Giordano Bruno e la metafora dell’asino

Prigionieri del ritmo incalzante della vita, quante volte lasciamo che fatti ed eventi che dovrebbero esigere la nostra attenzione passino inosservati o ci lascino indifferenti? Probabilmente non ce ne accorgiamo perché ci siamo assuefatti al modus vivendi dell’inerzia mentale: non vogliamo perdere tempo e allora scegliamo di non voler sapere e ci accomodiamo nello stato della “beata ignoranza”. Forse lo facciamo per una questione di quieto vivere o forse perché abbiamo bisogno di anestetizzarci emotivamente, dal momento che la vita già “ci regala” preoccupazioni in abbondanza.

Il filosofo nolano Giordano Bruno, nella Cabala del Cavallo Pegaseo (1585), definiva questa forma di ignoranza «asinità di semplice negazione», ritenendo che sia propria di coloro «che non sanno, non presumono di sapere» e nondimeno vogliono sapere (cfr. G. Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico, 1985)

L’asinità di semplice negazione è una sorta di moderno analfabetismo di ritorno, da cui ciascuno di noi può essere affetto quando, pur essendo in grado di comprendere, valutare e agire scientemente, per pigrizia intellettuale o per non affaccendarci in problemi che crediamo non ci riguardano, disconnettiamo la ragione e da animali pensanti regrediamo allo stato di asini insipienti, «che tutte le facoltà dell’anima uniscono nella sola capacità di ascoltare e credere» (ibidem).
Così ci disabituiamo a pensare autonomamente e diventiamo bisognosi di una guida spirituale o di un leader carismatico che pensa e decide per noi. Deleghiamo la nostra libera facoltà di ragionare e di agire a delle autorità che ci sovrastano, alle quali, come asini consenzienti, crediamo e obbediamo.
Quante volte ci siamo fatti abbindolare dalle cangianti tendenze della moda, dalla legge del mercato o dagli influencer del momento, che ci instillano gusti che non sono i nostri e bisogni che non abbiamo? E noi, similmente a marionette, mettiamo nelle mani altrui il senso e la direzione della nostra vita, perché non abbiamo elaborato un pensiero nostro, non sappiamo cosa vogliamo, cosa sia giusto o vero, perché, in realtà, non ci soffermiamo a guardare dentro noi stessi, dal momento che farlo costa fatica e coraggio.

L’asinità ha anche il volto della presunzione. Lo sapeva bene Bruno che aveva dovuto scontrarsi con i dogmatici saccenti del suo tempo, che aveva etichettato come «asini per cattiva disposizione». I saccenti, ingabbiati nei “paraocchi mentali” di una dottrina, presumono di essere i depositari dell’unica e incontestabile verità e dunque di non avere più nulla da imparare. E, ostentando un’intransigente quanto sterile superiorità intellettuale, si sentono autorizzati ad avversare, perseguitare e condannare chi è portatore di opinioni differenti dalle proprie.

Bruno aveva coraggiosamente affrontato anche la stolta follia degli «asini per divina acquisizione», gli ignoranti per fanatismo religioso, i suoi carnefici. Il fanatismo religioso non solo riduce la capacità di pensare allo stato di quiescenza, ma inebetisce finanche la coscienza morale. Per cieca fedeltà, il fanatico religioso obbedisce acriticamente all’autorità divinizzata di un leader (politico o religioso) anche quando gli ordina di violare la dignità altrui, trucidare e condannare a morte il cosiddetto nemico, che ha commesso il “reato” di pensarla in modo diverso o che ha manifestato apertamente il suo dissenso.

Ogni giorno i telegiornali ci sbattono in faccia fatti di insensata brutalità, perpetrati dagli uomini contro l’umanità tutta, in nome di un Dio che dice sante le guerre e meritevoli del paradiso gli assassini autorizzati per fede, o a causa di un despota che dispone della legge e della giustizia arbitrariamente. E noi? Non possiamo stare a guardare con un atteggiamento di imperturbabile irresponsabilità. La denuncia di Bruno va oltre il suo tempo e continua a condannare l’asinità che ancora oggi ha il volto negativo dell’arroganza e della stoltezza, dell’inoperosità e dell’indolenza. Ogni qualvolta deleghiamo o lasciamo correre, rinneghiamo la nostra natura di animali pensanti e ci imbestiamo, e, a causa dell’ottusità, diventiamo responsabili così che ricadono su di noi quelle colpe per i mali del mondo che accolliamo agli altri.

Bruno, però, individua anche un’asinità positiva, un antidoto contro quella insana e folle: l’asinità sensata. Quest’ultima, a differenza dell’altra, ha il volto dell’umiltà, perché è constatazione che siamo fallibili e non onniscienti, che rispetto alla verità siamo sempre mancanti, che c’è sempre da imparare. L’asinità sensata è inquieta, non sta comoda nello stato di mancanza, anzi è esortazione costante alla ricerca, impegno quotidiano alla riflessione per l’azione, apertura al dialogo e al confronto. È quel saper di non sapere che allerta la ragione e la coscienza morale a essere vigili, a non perdere di vista i fini, a prestare attenzione a ciò che accade e a farsene carico responsabilmente. È quel bisogno di interrogare per comprendere che ci salva da ogni errore e conflittualità.

Finché rimarremo connessi con la nostra ragione, rimarremo connessi con la nostra umanità, la sapremo esprimere al meglio e faremo del nostro mondo un posto migliore.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit hay s via Unsplash]

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Nulla da vedere nell’arte contemporanea? Basta riflettere

Chi ha un minimo di confidenza con l’arte contemporanea sa che, a differenza delle precedenti, in molti casi essa ci presenta gli stessi oggetti della vita di tutti i giorni: il caso principe è l’orinatoio che Marcel Duchamp espose nel 1917 ad una mostra d’arte a New York. A questo primo episodio ne seguirono molti altri, tanto che oggi è forse più comune vedere alle mostre opere “fatte di” oggetti banali che non dipinti e sculture: certo, l’arte ha in questo secolo calcato diversi sentieri, si sono adoperati neon, animali impagliati, addirittura ora si utilizzano file digitali come opere. Tuttavia la Fontana di Duchamp è un evento paradigmatico poiché rappresenta l’inizio dell’irruzione del quotidiano nell’arte: e ciò è stato ed è genuinamente spiazzante. Il senso comune infatti dice che le opere d’arte sono cose ben diverse dagli oggetti normali, poiché, generalmente, belle ad un livello speciale.

Il problema con la bellezza, è che essa è un valore che, come tutti i valori, è riconosciuta per certe qualità solamente da coloro che credono che quelle qualità la esprimano: non ne esiste un’idea condivisa da tutte le culture, né da tutte le società e gli individui. Chi pensa che qualcosa sia bello lo fa sempre per dei preconcetti che ha riguardo alla bellezza stessa. Qualcuno può dire che bello è ciò che dimostra in tutte le proprie parti una proporzione perfetta, chi invece crederà che alla bellezza serva un minimo di disarmonia per vivacizzarla, chi pensa che certi colori stiano bene assieme perché gli danno una sensazione positiva, e chi il contrario: tutti questi giudicheranno bello soltanto quell’oggetto che possono pensare secondo i loro parametri.

Infatti, in ognuno di questi casi, prima del giudizio si ha un’associazione di idee, il che è sostanzialmente un tipo di pensiero: anche nel caso dei colori, chi li trova belli connette la sensazione di piacere che ha con altre simili, alle quali ha imparato ad associare un evento positivo. L’idea è che un quadro lo “faccia sentire come”, e che perciò sia bello. Si risponde secondo dei presupposti: il problema è che pure questi presupposti possono a loro volta essere relativi. La bellezza infatti non è l’unico valore che risente di una tale situazione: le idee di proporzione, armonia, disarmonia, positività, piacere sono a loro volta suscettibili di condizionamento da parte di memoria, esperienza, cultura e storia. Anche l’espressività e il trovare qualcosa espressivo, fattori solitamente associati con l’arte, sono sia dipendenti dai, che varianti nei, vari contesti in cui il giudizio viene espresso.

Per cui non si può effettivamente pensare che l’opera d’arte – se si vuole che sia tale per tutti coloro che la potrebbero guardare (conditio sine qua non di una buona definizione della realtà) – si possa basare su qualche caratteristica specifica. Altrimenti, per qualcuno qualcosa sarebbe arte, per qualcun altro no. Ciò che permane, sicuramente, è che quando un oggetto è esposto al pubblico, come in un museo o in una galleria, le persone saranno portate a giudicarlo: si potrà dire che è bello o brutto, espressivo o inespressivo, che presenta certe qualità o non lo fa, ad un livello sufficiente o no. Di sicuro, quando mostrato, l’oggetto riceverà un giudizio, anche rispetto alla sua artisticità, giacchè affibbiargli o no le caratteristiche che, secondo chi lo fa, lo denotano come un’opera d’arte, significa infine giudicarlo “arte”.

Dunque, quello che le opere d’arte fanno è sempre stimolare un giudizio, cioè far associare delle premesse con altre idee. L’intuizione di Duchamp fu quella per cui, se un’opera non può essere razionalmente caratterizzata, ma tutto ciò che possiamo dire è che ci fa pensare, allora ogni cosa può mettere in moto la mente umana, dato che su tutti gli oggetti noi possiamo formulare pensieri: anzi, vien da chiedersi, che cosa più di un orinatoio in una galleria d’arte può dar modo di riflettere? Vedendolo, infatti, si potrà pensare che non è arte, che però qualcuno ha pensato che lo fosse, o non sarebbe stato esposto, che se è arte allora la bellezza non c’entra nulla con l’arte, e che questo è controintuitivo ecc. Inoltre, si potrebbe pensare anche che ci sono opere d’arte che non sono “belle” ma espressive (si pensi a Munch), ma che tuttavia anche l’espressività è relativa, perché in un contesto un gesto può essere considerato espressivo mentre in un altro per nulla…

Si potrà pensare che arte (considerata qui come arte visiva, solco in cui si mosse l’ex pittore Duchamp) è solo ciò che rappresenta qualcosa: ma allora l’astrattismo? Che fare arte significa dipingere o scolpire, produrre qualcosa: ma perché farlo, se non devo avere particolari qualità? In breve, si rifarà il ragionamento che ci ha condotti sin qui, e tutti quelli che hanno portato gli uomini nei secoli a fare arte in un certo modo ed altri ad accettarla come tale, per capire cosa diavolo ci faccia un orinatoio in museo.

 

Simone Costantini

Simone Costantini ha studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, focalizzandosi sulla contemporaneità perché ama essere sempre a conoscenza degli ultimi fatti del pensiero e dell’attività umana, e per personale predisposizione. La considerevole quantità di ragionamento dietro alle opere d’arte contemporanea e al loro studio ben si sposa con la sua passione per la filosofia, sorta al liceo, che ha poi felicemente portato avanti per comprendere sempre meglio il suo nuovo oggetto d’interesse. Alterna, così, il girovagare tra chiese, musei e mostre alla lettura e alla riflessione.

 

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Libertà e linguaggio in 1984 di Orwell

Molti di noi conosceranno l’opera di George Orwell 1984: il romanzo distopico che narra un futuro governato dal Grande Fratello, figura totalitaria che controlla e conosce il mondo circostante e i suoi abitanti. In questa realtà gli uomini non hanno facoltà né di agire, né di pensare; ogni idea contraria al Partito, la forma di governo dominante, viene definito “psicoreato” ed è punito con la morte. Persino il linguaggio, fonte inesauribile di varietà e ricchezza, è stato sottoposto a revisione, allo scopo di impoverirlo sempre di più, creandone uno nuovo: la “neolingua”, contrapposto a quello standard “l’archelingua”.

«Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole» (G. Orwell, 1984, 2015).

In sostanza il linguaggio, nel futuro 1984 di Orwell, è ridotto all’osso, in quanto se non esistono nemmeno gli strumenti e la capacità di esprimere un’idea contraria al Partito, con il tempo si esaurirà anche la possibilità di pensarla. Interessante, partendo da questa considerazione, come il nostro autore dia una consistente importanza al potere della parola, il cui esercizio stimola la riflessione, aiuta la creazione di opinioni contrarie e di pensieri indipendenti.
Ecco dunque che, in un ipotetico distopico 1984, la conoscenza del linguaggio standard, il suo studio e la sua lettura, possono essere una minaccia per un regime totalitario che non vuole lasciare nulla al prossimo, ma mira a controllare qualsiasi cosa.

Afferma Winston, il protagonista di 1984, nella sezione conclusiva del romanzo:

«In effetti, ciò che distingueva la neolingua da tutte le altre lingue esistenti, era il fatto che ogni anno, anziché ampliarsi, il suo lessico si restringeva. Ogni riduzione era considerata un successo perché, più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare» (ibidem).

Anche se il linguaggio sembrerebbe un fattore esteriore nell’esercizio del pensiero, un mezzo più che una sostanza, Orwell ci dimostra che non è così, in quanto la proprietà di parola conduce necessariamente ad allenare la capacità di espressione delle proprie idee e di sostegno delle proprie tesi. Si pensi a questo proposito all’importanza che il linguaggio ricopre nell’antichità romana: Cicerone affermava nel De Oratore che nulla fosse più importante di intrattenere le menti degli uomini con la capacità di parlare, elemento che fu sempre fiorente «in ogni popolazione libera e nelle società pacate e tranquille»1. Ne deriva che il tentativo di ridurre questa capacità attraverso il controllo della lingua, è alla base di un regime dispotico.

A ciò si aggiunge un altro elemento importante, che Orwell mette in luce nelle ultime battute del suo romanzo: cambiare la lingua in un’altra versione più povera implica l’allontanamento del popolo dalla letteratura del passato, in quanto con il passare del tempo i testi risulterebbero sempre più incomprensibili alla maggior parte delle persone.

«Soppiantata una volta e per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame con il passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta, ma qui e là ancora sopravvivevano frammenti della letteratura  trascorsa, e finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell’archelingua era possibile leggerli» (G. Orwell, 1984, 2015).

Ecco dunque che la revisione del linguaggio permetterebbe il controllo di tutta la letteratura e la sua inacessibilità nel futuro. Ciò implicherebbe l’esclusione automatica di tutto il patrimonio culturale e letterario conservato per secoli.

Traendo le conclusioni dalle riflessioni di Orwell si può soltanto ribadire l’estrema necessità e urgenza della lettura, della conservazione della ricchezza del linguaggio e dell’esercizio della parola. Tutto ciò da un lato è necessario per conservare la memoria del passato e stimolare il pensiero, dall’altro per mantenere la possibilità di esprimere opinioni e idee che sostengano le proprie tesi e permettano, qualora lo si voglia, di prevalere verbalmente sull’altro.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. Cicerone, De Oratore, 1, 30-31: «haec una res in omni libero populo maximeque in pacatis tranquillisque civitatibus».

[immagine tratta da Unsplash]

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Il pensiero è una forma d’azione: Arendt e l’attualità

Quanto è rilevante, oggi, provare a fare filosofia riflettendo criticamente e creativamente sul mondo che ci circonda? Quanto è importante dialogare con autori del passato, rintracciando nei loro discorsi rimedi utili per affrontare il presente?

In un’epoca difficile e precaria come quella che sta avvolgendo le nostre vite in questo periodo pandemico, credo sia stimolante ed interessante provare a riflettere su quella che Hannah Arendt (1906-1975), illustre filosofa e politologa tedesca naturalizzata statunitense dopo diversi anni vissuti da apolide, definisce crisi dell’agire politico. L’agire politico, e dunque l’azione, rappresenta un nucleo fondamentale nel pensiero arendtitano. Pensiero che non si traduce mai in pura e astratta contemplazione, bensì è intriso di concretezza nella misura in cui s’interroga criticamente sul presente e su problemi che riguardano tutti e che ci invitano a prendere posizione. Un presente di cui Arendt cerca di mettere in luce le brutture, i vicoli che sembrano ciechi ma che, in realtà, non sono altro che nodi di esistenza che possono essere sciolti attraverso l’ascolto ed il dialogo. Arendt, qualche decennio fa, parlava già di come la politica fosse progressivamente divenuta un potere dominato da logiche strategiche e di potere e di come mancasse una vera e propria partecipazione dei cittadini alle vicende concernenti la vita pubblica. Forse, ciò che rappresenta meglio la nostra epoca è questo. Un governo senza politica. Per Arendt, infatti, politica significa agire, prendere posizione attraverso la parola e il discorso mostrandosi agli altri nella nostra «irriducibile ed irripetibile singolarità ed unicità»1.

Nella polis, infatti, realtà pre-filosofica e pre-platonica formatasi tra il VII-V secolo a.C. ad Atene, i cittadini ateniesi liberi che avevano compiuto la maggiore età si riunivano al fine di discutere di affari della vita pubblica. Credo che a questo punto emerga una questione rilevante: al giorno d’oggi capita mai di trovare tempo e spazi per riflettere su tali temi? In che modo, oggi, facciamo politica? Credo che in molti lettori delle nuove generazioni potrebbero rispondere che i social network, effettivamente, sono divenuti mezzi attraverso cui  intavolare un dibattito. Eppure io credo che essi siano mezzi più d’espressione che di discussione, intesa come avveniva nella polis, in cui ci si disponeva in maniera circolare al fine che nessuno dei presenti fosse escluso. La polis è un esempio di realtà in cui il pensiero, la discussione, la facoltà del logos intesa come parola, discorso diviene creatrice di qualcosa. Come dice Arendt, «l’azione è un memento che gli uomini non sono nati per morire, ma per dare inizio a qualcosa di nuovo»2. Noi esseri umani, infatti, siamo inizi e iniziatori; le nostre parole, le nostre gesta hanno la possibilità di cambiare situazioni ed il normale incedere degli eventi. Il pensiero non è né una speculazione fine a sé stessa, né un ragionamento astruso, bensì l’attitudine a discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, la facoltà di riflettere sul mondo circostante e lasciare che la realtà stessa ci doni nuovi sentieri da percorrere. Attraverso l’azione del pensare diamo forma a teorie e concetti, ma al contempo lavoriamo su noi stessi, ci guardiamo dentro ponendoci sempre in dialogo critico ed aperto col mondo esterno.

Questo è, per Arendt, fare politica. Una politica che ci coinvolge, una politica di tutti senza lasciare indietro nessuno. Una politica di discussione, dibattito, una politica che fa crescere alimentando la volontà di essere sempre più protagonisti della realtà uscendo da quell’atteggiamento tranquillizzato, come Arendt lo definisce, tipico di una modernità sterile, rinchiusa in un bocciolo solipsistico annaffiato soltanto da indifferenza. Tale atteggiamento è tipico di quella che Arendt definisce la “società degli impiegati”, descrivendo la nostra società come passiva, attonita, grigia, composta da animal laborans dediti al lavoro e non più da zoon politikon, inteso come singolarità che entrano in contatto tra loro, creano legami e scoprono chi sono proprio nel momento in cui si espongono, prendono posizione mettendo in luce la pluralità delle loro differenze, nonostante riconoscano di essere parte di un Tutto che li accomuna, ma che non appiattisce tali differenze.

 

Elena Alberti

 

Sono Elena Alberti, sono nata a Brescia ma per motivi sportivi e di studio mi sono trasferita in provincia di Verona, dove sono studentessa di filosofia, che rappresenta la mia più grande passione insieme all’arte, la poesia e la letteratura.

 

NOTE:
1. Cfr. S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, 2003
2. Cfr. H. Arendt, Vita Activa, 1958

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Una citazione per voi: Blaise Pascal e la canna pensante

 

• L’UOMO È UNA CANNA PENSANTE •

 

La definizione di uomo offerta da Pascal si inserisce in questo passaggio tratto da i suoi Pensieri:

«L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale».

Questa è una delle frasi, la più famosa, che Blaise Pascal (1623-1662) ci consegnò verso il termine della sua esistenza, conclusasi a soli 39 anni. Vissuto nella Francia del XVII secolo, in un arco di tempo così breve riuscì a esprimere il suo genio lasciando al mondo opere sia scientifiche che filosofico-teologiche.

Precocemente orfano di madre, fu istruito dal padre che poté coltivare il fenomenale talento del figlio, soprattutto per la matematica e le scienze in generale. Pubblicò la sua prima opera a 19 anni, ne seguirono molte altre, nonostante i frequenti problemi di salute che lo portarono alla morte precoce nel 1962. La sua ultima opera, della quale possediamo gli scritti originali, fu pubblicata postuma poiché non riuscì a terminarla. Per questo, tutti i suoi appunti furono organizzati e pubblicati con il nome di Pensieri, invece che con un titolo che rendesse l’idea del progetto finito, cioè quella di scrivere un’apologia del cristianesimo.

In questa meravigliosa raccolta troviamo le vette del pensiero filosofico e teologico che Pascal raggiunse consapevole che la malattia lo stava per sottrarre al mondo. La sua riflessione si muove tra ragione e sentimento, nell’ottica di persuadere i lettori alla ricerca sotto scorta della fede come unica forma sensata del vivere umano. È proprio la ricerca di senso che muove gli esseri umani, i quali, nonostante non siano altro che canne, sono delle canne pensanti, il che li rende gli esseri più dignitosi proprio davanti la morte. Infatti, l’universo un giorno ci inghiottirà, ma esso non saprà nulla di tutto ciò, mentre noi, pur soccombendo, sapremo di essere annientati. Il paradosso della nostra forza è anche la nostra debolezza, e viceversa. La coscienza, insomma, racchiude tutta la dignità umana, qualcosa di unico e speciale che per Pascal va devoluto alla ricerca ponderata, tra ragione e sentimento, della via verso Dio. Ferma è da parte sua la condanna della vita dedita ai divertimenti e alla vanità («non nella durata e nello spazio che non sapremmo riempire»), tutti moti di inutile irrequietezza, che ci distraggono dalla statica postura che si addice a una vita appartata, nel silenzio e nello studio. Le distrazioni ci impediscono di vedere esposta la nostra fragilità, ma anche di dare degno svolgimento a quella facoltà così unica che solo gli umani detengono.

Così, questo paradossale binomio “fragilità-pensiero” si condensa dentro l’immagine della canna pensante, che, povera, tende a fluttuare ad ogni colpo di vento, quando invece dovrebbe sforzarsi di resistere al divenire per fissarsi umilmente sulla sua precaria singolarità, pensando a Dio e alla promessa di salvezza, in conscia attesa della falce che la mieterà.

 

Pamela Boldrin

 

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Pensiero laterale: perché applicarlo alla quotidianità

Non sempre per la risoluzione di una problematica è vantaggioso insistere sulla medesima soluzione. È più probabile che quella determinata situazione richieda un cambiamento di prospettiva; quello stesso movimento che Socrate auspicava per i suoi concittadini. È questa prospettiva alternativa ciò che Edward De Bono definì nel 1967 come pensiero laterale. Il concetto alla base del pensiero laterale è proprio l’idea secondo cui, per ciascun problema, sia sempre possibile individuare diverse soluzioni; alcune di queste emergono solo nel momento in cui si esuli da ciò che inizialmente appariva come l’unico percorso possibile e si inizi a cercare elementi, intuizioni e spunti fuori dal dominio di conoscenze secolari e dalla rigida catena logica. 

Nel corso dell’esistenza ogni essere umano si è trovato almeno una volta in un momento di crisi. Questo provoca solitamente un circolo vizioso dovuto a un pensiero statico, ripetitivo, capace di vedere e affrontare la situazione da un unico punto di vista. Per lo psicologo maltese De Bono, è possibile imparare a pensare in modo diverso per evitare questi loop, proprio attraverso la capacità umana del pensiero laterale. Il pensiero laterale, di natura intuitiva, è differente rispetto a quello verticale, ovvero a quella tipologia di pensiero logica e consequenziale, da sempre l’unica degna di considerazione. A volte quest’ultimo ci ingabbia e non ci permette di guardare oltre la nostra visuale, interagendo in modi differenti con la realtà.
Il pensiero laterale vede con favore il volersi sottoporre a una grande quantità di stimoli. Infatti, invece di lasciare che una sola idea faccia capolino nella propria mente, l’intrecciare molti concetti ed idee eterogenei, sviluppati magari in momenti differenti, può portare allo sviluppo di idee straordinarie. Ciò richiede una ferma volontà di non escludere alcuna sfaccettatura, perché nulla è davvero fonte di disturbo. Spesso questo incrocio di binari, o l’uso arbitrario di essi, permette scoperte e sviluppi del tutto inaspettati. Come scrive De Bono: «l’ideale, per l’intelletto umano, sarebbe di diventare una casa ospitale dove ogni apporto informativo è ben accolto e possano entrare non soltanto gli ospiti invitati o interessanti, ma anche il forestiero di passaggio e l’intruso» (E. De Bono, Il pensiero laterale, 2016).

A differenza del pensiero logico, quello laterale accetta di brancolare nel buio. Accetta il caos e il non ancora definito. Lo fa in quanto esso è lo spazio in cui per eccellenza brulicano le idee e, quindi, dove risulta più facile che emerga qualcosa di nuovo. 
Qui sta la pars costruens del pensiero laterale. Esso, a differenza di quello logico, non si limita a schemi rigidamente accettati, esso aspira a nuove idee. Idee più semplici e più efficaci che si inseriscono in un orizzonte diverso, in un  nuovo ordine, migliore rispetto al precedente. Basti pensare a chi, nonostante abbia risolto un problema in modo soddisfacente, continua a sentire uno stimolo a tentare nuove strade.
Di certo il pensiero laterale si scontra con la realtà. Ovvero, una volta concepita una nuova idea, non è facile individuare chi la metta in pratica. È sotto gli occhi di tutti come il concepimento di una nuova idea sia spesso molto più entusiasmante della sua realizzazione pratica. Solitamente, l’interesse se lo accaparrano quelle idee che mostrano in se stesse l’utile che è possibile ricavare, la loro valenza pratica.
Le idee nuove, tuttavia, rischiano di andare incontro ad una prova falsata proprio perché sono nuove. Lo spirito di conservazione rende difficile staccarsi dal passato. Si è riluttanti a dar credito a nuove idee. 

La pratica di nutrire nuove idee viene solitamente riservata ai ricercatori, quasi fosse parte integrante solamente del loro lavoro. Ciò giustifica tutti gli altri a non interessarsene, a non educare la propria mente al pensiero laterale. Ma esso è utile a tutti. A tutti coloro che necessitano di idee nuove, anche nelle piccole situazioni di vita quotidiana. Tutti possono acquisire una mentalità laterale ed essa richiede pratica: non ha delle ricette o delle tecniche specifiche di applicazione, richiede piuttosto una forma mentis, non di immediata acquisizione. È infatti faticoso abbandonare una determinata impostazione per un nuovo ordine, che scardini la prima. Chi applica una mentalità laterale si occupa di cercare nuove correlazioni tra gli elementi del problema, nutrendo così uno sguardo totalmente nuovo.

La nostra contemporaneità, come le singole esistenze, ha bisogno di persone che accolgano ed allenino questa forma mentis, che non si accontentino di soluzioni prefabbricate ma lascino vagare il proprio intelletto finché non approda su isole inaspettatamente vicine e fertili.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Dollar Gill via Unsplash]

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Una citazione per voi: Hegel e la razionalità del reale

 

• CIÒ CHE È RAZIONALE È REALE, E CIÒ CHE È REALE È RAZIONALE •

 

È una delle affermazioni più riportate e citate del filosofo George Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), massimo esponente dell’idealismo tedesco del XIX secolo.

Tale asserzione, principio fondamentale del pensiero hegeliano, è posta dall’autore tedesco nella Prefazione all’opera Lineamenti di filosofia del diritto (1820), che costituisce una sorta di summa del pensiero etico-politico dello stesso Hegel.

Questa celebre, quanto arcana, affermazione rimanda alla convinzione hegeliana che tutto ciò che è (il reale) è ragione realizzata (razionalità per l’appunto). Ciò che è avvenuto e quanto accade è giusto che sia avvenuto e che, in qualche modo, accada. Per comprendere meglio il significato di tale espressione può essere utile servirci di un esempio storico coevo allo stesso Hegel. L’iniziale trionfo di Napoleone in Europa e il suo dominio su diversi popoli e territori stanno a significare che tale era il disegno dello spirito del mondo (Weltgeist) nel suo svolgersi progressivo: quanto accaduto è avvenuto in quanto razionale. Tale è il piano di sviluppo storico. Diversamente, ciò che nella storia non si realizza è dovuto al fatto che è privo di razionalità.

Consapevole delle controversie alle quali può dar adito una simile affermazione, Hegel ne precisa il contenuto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830). Qui, l’autore specifica che per realtà (Realität) non è da intendersi il mero accadere, bensì quei grandi e significativi eventi che hanno segnato in maniera indelebile il passo della storia. Per questo il filosofo tedesco invita a distinguere fra eventi effettuali (Wirklichkeit) – per esempio fatti privati e insignificanti per la storia – da eventi forti e intrisi di ragione capaci di modificare il corso della storia, come per esempio gli eventi legati alla figura di Napoleone.

Con la consapevolezza di non poter compendiare un’asserzione densa di significati e implicazioni logiche e filosofiche particolarmente complesse in così poco spazio, è possibile sostenere, sinteticamente, che l’intento hegeliano è quello di evidenziare l’identità fra ragione (o pensiero) e realtà. Ciò che è razionale non è affatto un concetto astratto ma si attua nella realtà concreta e in essa è riscontrabile. Al contempo, l’esistente è espressione della ragione: nella realtà ogni evento segue un ordine razionale e rispecchia una struttura di pensiero. Quanto avviene è razionale, naturale e giusto. Da questo consegue la missione della filosofia, paragonata metaforicamente da Hegel alla civetta di Minerva che si leva sul far del crepuscolo, al tramonto di una stagione, ad eventi accaduti, per giustificarne la razionalità. Tale è l’esito, certamente discutibile e pertanto ancor oggi fonte di considerazione e stimolo di riflessione, della celebre asserzione hegeliana.

 

Alessandro Tonon

 

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La filosofia è morta. Viva la filosofia

«Chi si vuole sotterrare nella polvere dell’antichità, quando il corso del suo tempo ad ogni istante lo avvolge e con sé lo trascina?».

Questo scriveva un giovane Schelling all’ex compagno di studi Hegel. I due filosofi, insieme con il poeta Hölderlin, avevano condiviso il percorso di studi presso lo Stift, il seminario protestante dell’Università di Tubinga, dal 1788 al 1793. Il corsivo è dello stesso Schelling: il suo tempo. L’autore vuole far cadere l’attenzione dei lettori sul tempo in cui loro stessi vivono, con il quale possono (e devono) confrontarsi.

Nell’elaborazione del proprio sistema filosofico – da alcuni concepito come una sorta di ideal-realismo – Schelling non lascia spazio alla storia, concentrando il proprio interesse al rimando di ogni determinazione molteplice all’unità dell’Assoluto. Ma sarebbe errato concepire la citazione iniziale come una negazione dell’importanza del passato. La frase infatti prosegue così: «Vivo e mi muovo al presente nella filosofia».

Questa citazione può fornire un punto di partenza per alcuni interrogativi, proprio riguardanti il presente e il significato di fare filosofia oggi. Una possibile concezione, alla luce delle citazioni di Schelling, è quella di una filosofia viva, in grado di volgere il proprio sguardo in avanti, confrontandosi con il mondo e cercando di dare risposte ai problemi dell’uomo nella contemporaneità. Una Filosofia, in altri termini, non limitata a una filologia fine a se stessa. Una Filosofia che, utilizzando le categorie fornite dai pensatori del passato, si superi continuamente. Un movimento incessante che segue il divenire del mondo nel suo modificarsi e si adatta alle sue pieghe. Questo, nell’epoca della cosiddetta post-verità, non deve però tradursi in un’impossibilità conoscitiva, in un relativismo distruttivo, che nega ogni acquisizione del pensiero umano.

Dicevamo, alcune domande sull’oggi: la Filosofia accademica, in Italia, si muove «al presente»? Oppure ha fissato il proprio sguardo verso ciò che è passato? La risposta definitiva, a una questione di portata tale da investire lo statuto stesso della filosofia, potrebbe non essere mai trovata. Limitiamoci a qualche spunto di riflessione. Consideriamo i tre migliori «mega atenei italiani» (oltre 40.000 immatricolazioni) secondo la Classifica Censis 2019/20, ovvero Bologna, Padova e Firenze (link alla Classifica Censis). I piani di studio della Laurea Triennale in Filosofia sono accomunati da due fattori: massiccia presenza di insegnamenti afferenti al settore disciplinare storico e, per la quasi totalità degli insegnamenti, didattica frontale.

E ancora: quale impatto ha oggi la Filosofia sulla società? È ancora in grado di apportarvi cambiamenti? Come viene percepita dal pubblico non specialistico? Ha ancora un significato “essere filosofi” oggi? Domande che, qui, rimarranno senza risposta. A una prima occhiata sembra che la Filosofia abbia abdicato a una delle proprie ragioni di vita, quella di indirizzare l’umanità verso un futuro migliore. E come potrebbe? I dati dell’Associazione Italiana Editori «rilevano che l’indice di lettura di libri colloca l’Italia nelle posizioni di coda del ranking internazionale»: leggiamo poco, troppo poco perché la filosofia venga considerata più di un vezzo elitario (link ai dati AIE).
Di fronte a questo panorama poco confortante, due sono state le reazioni, entrambe “estreme”. Da una parte, i filosofi si sono ritirati nelle torri d’avorio dei propri dipartimenti. L’esito è stato una ricerca tanto più parcellizzata quanto più inabile a fornire coordinate per orientarsi nel presente. Dall’altro lato, i “volti noti” della filosofia si sono rivelati niente più che opinionisti televisivi, politici o politicanti.

La serie di domande potrebbe continuare all’infinito, anche in senso contrappuntistico: per fare filosofia non è però necessario conoscere tutto il panorama della storia della filosofia precedente? Quale alternativa può mai esserci alle lezioni frontali nelle discipline umanistiche? Ma davvero facciamo filosofia per cambiare il mondo?

Non può essere che tutta la filosofia del passato si sia rivelata una cattedrale nel deserto. Ci sono luoghi, fisici e non, lontani dall’accademismo, che praticano una filosofia viva, attiva e fattiva. Una parte del mondo accademico ha (forse) rinunciato a quella legittima pretesa: che la filosofia sia in grado di elaborare visioni orientative in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Assumiamo questo come constatazione, come punto di partenza. Per fare cosa? Certo è che, per dirla nuovamente con Schelling, «qui c’è ancora parecchio da fare».

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
Le citazioni di Schelling sono tratte da G.W.F. Hegel, Epistolario, 1785-1808, p. 107, citato in Borghesi, Massimo, L’età dello spirito in Hegel, Roma: Edizioni Studium, 1995.

[Photo credit Giammarco Boscaro via Unsplash]

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