(A) cosa serve?

Nei Frammenti postumi1 di Nietzsche, tra i numerosissimi aforismi che vertono sui temi più disparati, è presente un testo in cui è possibile individuare quelli che ci sembrano essere gli elementi costitutivi del nichilismo: mancanza del fine, mancanza del perché e svalutazione dei valori. Volendo disporli secondo un ordine logico, potremmo enunciarli piuttosto così: 1) tutti i valori si svalutano, 2) manca il fine, 3) manca la risposta al perché.

Venendo meno il valore come entità portatrice di senso, vengono meno anche i fini delle nostre azioni. Iniziamo così a domandarci: «perché dovrei agire in questo modo?», ed è quando questa domanda manca di una risposta che la nostra quotidianità diventa piatta e insipida. Ma che cosa può muoverci all’azione, una volta che la giustizia, la bellezza, la generosità, la tradizione ecc. non sono più sentiti da noi come degni di essere perseguiti?

L’unico motivo che rimane è di ottenere qualche cosa in cambio: se infatti agire in virtù della bontà (nel senso più generale di questo termine) dell’azione non ha più senso, per portarci ad investire dell’energia nel mondo non resta che la certezza, o almeno la probabilità, che i nostri sforzi ci faranno ottenere in cambio qualche cosa di concreto. Si innesca così una dialettica del do ut des che pone l’utilità come unico fine dell’azione, fino a farla diventare un surrogato dei valori e a farle riempire il vuoto lasciato dalla morte [scomparsa] di questi. In questo modo, la domanda «perché dovrei agire in questo modo?» diventa «a cosa serve che io compia questa azione?», sostituendo una mera valutazione dei possibili vantaggi materiali alla ricerca di senso sottesa dalla prima domanda.

Questa maniera di pensare è molto radicata in noi, ed è un approccio alle cose che comporta parecchi problemi relativi al nostro modo di stare al mondo. Ci poniamo come centro dell’esistenza, la nostra attenzione è sempre rivolta verso di noi. Ciò produce senso di isolamento, frustrazione, stress: tutto è amplificato nella nostra testa, che lavora ripiegata su sé stessa, senza che niente possa apportare degli elementi di novità, mostrarci le cose sotto un’altra prospettiva, mitigare il travaglio delle nostre coscienze. Ma cosa possiamo fare? Esistono delle soluzioni? Magari dovremmo cercare un modo di rapportarci al mondo che rimetta al centro delle nostre vite l’importanza dell’attività in sé, e che non dia al risultato più spazio di quello che gli è dovuto. Potremmo per esempio chiederci non tanto a cosa serva agire in un certo modo, bensì cosa serva la nostra azione, cioè al servizio di che cosa essa si ponga, e di conseguenza al servizio di che cosa ci poniamo noi agendo in un certo modo, quale atteggiamento incarniamo. Le due espressioni sembrano simili, ma in realtà sono profondamente diverse.

Supponiamo di voler fare l’orto questa primavera. Se ci chiediamo a cosa serve fare l’orto, la risposta immediata è: ad avere verdure fresche e salutari. L’attenzione è rivolta al risultato materiale. Ma proviamo invece a chiederci: cosa serve fare l’orto? Cioè: l’attività di coltivare delle piante nel nostro giardino, a che cosa dà importanza? In questo caso le risposte sono molteplici e di più ampio respiro: coltivare l’orto serve un avvicinamento alla natura, ci mette in una relazione più intima con un aspetto del mondo che abitiamo.

La domanda «cosa serve?» non si interroga sul risultato, ma sul valore dell’azione stessa. Essa aspira a prendere parte a qualcosa di più grande. Incarna un atteggiamento diverso, che proietta verso il fuori e in questo modo scardina la dialettica dell’individualismo e schiude la coscienza ad un mondo di relazioni, di risonanze con le altre coscienze e con il mondo. Entriamo nella concretezza della vita uscendo dall’astrazione solipsista in cui ci eravamo posti. Chiedersi «cosa serve?» è forse anche un allenamento: aiuta ad allargare il proprio sguardo, a prendere in considerazione altri aspetti oltre alla propria individualità, cercando qualche cosa più grande di noi per cui valga la pena agire e a cui prendere parte.

Spesso sentiamo che i valori hanno perduto la loro forza, constatiamo che il fine delle nostre azioni non sempre è facile da individuare ed il senso delle cose sembra scivolarci tra le dita. Forse uno dei sentieri che possono aiutarci ad uscire dallo sconforto che a volte ci prende è capire che il senso non va cercato, ma va prodotto. Questo atteggiamento può aiutare ad aprirci alla rete infinita di relazioni di cui è costituito il mondo.

 

Pietro Bogo

 

Nato a Belluno nel 1994, Pietro Bogo ha conseguito una laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli studi di Trieste. Ha poi continuato i suoi studi presso l’Université d’Aix-Marseille, dove ha ottenuto nel 2019 una laurea magistrale discutendo una tesi sulla relazione tra la sostanza e l’attributo nel pensiero di Spinoza. Ora insegna lettere presso una scuola media di Belluno, continuando a coltivare la sua passione per la filosofia. Nel tempo libero pratica il judo a livello amatoriale ed ama dilettarsi in cucina.

 

NOTE:
1. Nietzsche, Frammenti postumi, 2, 126, 127

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Filosofia bambina

Mi sono ritrovata a lavorare in una scuola steineriana, quasi senza sapere come, o cosa fosse.
Catapultata in uno dei gioielli delle Fiandre, un paesino da cartolina, dove la gente è cortese anche quando non ha nessuna voglia di esserlo, il mio ruolo era quello di semplice assistente, e di non dare troppo a vedere di soffrire il freddo. Circondata da centinaia di bambini, intenta a schivare le biciclette e a incrementare le risate, un giorno mi venne assegnato un compito inaspettato: dati i miei studi in filosofia, mi chiesero di elaborare una lezione di filosofia greca per una classe di ragazzi di undici anni. Mentre la direttrice della scuola formulava la richiesta, nella mia mente emersero diverse certezze in tutta la loro naturalezza: anzitutto, non avrei mai saputo come realizzare qualcosa di simile; immediatamente dopo, sapevo che cosa avrei fatto.

Straniera ed estranea, oggetto di curiosità e diffidenza, sapevo che l’unico argomento possibile era proprio quello dell’altro non solo come diverso, ma come escluso. Decisi così, in un lampo improvviso, perché per potere insegnare bisogna scegliere un luogo, che è un po’ casa, e a cui si sente di appartenere.

Scelsi uno degli eroi greci per eccellenza, Odisseo, eternamente perduto, gettai poche linee su un foglio, come una mappa, e poi, mi diedi da fare sul come. Non sapevo bene cosa insegnare; non sapevo se qualcuno volesse davvero ascoltarmi, o verso quale luogo ci saremmo condotti a vicenda. Quindi, vi era solo un modo per iniziare: di fronte a venti ragazzini, svogliati e timidamente incuriositi, ammisi la mia ignoranza, che non avevo lezioni da impartire, non avevo verità da diffondere, che io e loro stavamo per dare vita a un esperimento, e che il risultato sarebbe stato inaspettato. La mia non era una lezione, era un viaggio, ed eravamo fortunati ad avere una cartina. Socrate sarebbe stato la mia guida immaginaria, e attraverso la mia curiosità, loro avrebbero tirato fuori certezze e perplessità.

I ragazzini mi guardavano incuriositi, non erano ben sicuri di capire. Arrancammo, io e loro, il mio olandese balbettava, le loro orecchie non erano avvezze all’inglese, e a volte ridacchiavano. Eravamo proprio preclusi gli uni agli altri, compagni perfetti per il nostro esperimento. Continuavo a porre domande, e il silenzio iniziò a tremare. Alcuni cominciavano a rispondere, a volte per impressionare il maestro che male si mescolava fra noi, a volte perché erano già saggi, e proprio non riuscivano a non dirti la verità. Guardando il pavimento, mi dissero che in nessun altro tempo il mondo fu così avido come il nostro, e Odisseo sarebbe stato lasciato per strada, e non sarebbe mai tornato a casa. La scuola li aveva protetti troppo bene, così avevano iniziato a guardare il mondo in vetrina, e a constatarlo. Mi sembravano già anziani, con queste sicurezze sugli occhi e sulla bocca, senza il bisogno di chiedere perché.

Suonò la campana, il tempo era scaduto, e io me ne andai con l’amaro in bocca, chiedendomi se non sia mai accaduto anche a Socrate; pensai di no, perché lui avrebbe avuto tutto il tempo, senza l’interruzione di una campanella.
Arrivai così a una nuova consapevolezza: la filosofia ha bisogno di un nuovo compito, che prima, nei suoi tempi idilliaci, ha trascurato. Essa può ancora guidare, ma adesso deve anche ispirare, per impedire che i ragazzini siano savi così tanto presto, affinché si sorprendano di sapere più di quanto pensano, ma non ancora tutto. La filosofia deve tornare bambina, non per guardare il mondo con ingenuità, ma per credere che si possa ancora salvare, e che Odisseo, in ogni tempo e in ogni luogo, avrebbe comunque ricevuto tutte quelle mani tese, per ritrovare la strada di casa.

 

Fabiana Castellino

Fabiana Castellino è nata nel 1990 in Sicilia.
Si è laureata in Scienze filosofiche con lode, all’Università di RomaTre, con una tesi su Arthur Schopenhauer.
Ha maturato diverse esperienze nell’educazione dei bambini, prima con disabilità, e adesso svolge un progetto di volontariato europeo presso una scuola Steineriana in Belgio.
La lettura e la scrittura le sono state compagne sin da bambina, e l’hanno sempre guidata nelle sue scelte, professionali e di vita.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Filosofia: alla ricerca di un perché

«Perché?»

Questa è la domanda più frequente che mi viene rivolta quando rendo qualcuno partecipe della scelta in merito al mio percorso di studi universitario. E devo ammettere che mi trovo sempre in difficoltà su che risposta dare. Non è una questione banale come può sembrare, perché ha a che fare con l’intimo del proprio Io. Forse la domanda è proprio la risposta.

Cerco di spiegarmi meglio.

Fin dalle sue origini la filosofia occidentale si è dedicata al definire, circoscrivere e determinare – con le possibili eccezioni di Epicuro e successivamente Spinoza. Volenti o nolenti, questa è la nostra storia, e ci abbiamo a che fare ogni giorno della nostra esistenza. Così recitava la Dea nel poema di Parmenide Sulla Natura in relazione alle uniche due vie di ricerca che si possono pensare: «[…] l’una che “è”, e che non è possibile che non sia […] l’altra che “non è” e che è necessario che non sia»1. Su queste poche e a prima vista semplici parole si è scritto, discusso e dibattuto per secoli fino ai giorni nostri (basti vedere l’analisi filosofica contemporanea di Emanuele Severino), senza che mai si sia trovata un’interpretazione che accordasse tutti i pareri. Il problema – che ha appunto a che fare con tutti noi ogni giorno – è quello di definire qualsiasi cosa in modo univoco, perdendo quindi inevitabilmente il suo collegamento con il Tutto. È sufficiente pensare a Socrate e al suo metodo interrogativo: egli rivolgeva la domanda: «Che cos’è?» in relazione a qualsiasi cosa, con una sua conseguente determinazione. Proviamo ad applicare questo metodo alla nostra indagine: «Che cos’è la Filosofia?» Ecco un’altra questione dibattuta all’inverosimile senza risultato. E dal mio punto di vista è proprio la mancanza di una risposta uniforme a “salvarci”. Abbiamo trovato qualcosa che non può appartenere a categorie determinate, che non può essere definito in modo univoco e che riesce a sfuggire a quel meccanismo di circoscrizione che scuole di pensiero orientali come il Taoismo criticherebbero in modo ferreo. Qui entra in gioco la nostra personalità, il nostro essere diversi dagli altri. Ma la differenza sta proprio in questo diverso: è un diverso che non delimita – se vissuto in una certa maniera – bensì amplifica il risultato dato da ogni particolare che contribuisce all’essere della Filosofia.

La Filosofia ha a che vedere con il pensiero, inteso sia come pensiero personale di ogni individuo sia come pensiero in quanto tale. Sempre Parmenide nel sopracitato poema affermava: «Lo stesso è pensare ed essere»2. Il pensiero condivide con l’Essere la caratteristica di rinviare all’orizzonte ontologico della presenza: non ha confini o restrizioni, è libero e proprio questa è la sua grande forza. Proprio in relazione al pensiero, forse il contributo essenziale che ha apportato la filosofia occidentale è quello della ragione. A mio modo di vedere il problema sta nel fatto che ormai – forse da sempre – la razionalità determini la nostra filosofia, perdendo quindi quel collegamento iniziale con sé e la totalità che dovrebbe animarla. Perché, anche solo chiedendoci cosa essa sia, abbiamo determinato – se non la risposta – almeno il “modo” di rispondere. Ecco cosa intendevo affermando che forse la risposta viene a concordare con la domanda. “Perché?” è una porta che si apre al trascendentale, un viaggio nella vita alla ricerca di un qualcosa che poi riconosciamo combinarsi ed appartenere alla ricerca stessa.

La filosofia ha anche – soprattutto oserei dire – a che vedere con la vita quotidiana. È triste osservare come essa sia stata rinchiusa nelle facoltà universitarie, vanificando il suo scopo fondamentale: sorreggere la vita dell’Uomo, come messo semplicemente ma efficacemente in luce dallo scrittore svizzero Alain De Botton, ripreso anche dal periodico Internazionale3.  La sua utilità è imprescindibile nel quotidiano, ma ci si accorge di ciò solamente interiorizzandola ed applicandola. Non è difficile, la maggior parte delle volte è sufficiente solamente porsi degli interrogativi, che possono evitarci i pericoli del senso comune e dei luoghi comuni. E molto spesso la domanda è proprio quel particolare “Perché?” di cui abbiamo parlato finora. “Perché?” è un uccello che spicca il volo nel cielo della possibilità, che non si lascia imprigionare nella gabbia dell’opinione di massa anche se sembra accogliente e sicura. “Perché?” è il coraggio di Ragionare con la R maiuscola: di riflettere su ciò che accade criticamente, senza farsi mettere le parole in bocca da qualcun altro. “Perché?” è la nostra vita, fatta di impervi valichi da scalare, misteriosi passi da scovare ed incontaminate valli da scoprire.

«Perché Filosofia?», quindi.

Ora posso rispondere: «Perché no?»

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Parmenide, Sulla natura, B2
2. Ivi, B3
3. A. De Botton, Perché la filosofia ci aiuta a vivere meglio, “Internazionale”, 20 febbraio 2015.

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