – pensiamo anche solo allo stesso Nietzsche – poiché un eccessivo controllo è esso stesso una forma di squilibrio. Il dubitare dell’esistente introdotto da Cartesio e sostenuto dalla dottrina di Schopenhauer, sino al delirio paranoico che troviamo splendidamente rappresentato nel film The Truman Show del 1998, sono uno dei sensi di lettura di questo binomio: la follia come destino della ragione.

Vi è anche un’altra lettura, ovvero quella attuata per esempio dagli antichi greci, che vede associare allo spirito dionisiaco la produzione artistica, dunque alla dimensione più irrazionale dell’uomo: il gesto creativo quindi sfuggirebbe dalle briglie della ragione. Ma siamo proprio sicuri che il gesto artistico sia privo di studio e calcolo? Cristian Fogarolli, giovane artista trentino, dopo un lungo studio del materiale d’archivio di alcune ex istituzioni manicomiali italiane ha selezionato una serie di fotografie che rappresentano uomini e donne in esse ricoverati. Non è possibile indovinare che tipo di patologia essi avessero, né se si trattasse di persone realmente affette da psicopatologie oggi riconosciute. Non esiste spesso nella fotografia (come nella realtà) un confine netto ed evidente tra i cosiddetti “sani” ed i cosiddetti “malati”, poiché la maggior parte dei tratti che ci appartengono continuano ad accomunarci.

Sono in effetti la manifestazioni fenomenologiche e la loro ripetitività a consentire la diagnosi psichiatrica, mentre non esisterebbe un criterio strettamente biologico nel loro verificarsi. Lo psichiatra Gerardo Favaretto mette dunque in dubbio, come provocazione, l’esistenza stessa di una patologia psichiatrica, che è dimostrabile solo dalla realtà del dolore. Un dolore che, dagli anni Cinquanta, si è cominciato a curare ed arginare con discreto successo anche tramite la creatività e l’arte: una follia che cura una follia.

Il dolore però resta: non è sempre facile da cogliere e, proprio per assenza di verità biologiche, deve essere colto tramite l’empatia, intesa come la capacità di creare un’assenza all’interno del nostro sentire per poter percepire l’altro – uno spazio aperto nella nostra razionalità. La ragione avrebbe infatti anche dei limiti e la religione ne costituisce un esempio lampante: come ci spiega il professor Francesco Paparella, la ragione ci conduce solo alle soglie del mistero (quello divino), mentre è l’abbandono che ci porta con naturalezza verso una conoscenza nuova, affascinante, “divina”. E non sempre facile da cogliere, ma in definitiva impossibile da ignorare.

Ma infine vado errando fra luce e tenebra, senza sapere se è il crepuscolo o l’alba. Alzerò solo la mano di cenere a fingere di bere una tazza di vino, e dimenticato il tempo me ne andrò via da sola.
Ahimé, se è il crepuscolo la notte mi sommergerà; oppure sarò cancellata dal giorno, se adesso è l’alba.
Amico, è tempo.
Errerò nel buio verso il nulla.
[…]
Andarmene via da sola, senza te ma anche senza altre ombre nel buio. Da sola affonderò nel buio, quel mondo sarà interamente mio1.

Giorgia Favero

Articolo scritto in occasione dell’incontro Follia e ragione svoltosi venerdì 17 marzo ed organizzato dal festival di filosofia Pensare il presente, a Treviso dal 7 al 30 marzo 2017.

NOTE:
1. Lu Xun, Il commiato dell’ombra, in Erbe selvatiche, 1927

[Immagine opera di Christian Fogarolli]

Il premio dubito

Mi è capitato di conoscere un poeta ed un premio. D’entrambi vale la pena parlare.

Del Premio Dubito e di Alberto D. tanto si è già detto ed è stato fatto bene, quindi vi lascio semplicemente la mia storia, di come ho conosciuto Alberto Dubito poeta e un po’ delle mie impressioni. Questo è quanto mi sento di poter fare per far conoscere un pelo di più la faccenda. voi in cambio provate a far crescere i vostri dubbi ed a cercare qualche risposta. (a fine pagina i link seri dove informarsi e approfondire!)

Perché parlare del Premio?

Perché nei paraggi non ci sono storie di periferie così centrali come questa.

Info basi

cos’è il Premio Dubito? è un premio di poesia in musica, l’unico in Italia, arrivato alla sua terza edizione.

nato per ricordare e onorare la memoria di Alberto “Dubito” Feltrin, morto suicida a 21 anni.

il Premio è nato su iniziativa della famiglia Feltrin, l’edizione 2015 si è tenuta al CSO Django.

La mia breve storia:

vi ricordate Alice di qualche articolo fa? la poetessa diciasettenne? insomma sta mia amica va matta per Dubito e per la sua poesia. Me ne parla, mi fa leggere qualcosa, ma non mi prende troppo.

un giorno passo al Django e vedo uno striscione “disturbati dalla cuiete” (duo rap poetico del quale faceva parte Dubito), le mando la foto su Whatsapp e lei mi fa:

-dove sei?

e io:

-in un centro sociale a Treviso.

e lei:

-e cosa ci fai là? (probabilmente stono con il contesto)

e io:

-bevo una birra, anzi due.

e lei:

-ah il discorso fila (probabilmente stono meno con la birra… mah, la visione altrui è sempre un mistero)

Allora chiedo info a una dentro al bar “Mandragola”, sapendo che è un mezzo boss del posto (i compagni sono tutti dello stesso “grado”? quanta ignoranza mi porto dentro) e mi spiega che a breve si terrà la terza edizione del Premio Dubito e chi era Alberto.

Allora riprendo il telefono e racconto dell’evento ad Alice.

Qualche giorno dopo ci troviamo lì.

Io nel frattempo con la scusa di farmi mandare del materiale per questo articolo finisce che esco con la tipa del Django. Leggo il materiale che dopo un po’ mi arriva. Ascolto dubito (Disturbati dalla cuiete c’è anche su spotify!!). discuto di poesia con varie ragazze. Penso alla poesia. Penso che sono indietro rispetto ad Alberto. Penso che è da un po’ che non progredisco. Leggo Nacci e scrivo questa:

non è garbato mettere parole in bocca

ad altri (o dita o tegole).

non è tardi fino al secondo prima

della scadenza. e tu mi dici:

il tetto è da rifare, il letto almeno

potevi rifarlo. Ma non abbiamo una casa

non ti conosco e ti vorrei tanto

mettere in bocca

delle paranoie

per sentirmi più sposato

meno spossato

meno primo

e conseguentemente

meno distaccato.

 

(la massa è nel mezzo

il primo e l’ultimo smezzano

un segreto, quando il lento

viene doppiato

il cerchio ricominciato

quando raramente, lentamente

non si corre solo per correre

ma esclusivamente per correre

e ci si dovrebbe fermare

per godersi l’altrui

affanno)

DA QUANTO HO VISTO, LETTO E ASCOLTATO IL PREMIO DUBITO è UNO DEI MIGLIORI ESEMPI DI PREMIO POETICO, E PIÙ IN GENERALE DI MANIFESTAZIONE CULTURALE PER QUALITÀ ED INNOVAZIONE DELLE OPERE PRESENTATE.

C’è poi chi lo snobba perché è organizzato dai “comunisti”. A me questo non importa, m’interessano di più le proposte nuove e le scoperte entusiasmanti.

Gianluca Cappellazzo

[Immagine tratta da Google immagini]

TUTTE LE INFO SUL PREMIO E MATERIALE SULLE PASSATE EDIZIONI: http://www.premiodubito.com/

CASA EDITRICE DI ALBERTO DUBITO: www.agenziax.it

DARGEN D’AMICO LEGGE DUBITO: https://www.youtube.com/watch?v=XBz-dIuZAUM

PERFORMANCE LIVE DI ALBERTO DUBITO:  https://www.youtube.com/watch?v=kwYLxBog_Qs

La società del ‘Vietato sbagliare’ (?)

Nell’era della performance, degli obiettivi, dei risultati e dell’ansia da prestazione viviamo in una società che ci richiede di essere sempre vincenti e che non lascia spazio agli errori, alle sviste e alle mancanze.

Proverbi come ‘sbagliando si impara’ sembrano ormai fuori moda, obsoleti; molto spesso viviamo la scuola, l’università, il lavoro, lo sport e la vita in generale imbottendoci di impegni con un alto grado di competizione, dove l’unica regola che sembra essere valida è quella del ‘vietato sbagliare’.

Così ci convinciamo che sbagliare non è umano, sbagliare non è ammissibile nella grande competizione della vita, sbagliare è per deboli, sbagliare è sinonimo di perdente e incapace. Costruiamo modelli di educazione fondati sulla reale necessità di non sbagliare e così proteggiamo i nostri figli dal grande reato dell’errore, rinchiudendoli in una gabbia protettiva.

Se a tutto ciò aggiungiamo un narcisismo dilagante e un super-io dominante che ha modificato la nostra stessa antropologia, la parola ‘errore’ sembra non essere più ammessa nel nostro vocabolario. Con molta fatica riusciamo ad ammettere a noi stessi di poter sbagliare e talvolta anche di poter fallire, sembra non esserci tempo per poter sbagliare, figuriamoci il tempo per poter metabolizzare l’errore e quindi rimediare. Così se da un parte è inammissibile commettere qualcosa di sbagliato, dall’altra parte risulta difficile anche perdonare l’errore.

Proviamo a pensare a tutte quelle volte che abbiamo affermato ‘Questo non te lo perdonerò mai, è un grave errore ciò che hai commesso’, proviamo a pensare a quante volte nella nostra vita siamo riusciti a perdonare un errore sia a noi stessi che agli altri, proviamo a pensare a tutte quelle situazioni in cui siamo riusciti a dire ‘ho sbagliato’, ammettendo a voi stessi e agli altri l’errore commesso; se nel primo caso il numero delle situazioni così vissute è alto, negli altri due casi il numero si riduce drasticamente.

Perché non siamo più capaci di ammettere e accettare di poter sbagliare? Perché vediamo l’errore come qualcosa di imperdonabile? Abbiamo paura forse di dimostrarci per quello che siamo? Di essere uomini e non automi? Perché non vediamo quanto di buono può esserci anche nell’errare?

L’errore è utile alla nostra vita, come tale va interpretato e rivalutato in funzione della nostra vita futura. Nietzsche riteneva l’errore una specie di terapia naturale dal delirio di onnipotenza, nel quale l’essere umano rischia di cadere tutte le volta che si sente invincibile. L’errore ci ricorda che non siamo ne macchine perfette ne dèi, ci ricorda quanto complessa sia la realtà e la vita, quanto queste non possano essere controllate in toto dalla tecnologia, dal controllo, dalla programmazione e dallo studio.

Sbagliare contiene in sé aspetti positivi anche nelle situazioni che ci appaiono le più critiche, dobbiamo solamente cogliere questi aspetti positivi, renderci conto che sbagliare ci consente di attivare risorse e capacità che altrimenti non verrebbero alla luce. Interpretare e riflettere sugli errori commessi ci aiuta a crescere e quindi a migliorare, ci permette di vedere fatti e situazioni da una prospettiva diversa che ci consentirà poi di modificare il nostro pensiero e il nostro comportamento. Sbagliare stimola in noi il pensiero critico e anche la nostra autonomia di giudizio; se ammettiamo a noi stessi la possibilità di poter sbagliare possiamo finalmente riuscire a perdonare a noi stessi ma anche agli altri l’errore compiuto.

“Concedersi la possibilità di sbagliare è una condizione essenziale per aprirsi totalmente al ventaglio della vita, la quale è complessa e va affrontata affidandosi anche al dubbio, all’erranza, all’incertezza”.

Massimo Donà

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini]