Identità (o una non-identità): tante personalità?

Gli antichi si tramandavano tradizioni romanzate di origini mitiche e lontane; Virginia Woolf scrisse di un personaggio di nome Orlando che cambia sesso nel bel mezzo del racconto e oscilla continuamente da una personalità all’altra; nel corso degli ultimi decenni hanno cominciato finalmente a farsi strada nella coscienza collettiva i concetti di identità sessuale e di genere, sotto l’affermarsi progressivo di un’attenzione globale. A partire dalle identity stories, passando per gli spunti dei maggiori intellettuali novecenteschi e approdando alla lotta del mondo LGBTQ+ per i propri diritti si è sempre conservata molto viva e centrale nel dibattito sociale la “questione dell’identità”; questione che per diverso tempo è stata associata, in modo assai riduttivo, alla sola etnografia, ma che al contrario può svilupparsi in numerosissime e sorprendenti direzioni.
L’aspetto fisico è sufficiente a determinare il genere di una persona o può intervenire anche l’autopercezione? Il genere è un costrutto culturale, o “esiste davvero”? In tal caso, che cosa, esattamente, dovrebbe accendere la percezione di appartenere a un genere piuttosto che all’altro? Questo tipo di approccio è il frutto del recente dibattito sulla sessualità aperto dalla comunità transgender, ma rappresenta solo un’ulteriore possibilità in una gamma multicolore di prospettive che in passato hanno cercato, ciascuna a partire dalla propria intuizione, di indagare il delicato interrogativo sull’identità.

Il relativismo novecentesco suggeriva ad esempio che la cosiddetta “identità personale” non sia poi così personale: forse “chi siamo” non si riduce a chi crediamo di essere, ma dipende in prima istanza dal punto di vista che assumiamo per raccontarci, allargandosi al riflesso di noi che ci restituiscono le persone con cui interagiamo. Questa idea viene ripresa anche dalla theory laden di Popper: la mente come un faro che illumina la realtà, la diversa percezione delle situazioni e delle persone circostanti come frutto dei preconcetti trasmessi dall’ambiente culturale di provenienza. A seconda di quale faro illumina la realtà, cambia la luce e con essa la porzione di cose illuminata: la fondazione della realtà varia al variare della mente che la interpreta, e nel nostro caso particolare varia l’immagine dell’eventuale interlocutore; sguardi diversi su una stessa persona ne percepiscono e determinano aspetti dell’identità diversi. Ne deriva che al pronunciare un nome non evochiamo realmente una persona in carne e ossa, ma proiettiamo all’esterno un personaggio che ci siamo costruiti mentalmente, una figura che esiste solo come prodotto delle conoscenze limitate che abbiamo accumulato rispetto a quell’individuo particolare.
Popper e gli altri relativisti sembrerebbero dirci, in sintesi, che un’identità viscerale non esista, e che siamo semmai il mosaico di molteplici, minori, prospettive che includono sia la nostra che quella di chiunque posi il suo sguardo su di noi e formuli un giudizio. Il concetto di identità si esprimerebbe allora nella triplice dimensione di ciò che viene percepito dall’interazione con l’altro, del personaggio che quest’altro costruisce sulla sua visione parziale delle cose, e della percezione personale e autonoma di sé stessi.

Secondo Platone, invece, ciascuno di noi è abitato da un dáimōn che ci rende unici; pur sfociando poi nel noto racconto delle Idee e dell’Iperuranio, il concetto di fondo del mito platonico nega l’ipotesi di un’anima umana come semplice caleidoscopio nel quale si riverberano gli sguardi altrui, sostenendo l’esistenza di una qualche essenza identitaria distintiva; una sorta di sostanza “oggettiva” che si vincola a ognuno prima ancora della nascita e ne caratterizza profondamente la natura, funzionando come strumento identitario.

Un principio generale emerge da questo garbuglio di teorie e vicoli cechi: l’identità come concetto inafferrabile e indefinibile; come qualcosa che sembra fluire, e oscillare, e mutare, e sbeffeggiarci quando proviamo a fissarla in una serie di categorie. Forse Pirandello era riuscito a evitare una descrizione semplicistica, parlando dell’anima umana come eterno guizzo di infinite personalità possibili; forse la Woolf, immaginando l’identità come sostanza multiforme, cangiante, asessuata, in perenne evoluzione. Una risposta categorica all’interrogativo sull’identità non è facile; forse non esiste; forse la risposta è la somma di tutte le possibili risposte, ossimori inclusi; ma se non possiamo definire verbalmente l’identità, possiamo tuttavia farlo empiricamente, lasciandola libera di esprimersi attraverso i nostri cambiamenti: che emergano tutte le variazioni e anche le eventuali, temporanee staticità di quel misterioso corpus che è la personalità. Liberiamo la nostra identità da etichette e altre possibili costrizioni, consentendole di svilupparsi, modificarsi ed esplorare pienamente tutte le sue possibilità.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit Vince Fleming via Unsplash]

la chiave di sophia

 

Comunque andare, anche se è possibile inciampare

A chi scrive è capitato di partecipare a una conferenza, mesi fa, pensata per fare il punto dell’attuale situazione del pianeta, con riferimento alle problematiche specifiche dell’Antropocene. Uno degli astanti, con massimo sconcerto, contestò una delle affermazioni del relatore, in particolare quella sulla “presunta” sovrappopolazione: non è possibile che ci siano troppe persone sul pianeta, diceva, è sufficiente notare quanto sia diminuito il numero di bambini alla sagra di paese per capire che il problema è esattamente l’opposto.

L’intervento, per quanto ingenuo, tradiva evidentemente una squisita provincialità nel pensiero: dato che nel paesino X di seicento anime nascono pochi bambini, è evidente come la sovrappopolazione mondiale sia un falso problema. La percezione locale diventa regola dell’universale.

Il meccanismo che portava il signore di cui sopra a ignorare un problema come una popolazione globale di sette miliardi di individui umani (in crescita), però, è lo stesso che ultimamente genera allarmismi e catastrofismi in classi sociali e culturali tra le più disparate. Sono anni, ormai, che in Occidente si paventa un “ritorno alla barbarie”, che sia per i flussi migratori incontrollati per alcuni o per il riaffacciarsi dei fascismi per altri, per la progressiva islamizzazione d’Europa per i primi o per le preoccupanti vittorie dei populismi per i secondi. Indipendentemente da quali siano le minacce percepite, il risultato pare sempre lo stesso: la distruzione della civiltà (occidentale o totale, spesso considerate sinonimi) ed una imponente retromarcia storica.

Anche qui, però, la prospettiva da cui ci si affaccia per formulare simili profezie è a dir poco limitata e circostanziata: se i fatti percepiti come emergenze sono innegabili in sé, l’interpretazione catastrofista non tiene conto di una visione d’insieme decisamente più ottimistica. Mai come in questo secolo si sono diffusi il diritto alla salute e all’istruzione, si sono fatti enormi passi avanti nella lotta per l’equità di genere in paesi che tradizionalmente non avevano mai esteso alle donne neanche lo status di esseri umani, si stanno raggiungendo insperati livelli di benessere nonostante la permanente povertà di certe aree geografiche, la diffusa alfabetizzazione e partecipazione politica hanno aperto nuove frontiere alle democrazie e la ricerca medica e scientifica ci ha dato una comprensione inedita del corpo e della mente umani, del mondo e del cosmo.

Queste sono conquiste che l’umanità non può “disimparare” e che non possono essere cancellate da qualche colpo di coda di ideologie passate che, per quanto recrudescenti, non hanno certo il potere di portare indietro le lancette dell’orologio. Aveva certamente ragione Giambattista Vico, che coi suoi “corsi e ricorsi” riconosceva alcuni pattern che tendono a ripresentarsi a distanza di secoli nella storia umana, ma anche questi erano comunque inseriti all’interno di un percorso unidirezionale, che non è in alcun modo passibile di inversioni o arresti (per quanto, dal 1945 in poi, lo sviluppo dell’industria bellica presenti per la prima volta la possibilità più che concreta di un arresto totale della storia umana).

La storia può dunque ripetersi in alcune strutture di base, ripresentare vecchie problematiche su nuova scala, ma mai ripercorrere i propri passi. Il cammino storico dell’umanità prosegue in una sola direzione, e le conquiste che appartengono all’intera specie non possono essere cancellate dal declino politico o morale di una sua minima parte. Non si intenda questo, però, come un principio deresponsabilizzante per la collettività e per i singoli: appurato che la direzione del progresso è e rimane una sola, dovremmo seriamente preoccuparci di dove indirizzare i nostri prossimi passi. In fondo, camminare in una direzione sola non significa certo che sia impossibile inciampare o sbagliare strada.

 

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Dalla percezione al ragionamento

Chi vorrà aprire La valigia del filosofo1 da oggi troverà, insieme alle grandi carte da gioco, alla macchina della verità, alle sagome di lettere per comporre parole, insieme a ciò che c’era già, alcuni oggetti meno bizzarri, di cui non sarà così facile individuare subito un uso determinato e preciso: tanti fogli colorati di cartoncino non ancora disegnati, non ancora tagliati, e altri materiali neutri. Accuratamente divisi per tipo, in scatole tutte uguali: pezzetti di legno, cubetti di gommapiuma di varia morbidezza, semi di girasole, carta vetrata, fili di lana, sottili fogli di alluminio. Come mai proprio questi oggetti sono appena entrati in valigia, forse a prima vista così poco utili al lavoro di un vero filosofo?

A partire dall’anno scolastico che è appena iniziato La valigia del filosofo si è aperta alla progettazione e alla conduzione di laboratori rivolti ai più piccoli, di età compresa tra i tre e i cinque anni. A partire da qui, dunque, l’esigenza di trovare linguaggi adeguati all’età e di costruire il nuovo percorso didattico con attività volte ad ampliare la conoscenza del bambino di ciò che lo circonda, attraverso l’esperienza concreta e la sperimentazione diretta. Nella pedagogia di Bruno Munari abbiamo trovato i punti fermi teorici più convincenti e naturali, e da lì ci siamo mosse per pensare i giochi creativi che compongono il percorso di scoperta del segno e della forma. Emerge in modo evidente, in particolare dallo studio dei laboratori tattili di Bruno Munari dei primi anni ’80, la necessità di strutturare la comunicazione con il bambino non solo attraverso i consueti canali verbale e visivo. Se teniamo presente che “la conoscenza del mondo, per un bambino, è di tipo plurisensoriale”2, possiamo privilegiare modalità di apprendimento basate sull’uso della comunicazione tattile, olfattiva e uditiva in senso ampio. Giochi di “allenamento” della percezione, durante i quali i bambini siano liberi di sperimentare una grande quantità di contrasti, come pure di minime differenze tattili od olfattive, arricchiscono la loro esperienza. Nel momento in cui, poi, i bambini riflettono ed esprimono un pensiero in merito, stabiliscono relazioni tra le percezioni, le nominano e le raggruppano per somiglianza, il gioco diventa capace di stimolare la loro capacità critica. Ed è già propedeutico a un pensiero filosofico che in età più avanzata può attingere con agilità direttamente ai concetti. Se un bambino, di fronte a una serie di pezzetti di carta vetrata messi in ordine dal più liscio al più ruvido, cerca di immaginare un grado di ruvidezza intermedio tra quelli di due pezzetti realmente esistenti, sta già attivando un’operazione di astrazione. Sperimentando in modo diretto una scala di gradazioni, con le sue sfumature concrete, presto farà suo il concetto di gradualità e quello di successione.

C’è poi un secondo snodo teorico che riteniamo particolarmente interessante e funzionale al discorso di introduzione al ragionamento logico: la funzione delle regole nell’esercizio della creatività. Nella didattica di Bruno Munari la riflessione sul ruolo delle regole da inserire nell’esperienza laboratoriale si concentra spesso sulle modalità di intervento dell’adulto durante l’elaborazione di composizioni grafiche o materiche, che devono essere pensate per abituare il bambino a sentirsi il più possibile autonomo. L’adulto può indicare regole d’uso dei materiali, che ne evidenzino le caratteristiche tecniche e che diano la possibilità al bambino di dare forma in modo efficace a ciò che ha in mente. L’operatore o l’insegnante può “aiutare a fare, ma mai dare idee già fatte”3. L’introduzione di determinate regole nel gioco creativo rivela la sua importanza fondamentale quando si risolve in un metodo di lavoro e quando il bambino, rispettandole, scopre di agire e pensare liberamente a partire da alcuni punti fermi. La stabilità delle regole, oltre a dare sicurezza, abitua a familiarizzare con la presenza, in ogni composizione creativa, di una sua struttura interna. Lo sviluppo della capacità di individuare regole che strutturano la comunicazione verbale, visiva o tattile, introduce le basi per il ragionamento logico, al quale viene dedicato uno spazio specifico nei percorsi didattici della valigia rivolti ai bambini più grandi.

In uno degli incontri finali del laboratorio dedicato alla scoperta del segno e della forma, proponiamo ai bambini di comporre partiture, in un esercizio di avvicinamento alla scrittura. Al posto delle lettere e delle parole, per ora, ci sono i colori. Una striscia di biadesivo è il rigo sul quale “scrivere”, incollando frammenti di cartoncino blu, rosso e giallo. Le regole del gioco, poche e ben definite, consistono nel coprire tutta la striscia adesiva, senza lasciare spazi vuoti, e nel seguire il verso da sinistra a destra: lasciano grande libertà di espressione e corrispondono ad alcuni elementi costitutivi della scrittura, che vengono così assimilati giocando.

 

La valigia del filosofo

NOTE:
1. La valigia del filosofo è un progetto di logica e filosofia per bambini e ragazzi nato nel 2015, a cura di Elisa Dalla Battista e Francesca Lurci.
2. B. Munari, I laboratori tattili, collana Giocare con l’arte, Zanichelli, 1985.
3. B. Munari, I laboratori tattili, collana Giocare con l’arte, Zanichelli, 1985.

 

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L’intreccio tra dinamiche interne e rappresentazioni esterne

In occasione della festa della Repubblica del 2 giugno 2017, la Presidentessa della Camera Laura Boldrini ha ricordato che il concetto di patria «non ha niente a a che vedere con le ideologie nazionaliste. Il nazionalismo esclude, la patria è inclusiva; il nazionalismo è aggressivo, la patria è solidale; il nazionalismo costruisce muri, mette fili spinati se possibile, il patriottismo tende la mano agli altri»1. Seppure riferita in particolare alla questione migratoria, la differenza tra patriottismo e nazionalismo esprime un concetto che può diventare una chiave di lettura interessante.

Chiunque possieda un profilo sui social media, si sarà reso conto che esiste una fetta di popolazione che accusa e attacca violentemente il Bel paese dal divano di casa. Si potrebbe obiettare che questo fenomeno esiste da ben prima della comparsa dei social media: il mondo si divide in quelli che si danno da fare per cambiare ciò che non gli piace e quelli che si limitano a lamentarsene. A colpi di like e condivisioni, i cosiddetti leoni da tastiera ne sono solo la rappresentazione più moderna. «Il nazionalismo è aggressivo; la patria è solidale»2, ha detto Laura Boldrini. Si può facilmente estendere questo concetto a tale fenomeno. L’aggressività, infatti, raramente si sposa con l’autocritica: serve piuttosto per la critica dell’altro, chiunque esso sia, straniero o oppositore politico. Nonostante la critica di un sistema sia importante per il suo progresso, essa si differenzia dalla recriminazione fine a se stessa: nel momento in cui la critica manca di un carattere introspettivo e costruttivo, rimane una vuota lamentela.

In questa prospettiva, dunque, le osservazioni critiche si appiattiscono su strutture mentali che rispondono ad una logica del “noi contro loro3, che non è certamente né introspettiva né costruttiva e si carica di aggressività.

In un mondo interconnesso che amplifica ed esagera le percezioni umane, non si può trascurare l’impatto che questo tipo di ‘attivismo’ paranoico da social media ha su un pubblico esterno. Infatti, la prospettiva di chi osserva da fuori dinamiche esclusivamente interne che non può capire appieno poiché appunto esterno alle dinamiche stesse, rimane necessariamente parziale. Non ci si può stupire, dunque, se le rappresentazioni erronee riflesse verso l’esterno vengano considerate da esterni corrispettive della realtà e diventino nel tempo stereotipi o giustificazione per tali. Denigrare aggressivamente una realtà nella sua integrità per colpirne invece solo una parte, crea impressioni sbagliate e nocive nel lungo termine.

Non esistono paesi perfetti, dove tutto funziona nel migliore dei modi: vivendo all’interno di un sistema è inevitabile rendersene conto, sia esso l’Italia o un altro paese. Tuttavia, nonostante le inequivocabili mancanze di certe situazioni, altri paesi non riflettono all’esterno un livello di negatività tanto alto come sembra fare l’Italia. Eventi come l’incendio della Grenfell Tower di Londra ci fanno aprire gli occhi su come non tutto sia ottimale, come può sembrare dall’esterno.

Dove sta, allora, la differenza tra l’Italia e altri paesi europei, che pure non sono perfetti, ma non trasmettono, o almeno non lo hanno fatto fino ad ora, percezioni così negative all’esterno? Una spiegazione a questo dilemma potrebbe risiedere proprio in quell’abitudine a fare la voce grossa senza rimboccarsi le maniche. A recriminare, senza proporre un’alternativa costruttiva. A confondere nazionalismo con patriottismo. Un atteggiamento che è anche proprio di alcuni quotidiani nazionali, che preferiscono esasperare notizie che fanno rumore attraverso uno stile di scrittura aggressivo. L’esempio dell’incendio alla Grenfell Tower di Londra, diventata in pochi giorni il centro di una retorica polemica, che incolpa l’Italia della morte dei due connazionali, accusandola di costringere i suoi giovani a partire, è anche un ottimo esempio di questo tipo di meccanismo.

Il momento della critica, quella costruttiva, è un momento essenziale, che non può e non deve mancare nel processo di sviluppo progressivo di una società. Tuttavia, per essere comprensivo e utile, deve essere principalmente una riflessione interna, in cui ci si pongono domande e si cercano risposte, deve abbandonare la logica del “noi contro loro” e l’aggressività di tale logica. Un esercizio che si può dunque identificare con il patriottismo perché inclusivo e solidale nei confronti, in questa accezione, di chi rappresenta idee diverse. Non è il momento della generalizzazione né della violenza verbale, che si identificano meglio con l’aggressività del nazionalismo, come sottolineato dalla Presidentessa della Camera Laura Boldrini.

Francesca Capano

Note:
1. Link Camera 1
2. Link Camera 2
3. In questa logica, ‘loro’ sta per chiunque non si faccia portavoce delle stesse idee ne’ rispecchi le stesse paure di chi si identifica con il ‘noi’, come se non fossimo tutti parte dello stesso sistema che cerchiamo di migliorare.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Creare con il pensiero: la scienza per realizzare i sogni

Finalmente posso dormire! Lontano da tutto il resto, rifugiarmi sotto le coperte, e lasciare che la coscienza si assopisca lentamente sprofondando nel silenzio dei sensi. E sognare, se capita.

Molti concludono la giornata con un pensiero simile, prima di abbandonarsi al riposo. Eppure non è sempre così semplice. A qualcheduno, in qualche rara occasione, può essere capitato durante il sonno di sperimentare quello stravagante fenomeno chiamato sogno lucido: uno stato mentale ossimorico, che unisce un senso di presenza a sé stessi mentre la coscienza dorme. Quando sogniamo normalmente, la realtà non si impone più rigida sulla nostra percezione. Lascia che la nostra mente proietti e immediatamente sperimenti quanto crea lei stessa. Il risultato consueto: situazioni che si compongono in modo apparentemente casuale (psicanalisi e smorfia napoletana a parte). Tuttavia in quello stato fortunato del sogno lucido si aggiunge un altro elemento: nel sogno ci ricordiamo che stiamo dormendo e ci accorgiamo che stiamo sognando. Questa presa di consapevolezza ha come conseguenza un effetto particolare: le immagini non sono più subite, dettate dalla profondità del subconscio o da associazioni bizzarre, ma diventano il prodotto della nostra volontà, che ha acquisito lucidità nella dimensione onirica.

Vuoi volare? Puoi. Basta pensarlo.

Immaginazione e percezione della realtà diventano eco l’una dell’altra, come due specchi che vicendevolmente si riflettono. Non c’è una realtà “esterna” che definisce l’esperienza mentale di un soggetto interiore, perché pensato e percepito sono una cosa sola. Risuonano le parole di Aristotele quando descrive l’intelligenza divina:

 

«Dunque, non essendo diversi il pensiero e l’oggetto del pensiero, per queste cose che non hanno materia, coincideranno, e l’Intelligenza divina sarà una cosa sola con l’oggetto del suo pensare».
Aristotele, Metafisica

Un po’ come dice Guccini nella sua Genesi, ma senza “r” moscia.

Nella vita di tutti giorni, vissuta normalmente da svegli alla luce del sole, è meno immediata l’associazione tra quanto si sogna e la sua concretizzazione davanti ai nostri occhi, tra aspirazione e realizzazione. Realizzare i sogni diventa l’espressione che descrive l’azione di chi, aiutato dalla sorte o grazie al duro lavoro, riesce con il tempo a rendere vive nel mondo le sue aspirazioni.
Ma proprio mentre siamo impegnati a realizzare i nostri personali propositi, scienza e tecnologia continuano instancabilmente a lavorare per i propri. E quello che stanno producendo in questi ultimi anni potrebbe servire ad accorciare sempre di più questa distanza. Compaiono uno dopo l’altro strumenti e tecniche che servono a rafforzare e rendere più vividi i prodotti della nostra immaginazione, che creano la possibilità di sperimentare i nostri progetti mentali con i 5 sensi. Di renderli appunto “reali”.

Pensiamo alla stampante 3D: simbolo del mondo del making e dei fablab (assieme a taglierine laser e macchine fresatrici), è quello strumento che materializza in volumi tangibili forme prima digitali. Rendendo quasi immediato il processo di costruzione, lascia spazio al gioco delle forme e alla creatività per la progettazione delle cose.
Oppure prendiamo in considerazione un altro ambito, un ambito che oramai potrebbe aver perso l’aura della novità, e che potrebbe passare inosservato perché associato all’intrattenimento e al contesto ludico: quello della computer grafica. Processori sempre più potenti e una risoluzione identica a quella della vista umana (se non maggiore) servono a rendere verosimili le visioni degli artisti digitali, proponendo al pubblico opere che senza limiti possono sfidare il sublime.
E la CGI si sposa con la tecnologia dei visori di realtà virtuale, inaugurando nuove possibilità espressive e di sperimentazione. Parallelamente alla capacità di costruire mondi fittizi sempre più complessi e percettivamente credibili, si sta sviluppando la tecnologia per rendere la fruizione immersiva. Tutto questo grazie ad occhiali che proiettano panorami artificiali includendo tutto il campo visivo, esplorabili a 360 gradi. E non solo: gli strumenti di interazione con i mondi digitali non si limitano alla vista, ma includono il movimento corporeo.
E ancora: la ricerca si sta occupando dell’interazione diretta mente-macchina, sulla possibilità di interagire e dirigere mentalmente le operazioni dei computer. Dovremo aspettare molto prima controllare i nostri smartphone tramite i nostri pensieri?

Artifici computerizzati che interagiscono con il nostro tatto, con la percezione del nostro corpo e degli oggetti, con le immagini visive davanti a noi. Con quelle facoltà cognitive che contribuiscono a definire quello a cui normalmente attribuiamo un’esistenza concreta. Considerando queste tecnologie nella loro singolarità, può sembrare esagerato accostarle ad un aumento illimitato delle potenzialità della creatività umana e della sua realizzazione. Ma consideriamole tutte insieme, per osservare se disegnano una direzione, una tendenza verso cui ci stiamo muovendo. E ricordiamoci quanto la tecnologia è mutata nei secoli, in modi inimmaginabili per ogni epoca. Apparirà allora più lecito fantasticare su un futuro sorprendente.

Un ultimo azzardo: accogliamo in pieno questo scenario, immaginiamo un presente in cui ogni cosa che l’immaginazione umana può figurarsi si realizza immediatamente. Una volta che la domanda non è più come realizzare quello che sogni, perché tutto quello che immagini si può concretizzare, allora che cosa oserai immaginare?

Matteo Villa

 

P.S.:

Fai volare l’immaginazione mentre guardi questo video:

volo in realtà virtuale


 

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Il gusto della forma: la percezione fisica come esperienza

Degustiamo ogni giorno cibi dalle forme diverse, forme che in un contesto in cui si sta perdendo la visione legata al piacere e all’esperienza sensoriale, si esprimono sempre più come quel gesto legato al nutrimento privo di ogni caratteristica e qualità.

Non ci accorgiamo che il cibo può essere anche interpretato come una forma, più importante del linguaggio umano, perché è quell’atto superiore che costituisce la causa, il senso e il fine stesso, che in questo caso mette in relazione il piacere con il bisogno.

E sono queste diverse forme che sono in grado di produrre effetti diversi nella bocca di chi mangia, perché sul piano sensoriale il loro gusto cambia. E perché la forma, come la sostanza, si traduce in sapore.

Lo stesso Aristotele definiva il gusto come una «forma di tatto», proponendo una gerarchia dei sensi come modi di percepire la realtà esterna, associando anche i colori ai sapori. Nell’Etica Eudemia in particolare viene descritto il comportamento dell’uomo saggio nei confronti di questi piaceri materiali del gusto, dove ai sensi era riconosciuta la capacità di emozionare e rafforzare l’umanità dell’uomo.

L’analisi sensoriale rappresenta lo strumento attraverso il quale ognuno di noi è in grado di sviluppare la propria esperienza culinaria attraverso una stimolazione in cui rientrano molte qualità. Tra queste, la forma stessa assume un senso o un sapore nel momento in cui si risponde al bisogno di variare il gusto e ci si appella alla percezione fisica come esperienza.

Se il sapore può essere inteso come sapere, nel momento in cui si acquisisce una consapevolezza legata agli ingredienti, lo stesso sapere può essere associato al sapore. Perché se le sostanze che concretamente mangiamo ci nutrono facendoci percepire qualcosa, allora il cibo come linguaggio può essere considerato all’interno di un sistema di differenze, non solo astratte ma anche essenziali e identitarie.

Come la forma che riferendosi sempre alla materia è in grado di rendere significativo un piatto…

Lo stesso Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro descrive la cucina come campo di esperienza sensoriale, ovvero «l’arte di dare rilievo ai sapori con altri sapori», un percorso di sensi complesso a cui sia arriva attraverso la cultura e la consapevolezza che con questa diversificazione non si intendono solo le proprietà gustative ma tutte le qualità sensibili utilizzate nell’elaborazione culinaria.

Perché i sapori del cibo non sono solo espressione diretta della realtà ma possono rappresentare il risultato multisensoriale nel contesto in cui si consumano; dove il gusto prende forma e si esprime come punto di partenza in grado di sviluppare il nostro rapporto con il cibo.

Martina Basciano

[Immagine tratta da Google Immagini]

Quando l’arte si fa esperienza: la percezione come strumento d’indagine

Qualche giorno fa l’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte ha ospitato il collettivo [I] Experience, con la sua performance artistica a 360 gradi. Un progetto complesso e ben strutturato che consiste nell’ascolto attraverso cuffie in modalità binaurale di una sinfonia rock, eseguita live da quattro musicisti e una cantante. Nelle pause tra un brano e l’altro, immerso nel silenzio ovattato delle cuffie, lo spettatore ha la possibilità di seguire sul proprio smartphone o tablet un testo che scorre. La musica è inoltre accompagnata da una visual dai toni psichedelici ed evocativi.

Un’esperienza completa, che invita all’osservazione, all’ascolto e alla rielaborazione degli input narrativi offerti dalla storia che si svolge sullo schermo. Il ritmo della performance è quindi dettato dal respiro della protagonista del racconto: una ragazza con problemi di dipendenza, solitudine e paranoia.the-experience-2_tra_la-chiave-di-sophia

Lo spettacolo ci offre, dunque, uno sguardo sul fenomeno sociale dei giovani hikikomori, particolarmente grave in Giappone, che consiste nella progressiva alienazione volontaria dalla realtà e spesso si conclude con suicidi collettivi.

Emerge un’intenzione di indagine che definirei quasi scientifica e sociologica. Le modalità proprie della fruizione ci trasportano nella dimensione emozionale di un hikikomori: l’interiorità di cui la musica si fa espressione, non coincide infatti con gli input esterni.

Un concerto che dovrebbe essere vissuto collettivamente diventa così una sinfonia intima e privata. Ci troviamo a vivere un’esperienza in solitudine, anche se all’interno di uno spazio pubblico e seduti tra la moltitudine: al di fuori di noi c’è solo silenzio e persone riparate dalle cuffie.

Parole quindi che riflettono la musica, che a sua volta restituisce le emozioni del racconto, o almeno quelle che ognuno può elaborare secondo la sua personale lettura. La propria emotività si trasforma in uno scudo, un rifugio nel quale è dolce ripararsi e ad un certo punto conveniente.

Un circolo vizioso e ipnotico, uno stato che tra l’altro si riflette nelle proiezioni psichedeliche ed oniriche.the-experience-1_tra_la-chiave-di-sophia

L’esperienza artistica forse non può dare delle risposte certe, perché è soggettiva, ma d’altra parte aiuta ad elaborare domande. Chiedersi perché un ragazzo arrivi a diventare hikikomori non ci permette però di adottare la giusta prospettiva sul fenomeno. Le ragioni di questa patologia sono così profondamente radicate nel subconscio che risultano difficili da comprendere; inoltre questo tipo di sofferenza ha una natura totalmente personale ed è impossibile da condividere. Non a caso l’unica condivisione accettata dagli hikikomori è attraverso amicizie virtuali, scambi di parole mediate da una rigida tastiera e semmai addolcite con qualche emoticon.

Bisogna invece cambiare punto di vista e fermarsi a pensare come sia possibile percepire con i sensi strettamente canalizzati, o addirittura oscurati.

Credo sia questa la sfumatura più interessante sulla quale il progetto di [I] Experience ci porta a riflettere: d’altronde si tratta di partecipare ad un concerto ma ascoltando esclusivamente attraverso delle cuffie, che non permettono al suono esterno di entrare, e con lo sguardo concentrato su uno schermo, per cui le altre persone diventano invisibili.

La performance ci invita a sperimentare una sorta di isolamento percettivo, capace di creare universi fittizi, e, senza esprimere alcun giudizio, ad entrare in empatia con la protagonista. Per poi dimostrare, invece, che questa empatia per certi versi è illusoria, poiché ognuno è solo con se stesso. Emerge come il problema sia un’errata canalizzazione degli organi sensoriali: lo sguardo rivolto verso la propria interiorità resta così intrappolato in una paura da cui è difficile uscire e contro cui è impossibile opporsi.

Essenzialmente [I] Experience − che già nel logotipo del nome ci presenta una I (un io quindi) imprigionato tra parentesi − ci invita così a riappropriarci della nostra esperienza del mondo, di sentire al di fuori di noi, come reazione all’isolamento imposto durante il concerto.

Claudia Carbonari

Mangiamo per vivere o viviamo per mangiare?

Il latino sarà anche una lingua morta, ma per (s)fortuna di molti studenti, non lo sono gli insegnanti che lo perpetuano e che a colpi di falce mietono ogni anno più sofferenze che altro.
La mia esperienza non fu tanto diversa da quella di migliaia di ragazzi: debito a settembre e odio cieco.

Dopo lo scoglio grammaticale, però, arrivammo alla traduzione di massime e aforismi, quelle frasi celebri che si trovano (deo gratia) già tradotte interamente sul vocabolario e che portano gioia e agevoli versioni. Dalla semplice traduzione siamo passati alla riflessione; dalla lettura di un latinorum incomprensibile, all’illuminazione su concetti che non avremmo mai considerato, ma che in poche parole racchiudono pillole di verità.

Una di quelle incontrate per imparare le subordinate finali, recitava: “non ut edam vivo, sed ut vivam edo”, che (con la garanzia del vocabolario) significa “non vivo per mangiare, ma mangio per vivere”. Ma cosa significa questo gioco di parole di Quintiliano?
Ci comunica che dobbiamo guardarci dal peccato di gola: a detta del retore romano non siamo su questa terra per mangiare e cercare con il cibo un piacere fine a se stesso, ma dobbiamo ricordarci che il cibo è soltanto un carburante, né buono né cattivo, utile a mantenerci in vita e a darci sostegno.

Vallo a spiegare a tutti quei bambini che allontano dalla bocca ogni cosa di colore verde! E che dire inoltre di tutta quell’estetica del cibo che si è sviluppata negli anni? Artisti culinari ovunque: bar, ristoranti, pub, kebab, pizzerie, pasticcerie, supermercati e via dicendo. Le città sono invase di servizi per il cibo, che cercano di proporre il meglio che c’è sul mercato. Parrebbe insomma che molti vivano per mangiare, per gustare il non plus ultra dei cibi in circolazione.

La pillola di saggezza sembra venir meno, non tanto per la corruzione morale della società (che i detentori dell’etica propinano come minestra riscaldata in ogni epoca), quanto invece per un bisogno umano diverso dal semplice mantenimento della specie: il piacere, il godimento puro, che, guarda caso, è sempre unito ad ogni azione di procreazione e mantenimento.

Più tardi il greco mi ha insegnato che le pillole (anche quelle di verità) sono un farmaco (φαρμακον), che letteralmente può equivalere tanto a sostanza salvifica quanto a veleno mortale. Dove sta la verità di questa pillola? Ci porta salvezza o distruzione?
Ogni aforisma va dosato, come una medicina, va preso in giuste quantità, tali da non svilupparne una dipendenza dalle frasi altrui. Dovremmo invece inghiottirlo e deglutire, farlo nostro, rielaborarlo e integrarlo con il nostro organismo, con il nostro pensiero.

Il latino è così, o nero o bianco, tertium non datur, ma esistono davvero solo due possibilità? La filosofia ci viene ancora una volta in aiuto, e ci fa capire che sulla terra non c’è nulla di assoluto, di così spaccato e definito nella sua contrapposizione all’opposto: in medio stat virtus. Né l’una né l’altra allora, né viviamo per mangiare né mangiamo per vivere, ma mettiamo in atto una commistione di piacere e godimento assieme alla necessità di avere la pancia piena, di avere un organismo che funzioni perfettamente e in cui inserire il giusto carburante.

Apriamo la bocca e assaggiamo una pietanza: gli organi di senso sono totalmente recettivi, come durante un amplesso. Il corpo si prepara a ricevere qualcosa che lo sostiene, che lo salva, che conferisce quel principio di piacere al quale non ci si può sottrarre. L’attività quotidiana del mangiare non si limita all’immissione di un carburante meccanico, ma alimenta la mente e lo spirito, sensi e percezione, piacere e godimento.

Ma non basta un cibo buono, serve anche un cibo sano, quello che i bambini ancora non capiscono, quello che gli adolescenti non accettano, quello che gli adulti cercano di dimenticare.
Ecco che quindi l’aforisma iniziale assume un senso diverso, un’interpretazione che lo rende più accettabile e sensato. Se è vero che non viviamo per mangiare, insomma, non viviamo per mangiare e basta; ma mangiamo per continuare a vivere e poter continuare a mangiare. Il cibo è funzionale alla vita, ma la vita è felicità e gioia, è ricerca del piacere e sperimentazione costante di esso.

Mangiamo per vivere, certo, ma viviamo per essere felici, per godere della vita e del cibo con cui viviamo.

Giacomo Dall’Ava

[immagine tratta da Google Immagini]

L’aria scolpita_Un pensiero di architettura

“- Potendo, passerei tutto il tempo a riflettere, riflettere, riflettere. Vorrei seguire liberamente i miei pensieri. Ecco cosa vorrei fare. Ma il puro ragionamento, forse è qualcosa che serve soltanto a costruire il vuoto, non trovi?
– Al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto.”

[ dialogo tratto dal libro L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami Haruki ]
Non c’è nulla di più difficile da precisare del vuoto, nulla di più ambiguo da rappresentare dell’immateriale, nulla di più utopico da materializzare di un’assenza. A meno che, quella che sembra essere un’immateriale assenza, sia in realtà, materiale presenza.
Il vuoto, contenuto e definito dalla materia costruita, si presenta come un’assenza perché manca di quell’oggettualità che è propria della forma che viene associata all’esperienza dell’architettura. Pensare al vuoto nei termini dell’assenza, ci porta inesorabilmente verso un’unica direzione dove il vuoto viene ridotto ad una mancanza, ad una conseguenza, ad un risultato.
La direzione che potremmo prendere sarebbe diversa se ci trovassimo nel Jardin des Tuileries a Parigi, tra due lame di acciaio corten conficcate nel terreno; modellate, alte e vicine a tal punto da costringere l’occhio a rimbalzare da una all’altra, da spingerlo a scorrere lungo la sinuosità delle loro curve fino a prendere il volo verso l’unica porzione del mondo visibile, il cielo. Percorrendo questo vuoto ne sentiremmo la presenza. La pesantezza della materia si dissolverebbe nella potenza dello spazio da essa generato, e tutto ciò che credevamo immateriale diventa materiale, tutto ciò che fisicamente si presentava come un’assenza arriva ai nostri sensi come una presenza. Il vuoto diventa aria scolpita.
Passo dopo passo, respiro dopo respiro, quel vuoto che stiamo attraversando si fa denso e presente, caricandosi di tensioni e vibrazioni a tal punto da diventare ai nostri occhi la sola e vera materia plasmata dallo scultore: è come se Richard Serra avesse costruito quel vuoto tra le lame prima ancora delle lame stesse.
Percorro quel vuoto compresso, sento la compressione, sento la spinta delle due pareti che mi schiacciano e mi spingono avanti e in alto fino a svelare al mio sguardo ciò che prima era negato. Sento la vibrazione tra le due lame ruvide, brunite, dove la luce si increspa e le ombre si liberano; quella vibrazione che il vuoto accoglie facendo da cassa di risonanza ad una melodia che solo io posso sentire.
Lo sento sulla pelle quel vuoto, e lo sento dentro.

2_INSTALLAZIONE - Richard Serra
Costruire il vuoto significa costruire percezioni. Costruire percezioni significa costruire esperienze. E quando questo accade, i vuoti fisici diventano luoghi mentali, scrigni dove custodiamo le esperienze più profonde e dove nascono i pensieri più preziosi e liberi.
Pensare e costruire il vuoto significa dare forma ad uno spazio che riesca ad entrarci dentro con una forza tale da elevarsi a luogo mentale divenendo il terreno fertile dove coltivare la nostra anima. Perché il vuoto è l’unica condizione fisica e mentale dove tutto è libero, dove tutto accade, dove tutto cambia: “il luogo dove il pensiero può generare parole nuove” 1.
Il mio amore per l’architettura nasce dalla convinzione che essa abbia il potere di fare tutto questo.
Non c’è nulla di più entusiasmante che dare forma ai propri pensieri e alle proprie fantasie progettando qualcosa che le possa contenere: l’architettura.
Se l’architettura trova la sua consistenza e la sua staticità nella forma, essa prende vita nel vuoto che questa forma contiene. Il vuoto immaginato e costruito diventa uno spazio carico, la cui immaterialità si concretizza nelle tensioni, nelle vibrazioni e nelle relazioni che si creano al suo interno.
Il vuoto contenuto dalla materia si fa contenitore di vita: il vuoto si fa presenza. Una presenza che viene percepita in relazione al fluire del tempo accompagnato al fluire del movimento, dello sguardo, del pensiero. Una presenza che viene sentita, misurata, distillata.
L’architettura è vuoto e pieno che si generano l’un l’altro, è contemporaneamente lo spazio e il volume che lo contiene, la distanza tra le cose e le cose stesse. E’ contemporaneamente spazio e tempo, un’unità che il concetto giapponese del ma pone a principio di tutte le cose.
A me piace pensare che l’architettura sia questa unità, e per questo debba sempre incondizionatamente porsi il nobile obiettivo di tendere ad essa.
In Giappone tutte le cose dipendono sempre dal ma. L’arte del combattimento, l’architettura, la musica, l’arte stessa di vivere, l’estetica, il senso delle proporzioni, la disposizione delle piante in un giardino dipendono sempre da un insieme di significati collegati tra loro e risultanti dal ma (…) Dietro ogni cosa esiste il ma, lo spazio indefinibile che è come l’accordo musicale di ogni cosa, l’intervallo giusto e la sua migliore risonanza2.
Se il ma viene definito in termini spaziali come la distanza naturale tra due o più cose che si trovano in continuità, e in termini temporali come la pausa naturale, l’intervallo tra due o più fenomeni che si succedono in continuità, mi è inevitabile pensare alla contaminazione a cui l’architettura e la musica sono soggette nel loro processo espressivo, dal momento che modellano la stessa materia: il vuoto e il pieno la prima, il silenzio e il suono la seconda.
Ho sempre pensato che la contaminazione di queste due discipline potesse dare origine a qualcosa di puro e mistico, e che nessuno meglio di Kengo Kuma potesse raggiungerlo. L’architetto giapponese, nel suo Padiglione del Tè, spingendosi oltre i confini dell’architettura e facendo propri gli strumenti della musica, celebra la sublime unione tra queste due arti in quello che Rothko definisce lo spazio del silenzio: “Lo spazio del silenzio è luogo del pensiero. Lo spazio del silenzio è luogo dell’emozione”.
Se il vuoto in musica è l’intervallo tra due note, il silenzio necessario alla loro esistenza; il vuoto in architettura è la distanza tra due elementi, lo spazio necessario affinchè ogni singola forma viva del proprio respiro e dell’eco dell’altra, il luogo sacro dove ascoltare il nostro respiro e l’eco dei nostri pensieri.
Sì, “al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto”, perché scolpendo il vuoto scolpiamo tutto ciò che al suo interno prende vita: scolpiamo i suoni e i silenzi che lo attraversano, le emozioni che lo investono, le relazioni che lo abitano, i pensieri che lo contemplano.
E’ l’esperienza del vuoto che fa di esso una presenza. Ed è nella costruzione di quel vuoto che l’architettura si fa poesia.
1 Parafrasando Adolf Loos in Il vuoto, riflessioni sullo spazio in architettura, di Fernando Espuelas
2 Michael Random, Giappone, la strategia dell’invisibile

Lisa De Chirico

www.lisadechirico.it

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Maturità artistica presso il Liceo Artistico Statale di Treviso e laurea in Architettura presso lo IUAV di Venezia. In ambito lavorativo mi occupo di progettazione architettonica e grafica, interior design e architettura del paesaggio. La mia trasversale passione per il mondo della creatività nelle sue diverse forme, dall’arte all’architettura, dalla scrittura alla fotografia, risponde ad una necessità di espressione che attinge ai diversi strumenti che questa dimensione mi offre. Un segno tracciato su un foglio, il progetto di uno spazio, l’illustrazione di un concetto, un frammento di realtà rubato da uno scatto, sono l’espressione di una ricerca continua che trova nella filosofia, nella letteratura e nella musica il suo punto di partenza.

Ogni mia espressione è una condensazione di ciò che sono, di ciò che vivo e immagino; dove ciò che viene definito arte, architettura, fotografia e scrittura, perde i propri limiti e si mescola.

[Immagine copertina: Padiglione del tè di Kengo Kuma; Immagine articolo: Installazione di Richard Serra]