La bellezza del prestare attenzione

Perché dovresti stare qui e, come è scritto nel titolo, prestare attenzione? Senza nessun obbligo né biasimo, potresti benissimo interrompere qui la tua lettura, dimenticarti di queste parole in pochi minuti e andare avanti. Anche nella vita capita: spesso, ad ogni domanda a cui non si è in grado di rispondere in modo immediato, si risponde: “boh” e si va avanti. Quante volte siamo caduti in quei momenti di oziosa riflessione interrogandoci sulla nostra esistenza, o, scrollando su Instagram, ci siamo chiesti quanto ci fosse di vero e quanto di nascosto dietro agli apparenti attimi di vite perfette? Quante volte, usando un oggetto, ci siamo chiesti chi lo abbia inventato o da dove derivi il suo nome?

Qualcosa del genere è capitato a tutti, e di solito si reagisce così: si scrolla la testa, come per farsi scivolare la domanda giù dai capelli (per chi li ha) e si passa alla prossima frenetica attività tra le decine che occupano le nostre vite.
Eppure nasciamo pieni di domande, da bambini non si smette mai di chiedere, ci si meraviglia per ogni cosa perché tutto è nuovo, ma, man mano che si cresce, si smette di interrogare e interrogarsi. Arrivano le preoccupazioni, gli amici, il lavoro e in poco tempo, un “boh” per volta, ci si disabitua totalmente a farlo. 

Quindi ecco perché dovresti prestare attenzione: perché ogni volta che diciamo “boh”, ogni volta che ignoriamo la curiosità invece di coltivarla, una piccola parte di noi di spegne, si assopisce e alla fine si atrofizza.
Certamente è una soluzione facile; è facile perché abbiamo altro a cui pensare; perché, in un tentativo di scusa piuttosto goffo, riteniamo inutile pensare a quelle cose; o perché, più banalmente e semplicemente, non ne abbiamo voglia. Ecco, si può dire che il “boh” sia molto pratico come strumento: lascia in sospeso un problema finchè non evapora da sé

Arrivati a questo punto, ciò che ci può salvare non è che, per ironia della sorte, un’altra domanda: davvero ne vale la pena? Davvero sono disposto a rinunciare a interrogarmi, a scoprire, solo per ottenere in cambio un’apparente tranquillità, una mollezza priva di gusto che non fa altro che rendere la vita ogni giorno più grigia?
No ovviamente, bisognerebbe a questo punto gridare a gran voce, gettando via quel torpore! Il “boh” è facile, veloce, immediato; caratteristiche che nel nostro mondo sono viste come qualità, perché contribuiscono a rendere qualcosa più efficiente e funzionale, ma non fa altro che occultare, centimetro per centimetro, ciò che fin dall’antichità è considerato da alcuni come la massima espressione possibile di umanità, sebbene piuttosto faticosa da utilizzare correttamente: il pensiero. 

Solo attraverso il continuo pensare, l’interrogare il mondo, anziché subirlo passivamente, si può diventare persone più consapevoli, sempre investite da nuovi stimoli, si può provare a comprendere quel meraviglioso fenomeno che è la vita oltre al modo in cui appare; e sì, questo è enormemente complicato e a tratti scoraggiante, ma è l’unico modo che esista per essere veramente felici. 

E di questo messaggio, il quale più che una semplice riflessione è una vera e propria condotta di vita, si fa portavoce nientemeno che Platone, nella famosa Settima lettera. Qui egli parla di ciò che comporta la vera ricerca filosofica: afferma che la filosofia è sì questione di disposizione personale, ma soprattutto di impegno, di un lavoro continuo ed estremamente faticoso del pensiero, una salita che non risparmia neanche un singolo passo a chi decide di intraprenderla. E’ la strada più bella di tutte, ma anche la più difficile, che non ha scorciatoie, e chi vi si approccia tentando di trovarne si scoraggia, finendo per abbandonare la filosofia e riempirsi la bocca di opinioni poco ragionate e idee errate, ma più facili da ottenere, rinunciando quindi alla verità. 

Platone in questo testo sta parlando a Dionisio II, il tiranno di Siracusa, per saggiare il suo desiderio di conoscenza, che alla fine si rivela poco sincero. Mettendo da parte il caso specifico, il messaggio è chiaro: solo chi non si arrende davanti all’apparenza, chi è disposto a dedicare tempo ed energie a pensare a ciò che lo circonda, può praticare la filosofia, e quindi, per Platone, iniziare un cammino verso un’autentica felicità. Alla fine è questo il senso più profondo della filosofia: ci aiuta a capire in cosa siamo immersi tutti i giorni, ciò che ci circonda da sempre, ma che, per pigrizia, non abbiamo mai davvero osservato.

 

Alessandro Viotti
Dopo aver conseguito il diploma al liceo delle scienze umane, si è iscritto al corso di laurea in Filosofia, di cui sta frequentando il terzo anno. In particolare si interessa di filosofia antica, in merito alla quale sta scrivendo la sua tesi di laurea triennale, ma trova affascinante ogni branca di questa meravigliosa materia. Per qualche tempo si è dedicato alla divulgazione filosofica sui social, siccome ritiene che la filosofia possa davvero aiutare le persone a vivere meglio.

 

[Photo credit Kenny Eliason via Unsplash]

Ascoltare il proprio bisogno di pensare

Sentire la necessità e un vero e concreto bisogno di pensare, ai nostri giorni, potrebbe sembrare ai limiti dell’anacronismo. In un mondo che corre veloce e dentro il quale è facile percepire un senso di caos e smarrimento, desiderare di fermarsi a pensare suona quasi come un capriccio, una posa o un volersi sottrarre dall’attività, dal mondo produttivo, dallo scorrere del tempo ordinario. Ma facciamo un passo indietro: cosa significa pensare? Nel suo significato generico, che possiamo leggere come prima voce di un vocabolario, si tratta di esercitare l’attività del pensiero, cioè l’attività psichica per cui l’uomo acquista coscienza di sé e del mondo in cui vive. Ci aspetteremmo forse un significato maggiormente slegato dalla concretezza e più vicino a qualcosa di immateriale e privato, invece l’atto del pensare e il bisogno di pensare non è solamente legato alla nostra interiorità ma, a ben vedere, le sue implicazioni sono enormemente più vaste e ci consentono di abitare il mondo concreto con coscienza. 

Il momento o i momenti dedicati al pensiero – le ore, gli attimi che possiamo o desideriamo “regalare” a questo esercizio – lungi dall’essere slegati dalla realtà possono, al contrario, aiutarci a decifrare il quotidiano, il nostro tempo, ciò che sentiamo e ciò che amiamo. Allenare la nostra capacità di pensare, dare ascolto a quel bisogno profondo di fermarsi per riflettere e anche difendere questo bisogno non può far altro che migliorarci come esseri umani, perché è il pensiero e soprattutto lo sviluppo del pensiero critico a venirci in soccorso nei momenti di difficoltà, a farci porre un’attenzione particolare non solo a quello che vediamo intorno a noi ma anche a ciò che diciamo e facciamo nella vita di tutti i giorni. Se agire è il pensiero in atto e le nostre azioni sono il riflesso di quel pensare è di fondamentale importanza non mettere a tacere il nostro intimo bisogno di pensare, il desiderio che sentiamo di contemplare, di riflettere, di uscire momentaneamente dal mondo per rientrarci con una nuova difesa che è appunto composta dai nostri pensieri, unici, preziosi e che abbiamo avuto il coraggio di coltivare e veder crescere e svilupparsi. Ovviamente non tutti sentono nella stessa misura questo bisogno ma per quanto di diversa intensità il desiderio di pensare e l’atto stesso del pensare sono qualcosa che trascende l’età, il sesso, la provenienza geografica; è quella caratteristica che ci fa umani e questo lo rende affascinante e, allo stesso tempo (seppur in apparenza non tra i bisogni primari dell’uomo), proprio al vertice di un’immaginaria piramide di elementi non materiali eppure fondamentali per condurre un’esistenza consapevole.

Vito Mancuso, teologo e filosofo, ha intitolato proprio Il bisogno di pensare uno dei suoi libri (Garzanti, 2017). Qui l’autore dialoga con i suoi lettori al fine di risalire alle origini di questo bisogno tanto astratto all’apparenza eppure primordiale che ci rende così diversi da tutte le altre creature del Pianeta. Un bisogno che può anche prendere i connotati di urgenza, e infatti è intimamente legato al desiderio e al sogno. Quando pensiamo, cerchiamo e la nostra ricerca ci fa tendere verso la nostra interiorità, il nostro io più profondo al quale diamo ascolto e con il quale possiamo dialogare alla ricerca di risposte. L’esercizio del pensare è allora anche un esercizio spirituale, seppure si rifletterà sulla nostra esistenza tangibile e quotidiana. È uno strumento unico che può permetterci di non perdere la bussola ma anche fornirci un punto di appoggio per sollevarci quando tutto intorno a noi sembra crollare, ogni certezza farsi vana e, nella nostra esistenza quotidiana, percepiamo un senso di “bassezza”, di incolore uniformità:

«Io vi chiedo quale punto di appoggio avete per sollevare il vostro mondo dalle bassure dell’esistenza quotidiana» (V. Mancuso, Il bisogno di pensare, 2017).

Qui l’autore paragona il pensiero alla nota leva di Archimedeo. Il pensiero, in effetti, ci innalza ed è espressione di amore; quando si riconosce il proprio bisogno di pensare e lo si esercita, invero, si sta compiendo anche un atto d’amore, anzi più di uno: amore per la conoscenza, per l’approfondimento, per le domande, forse soprattutto per quelle che non avranno mai una risposta. Vale dunque la pena strappare dalle nostre giornate momenti da dedicare al pensiero e difendere quel bisogno prezioso, non soffocarlo e lasciarlo invece andare; sarà bello vedere dove ci porterà.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit prottoy hassan via Unsplash]

 

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Giordano Bruno e la metafora dell’asino

Prigionieri del ritmo incalzante della vita, quante volte lasciamo che fatti ed eventi che dovrebbero esigere la nostra attenzione passino inosservati o ci lascino indifferenti? Probabilmente non ce ne accorgiamo perché ci siamo assuefatti al modus vivendi dell’inerzia mentale: non vogliamo perdere tempo e allora scegliamo di non voler sapere e ci accomodiamo nello stato della “beata ignoranza”. Forse lo facciamo per una questione di quieto vivere o forse perché abbiamo bisogno di anestetizzarci emotivamente, dal momento che la vita già “ci regala” preoccupazioni in abbondanza.

Il filosofo nolano Giordano Bruno, nella Cabala del Cavallo Pegaseo (1585), definiva questa forma di ignoranza «asinità di semplice negazione», ritenendo che sia propria di coloro «che non sanno, non presumono di sapere» e nondimeno vogliono sapere (cfr. G. Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico, 1985)

L’asinità di semplice negazione è una sorta di moderno analfabetismo di ritorno, da cui ciascuno di noi può essere affetto quando, pur essendo in grado di comprendere, valutare e agire scientemente, per pigrizia intellettuale o per non affaccendarci in problemi che crediamo non ci riguardano, disconnettiamo la ragione e da animali pensanti regrediamo allo stato di asini insipienti, «che tutte le facoltà dell’anima uniscono nella sola capacità di ascoltare e credere» (ibidem).
Così ci disabituiamo a pensare autonomamente e diventiamo bisognosi di una guida spirituale o di un leader carismatico che pensa e decide per noi. Deleghiamo la nostra libera facoltà di ragionare e di agire a delle autorità che ci sovrastano, alle quali, come asini consenzienti, crediamo e obbediamo.
Quante volte ci siamo fatti abbindolare dalle cangianti tendenze della moda, dalla legge del mercato o dagli influencer del momento, che ci instillano gusti che non sono i nostri e bisogni che non abbiamo? E noi, similmente a marionette, mettiamo nelle mani altrui il senso e la direzione della nostra vita, perché non abbiamo elaborato un pensiero nostro, non sappiamo cosa vogliamo, cosa sia giusto o vero, perché, in realtà, non ci soffermiamo a guardare dentro noi stessi, dal momento che farlo costa fatica e coraggio.

L’asinità ha anche il volto della presunzione. Lo sapeva bene Bruno che aveva dovuto scontrarsi con i dogmatici saccenti del suo tempo, che aveva etichettato come «asini per cattiva disposizione». I saccenti, ingabbiati nei “paraocchi mentali” di una dottrina, presumono di essere i depositari dell’unica e incontestabile verità e dunque di non avere più nulla da imparare. E, ostentando un’intransigente quanto sterile superiorità intellettuale, si sentono autorizzati ad avversare, perseguitare e condannare chi è portatore di opinioni differenti dalle proprie.

Bruno aveva coraggiosamente affrontato anche la stolta follia degli «asini per divina acquisizione», gli ignoranti per fanatismo religioso, i suoi carnefici. Il fanatismo religioso non solo riduce la capacità di pensare allo stato di quiescenza, ma inebetisce finanche la coscienza morale. Per cieca fedeltà, il fanatico religioso obbedisce acriticamente all’autorità divinizzata di un leader (politico o religioso) anche quando gli ordina di violare la dignità altrui, trucidare e condannare a morte il cosiddetto nemico, che ha commesso il “reato” di pensarla in modo diverso o che ha manifestato apertamente il suo dissenso.

Ogni giorno i telegiornali ci sbattono in faccia fatti di insensata brutalità, perpetrati dagli uomini contro l’umanità tutta, in nome di un Dio che dice sante le guerre e meritevoli del paradiso gli assassini autorizzati per fede, o a causa di un despota che dispone della legge e della giustizia arbitrariamente. E noi? Non possiamo stare a guardare con un atteggiamento di imperturbabile irresponsabilità. La denuncia di Bruno va oltre il suo tempo e continua a condannare l’asinità che ancora oggi ha il volto negativo dell’arroganza e della stoltezza, dell’inoperosità e dell’indolenza. Ogni qualvolta deleghiamo o lasciamo correre, rinneghiamo la nostra natura di animali pensanti e ci imbestiamo, e, a causa dell’ottusità, diventiamo responsabili così che ricadono su di noi quelle colpe per i mali del mondo che accolliamo agli altri.

Bruno, però, individua anche un’asinità positiva, un antidoto contro quella insana e folle: l’asinità sensata. Quest’ultima, a differenza dell’altra, ha il volto dell’umiltà, perché è constatazione che siamo fallibili e non onniscienti, che rispetto alla verità siamo sempre mancanti, che c’è sempre da imparare. L’asinità sensata è inquieta, non sta comoda nello stato di mancanza, anzi è esortazione costante alla ricerca, impegno quotidiano alla riflessione per l’azione, apertura al dialogo e al confronto. È quel saper di non sapere che allerta la ragione e la coscienza morale a essere vigili, a non perdere di vista i fini, a prestare attenzione a ciò che accade e a farsene carico responsabilmente. È quel bisogno di interrogare per comprendere che ci salva da ogni errore e conflittualità.

Finché rimarremo connessi con la nostra ragione, rimarremo connessi con la nostra umanità, la sapremo esprimere al meglio e faremo del nostro mondo un posto migliore.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit hay s via Unsplash]

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Nulla da vedere nell’arte contemporanea? Basta riflettere

Chi ha un minimo di confidenza con l’arte contemporanea sa che, a differenza delle precedenti, in molti casi essa ci presenta gli stessi oggetti della vita di tutti i giorni: il caso principe è l’orinatoio che Marcel Duchamp espose nel 1917 ad una mostra d’arte a New York. A questo primo episodio ne seguirono molti altri, tanto che oggi è forse più comune vedere alle mostre opere “fatte di” oggetti banali che non dipinti e sculture: certo, l’arte ha in questo secolo calcato diversi sentieri, si sono adoperati neon, animali impagliati, addirittura ora si utilizzano file digitali come opere. Tuttavia la Fontana di Duchamp è un evento paradigmatico poiché rappresenta l’inizio dell’irruzione del quotidiano nell’arte: e ciò è stato ed è genuinamente spiazzante. Il senso comune infatti dice che le opere d’arte sono cose ben diverse dagli oggetti normali, poiché, generalmente, belle ad un livello speciale.

Il problema con la bellezza, è che essa è un valore che, come tutti i valori, è riconosciuta per certe qualità solamente da coloro che credono che quelle qualità la esprimano: non ne esiste un’idea condivisa da tutte le culture, né da tutte le società e gli individui. Chi pensa che qualcosa sia bello lo fa sempre per dei preconcetti che ha riguardo alla bellezza stessa. Qualcuno può dire che bello è ciò che dimostra in tutte le proprie parti una proporzione perfetta, chi invece crederà che alla bellezza serva un minimo di disarmonia per vivacizzarla, chi pensa che certi colori stiano bene assieme perché gli danno una sensazione positiva, e chi il contrario: tutti questi giudicheranno bello soltanto quell’oggetto che possono pensare secondo i loro parametri.

Infatti, in ognuno di questi casi, prima del giudizio si ha un’associazione di idee, il che è sostanzialmente un tipo di pensiero: anche nel caso dei colori, chi li trova belli connette la sensazione di piacere che ha con altre simili, alle quali ha imparato ad associare un evento positivo. L’idea è che un quadro lo “faccia sentire come”, e che perciò sia bello. Si risponde secondo dei presupposti: il problema è che pure questi presupposti possono a loro volta essere relativi. La bellezza infatti non è l’unico valore che risente di una tale situazione: le idee di proporzione, armonia, disarmonia, positività, piacere sono a loro volta suscettibili di condizionamento da parte di memoria, esperienza, cultura e storia. Anche l’espressività e il trovare qualcosa espressivo, fattori solitamente associati con l’arte, sono sia dipendenti dai, che varianti nei, vari contesti in cui il giudizio viene espresso.

Per cui non si può effettivamente pensare che l’opera d’arte – se si vuole che sia tale per tutti coloro che la potrebbero guardare (conditio sine qua non di una buona definizione della realtà) – si possa basare su qualche caratteristica specifica. Altrimenti, per qualcuno qualcosa sarebbe arte, per qualcun altro no. Ciò che permane, sicuramente, è che quando un oggetto è esposto al pubblico, come in un museo o in una galleria, le persone saranno portate a giudicarlo: si potrà dire che è bello o brutto, espressivo o inespressivo, che presenta certe qualità o non lo fa, ad un livello sufficiente o no. Di sicuro, quando mostrato, l’oggetto riceverà un giudizio, anche rispetto alla sua artisticità, giacchè affibbiargli o no le caratteristiche che, secondo chi lo fa, lo denotano come un’opera d’arte, significa infine giudicarlo “arte”.

Dunque, quello che le opere d’arte fanno è sempre stimolare un giudizio, cioè far associare delle premesse con altre idee. L’intuizione di Duchamp fu quella per cui, se un’opera non può essere razionalmente caratterizzata, ma tutto ciò che possiamo dire è che ci fa pensare, allora ogni cosa può mettere in moto la mente umana, dato che su tutti gli oggetti noi possiamo formulare pensieri: anzi, vien da chiedersi, che cosa più di un orinatoio in una galleria d’arte può dar modo di riflettere? Vedendolo, infatti, si potrà pensare che non è arte, che però qualcuno ha pensato che lo fosse, o non sarebbe stato esposto, che se è arte allora la bellezza non c’entra nulla con l’arte, e che questo è controintuitivo ecc. Inoltre, si potrebbe pensare anche che ci sono opere d’arte che non sono “belle” ma espressive (si pensi a Munch), ma che tuttavia anche l’espressività è relativa, perché in un contesto un gesto può essere considerato espressivo mentre in un altro per nulla…

Si potrà pensare che arte (considerata qui come arte visiva, solco in cui si mosse l’ex pittore Duchamp) è solo ciò che rappresenta qualcosa: ma allora l’astrattismo? Che fare arte significa dipingere o scolpire, produrre qualcosa: ma perché farlo, se non devo avere particolari qualità? In breve, si rifarà il ragionamento che ci ha condotti sin qui, e tutti quelli che hanno portato gli uomini nei secoli a fare arte in un certo modo ed altri ad accettarla come tale, per capire cosa diavolo ci faccia un orinatoio in museo.

 

Simone Costantini

Simone Costantini ha studiato Storia dell’arte a Udine e a Milano, focalizzandosi sulla contemporaneità perché ama essere sempre a conoscenza degli ultimi fatti del pensiero e dell’attività umana, e per personale predisposizione. La considerevole quantità di ragionamento dietro alle opere d’arte contemporanea e al loro studio ben si sposa con la sua passione per la filosofia, sorta al liceo, che ha poi felicemente portato avanti per comprendere sempre meglio il suo nuovo oggetto d’interesse. Alterna, così, il girovagare tra chiese, musei e mostre alla lettura e alla riflessione.

 

[Photo credit Khara Woods via Unsplash]

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Libertà e linguaggio in 1984 di Orwell

Molti di noi conosceranno l’opera di George Orwell 1984: il romanzo distopico che narra un futuro governato dal Grande Fratello, figura totalitaria che controlla e conosce il mondo circostante e i suoi abitanti. In questa realtà gli uomini non hanno facoltà né di agire, né di pensare; ogni idea contraria al Partito, la forma di governo dominante, viene definito “psicoreato” ed è punito con la morte. Persino il linguaggio, fonte inesauribile di varietà e ricchezza, è stato sottoposto a revisione, allo scopo di impoverirlo sempre di più, creandone uno nuovo: la “neolingua”, contrapposto a quello standard “l’archelingua”.

«Si riteneva che, una volta che la neolingua fosse stata adottata in tutto e per tutto e l’archelingua dimenticata, ogni pensiero eretico (vale a dire ogni pensiero che si discostasse dai principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impossibile, almeno per quanto riguarda quelle forme speculative che dipendono dalle parole» (G. Orwell, 1984, 2015).

In sostanza il linguaggio, nel futuro 1984 di Orwell, è ridotto all’osso, in quanto se non esistono nemmeno gli strumenti e la capacità di esprimere un’idea contraria al Partito, con il tempo si esaurirà anche la possibilità di pensarla. Interessante, partendo da questa considerazione, come il nostro autore dia una consistente importanza al potere della parola, il cui esercizio stimola la riflessione, aiuta la creazione di opinioni contrarie e di pensieri indipendenti.
Ecco dunque che, in un ipotetico distopico 1984, la conoscenza del linguaggio standard, il suo studio e la sua lettura, possono essere una minaccia per un regime totalitario che non vuole lasciare nulla al prossimo, ma mira a controllare qualsiasi cosa.

Afferma Winston, il protagonista di 1984, nella sezione conclusiva del romanzo:

«In effetti, ciò che distingueva la neolingua da tutte le altre lingue esistenti, era il fatto che ogni anno, anziché ampliarsi, il suo lessico si restringeva. Ogni riduzione era considerata un successo perché, più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare» (ibidem).

Anche se il linguaggio sembrerebbe un fattore esteriore nell’esercizio del pensiero, un mezzo più che una sostanza, Orwell ci dimostra che non è così, in quanto la proprietà di parola conduce necessariamente ad allenare la capacità di espressione delle proprie idee e di sostegno delle proprie tesi. Si pensi a questo proposito all’importanza che il linguaggio ricopre nell’antichità romana: Cicerone affermava nel De Oratore che nulla fosse più importante di intrattenere le menti degli uomini con la capacità di parlare, elemento che fu sempre fiorente «in ogni popolazione libera e nelle società pacate e tranquille»1. Ne deriva che il tentativo di ridurre questa capacità attraverso il controllo della lingua, è alla base di un regime dispotico.

A ciò si aggiunge un altro elemento importante, che Orwell mette in luce nelle ultime battute del suo romanzo: cambiare la lingua in un’altra versione più povera implica l’allontanamento del popolo dalla letteratura del passato, in quanto con il passare del tempo i testi risulterebbero sempre più incomprensibili alla maggior parte delle persone.

«Soppiantata una volta e per sempre l’archelingua, anche l’ultimo legame con il passato sarebbe stato reciso. La storia era già stata riscritta, ma qui e là ancora sopravvivevano frammenti della letteratura  trascorsa, e finché si riusciva a conservare la propria conoscenza dell’archelingua era possibile leggerli» (G. Orwell, 1984, 2015).

Ecco dunque che la revisione del linguaggio permetterebbe il controllo di tutta la letteratura e la sua inacessibilità nel futuro. Ciò implicherebbe l’esclusione automatica di tutto il patrimonio culturale e letterario conservato per secoli.

Traendo le conclusioni dalle riflessioni di Orwell si può soltanto ribadire l’estrema necessità e urgenza della lettura, della conservazione della ricchezza del linguaggio e dell’esercizio della parola. Tutto ciò da un lato è necessario per conservare la memoria del passato e stimolare il pensiero, dall’altro per mantenere la possibilità di esprimere opinioni e idee che sostengano le proprie tesi e permettano, qualora lo si voglia, di prevalere verbalmente sull’altro.

 

Anna Tieppo

 

NOTE
1. Cicerone, De Oratore, 1, 30-31: «haec una res in omni libero populo maximeque in pacatis tranquillisque civitatibus».

[immagine tratta da Unsplash]

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Il pensiero è una forma d’azione: Arendt e l’attualità

Quanto è rilevante, oggi, provare a fare filosofia riflettendo criticamente e creativamente sul mondo che ci circonda? Quanto è importante dialogare con autori del passato, rintracciando nei loro discorsi rimedi utili per affrontare il presente?

In un’epoca difficile e precaria come quella che sta avvolgendo le nostre vite in questo periodo pandemico, credo sia stimolante ed interessante provare a riflettere su quella che Hannah Arendt (1906-1975), illustre filosofa e politologa tedesca naturalizzata statunitense dopo diversi anni vissuti da apolide, definisce crisi dell’agire politico. L’agire politico, e dunque l’azione, rappresenta un nucleo fondamentale nel pensiero arendtitano. Pensiero che non si traduce mai in pura e astratta contemplazione, bensì è intriso di concretezza nella misura in cui s’interroga criticamente sul presente e su problemi che riguardano tutti e che ci invitano a prendere posizione. Un presente di cui Arendt cerca di mettere in luce le brutture, i vicoli che sembrano ciechi ma che, in realtà, non sono altro che nodi di esistenza che possono essere sciolti attraverso l’ascolto ed il dialogo. Arendt, qualche decennio fa, parlava già di come la politica fosse progressivamente divenuta un potere dominato da logiche strategiche e di potere e di come mancasse una vera e propria partecipazione dei cittadini alle vicende concernenti la vita pubblica. Forse, ciò che rappresenta meglio la nostra epoca è questo. Un governo senza politica. Per Arendt, infatti, politica significa agire, prendere posizione attraverso la parola e il discorso mostrandosi agli altri nella nostra «irriducibile ed irripetibile singolarità ed unicità»1.

Nella polis, infatti, realtà pre-filosofica e pre-platonica formatasi tra il VII-V secolo a.C. ad Atene, i cittadini ateniesi liberi che avevano compiuto la maggiore età si riunivano al fine di discutere di affari della vita pubblica. Credo che a questo punto emerga una questione rilevante: al giorno d’oggi capita mai di trovare tempo e spazi per riflettere su tali temi? In che modo, oggi, facciamo politica? Credo che in molti lettori delle nuove generazioni potrebbero rispondere che i social network, effettivamente, sono divenuti mezzi attraverso cui  intavolare un dibattito. Eppure io credo che essi siano mezzi più d’espressione che di discussione, intesa come avveniva nella polis, in cui ci si disponeva in maniera circolare al fine che nessuno dei presenti fosse escluso. La polis è un esempio di realtà in cui il pensiero, la discussione, la facoltà del logos intesa come parola, discorso diviene creatrice di qualcosa. Come dice Arendt, «l’azione è un memento che gli uomini non sono nati per morire, ma per dare inizio a qualcosa di nuovo»2. Noi esseri umani, infatti, siamo inizi e iniziatori; le nostre parole, le nostre gesta hanno la possibilità di cambiare situazioni ed il normale incedere degli eventi. Il pensiero non è né una speculazione fine a sé stessa, né un ragionamento astruso, bensì l’attitudine a discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, la facoltà di riflettere sul mondo circostante e lasciare che la realtà stessa ci doni nuovi sentieri da percorrere. Attraverso l’azione del pensare diamo forma a teorie e concetti, ma al contempo lavoriamo su noi stessi, ci guardiamo dentro ponendoci sempre in dialogo critico ed aperto col mondo esterno.

Questo è, per Arendt, fare politica. Una politica che ci coinvolge, una politica di tutti senza lasciare indietro nessuno. Una politica di discussione, dibattito, una politica che fa crescere alimentando la volontà di essere sempre più protagonisti della realtà uscendo da quell’atteggiamento tranquillizzato, come Arendt lo definisce, tipico di una modernità sterile, rinchiusa in un bocciolo solipsistico annaffiato soltanto da indifferenza. Tale atteggiamento è tipico di quella che Arendt definisce la “società degli impiegati”, descrivendo la nostra società come passiva, attonita, grigia, composta da animal laborans dediti al lavoro e non più da zoon politikon, inteso come singolarità che entrano in contatto tra loro, creano legami e scoprono chi sono proprio nel momento in cui si espongono, prendono posizione mettendo in luce la pluralità delle loro differenze, nonostante riconoscano di essere parte di un Tutto che li accomuna, ma che non appiattisce tali differenze.

 

Elena Alberti

 

Sono Elena Alberti, sono nata a Brescia ma per motivi sportivi e di studio mi sono trasferita in provincia di Verona, dove sono studentessa di filosofia, che rappresenta la mia più grande passione insieme all’arte, la poesia e la letteratura.

 

NOTE:
1. Cfr. S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, 2003
2. Cfr. H. Arendt, Vita Activa, 1958

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Pensiero laterale: perché applicarlo alla quotidianità

Non sempre per la risoluzione di una problematica è vantaggioso insistere sulla medesima soluzione. È più probabile che quella determinata situazione richieda un cambiamento di prospettiva; quello stesso movimento che Socrate auspicava per i suoi concittadini. È questa prospettiva alternativa ciò che Edward De Bono definì nel 1967 come pensiero laterale. Il concetto alla base del pensiero laterale è proprio l’idea secondo cui, per ciascun problema, sia sempre possibile individuare diverse soluzioni; alcune di queste emergono solo nel momento in cui si esuli da ciò che inizialmente appariva come l’unico percorso possibile e si inizi a cercare elementi, intuizioni e spunti fuori dal dominio di conoscenze secolari e dalla rigida catena logica. 

Nel corso dell’esistenza ogni essere umano si è trovato almeno una volta in un momento di crisi. Questo provoca solitamente un circolo vizioso dovuto a un pensiero statico, ripetitivo, capace di vedere e affrontare la situazione da un unico punto di vista. Per lo psicologo maltese De Bono, è possibile imparare a pensare in modo diverso per evitare questi loop, proprio attraverso la capacità umana del pensiero laterale. Il pensiero laterale, di natura intuitiva, è differente rispetto a quello verticale, ovvero a quella tipologia di pensiero logica e consequenziale, da sempre l’unica degna di considerazione. A volte quest’ultimo ci ingabbia e non ci permette di guardare oltre la nostra visuale, interagendo in modi differenti con la realtà.
Il pensiero laterale vede con favore il volersi sottoporre a una grande quantità di stimoli. Infatti, invece di lasciare che una sola idea faccia capolino nella propria mente, l’intrecciare molti concetti ed idee eterogenei, sviluppati magari in momenti differenti, può portare allo sviluppo di idee straordinarie. Ciò richiede una ferma volontà di non escludere alcuna sfaccettatura, perché nulla è davvero fonte di disturbo. Spesso questo incrocio di binari, o l’uso arbitrario di essi, permette scoperte e sviluppi del tutto inaspettati. Come scrive De Bono: «l’ideale, per l’intelletto umano, sarebbe di diventare una casa ospitale dove ogni apporto informativo è ben accolto e possano entrare non soltanto gli ospiti invitati o interessanti, ma anche il forestiero di passaggio e l’intruso» (E. De Bono, Il pensiero laterale, 2016).

A differenza del pensiero logico, quello laterale accetta di brancolare nel buio. Accetta il caos e il non ancora definito. Lo fa in quanto esso è lo spazio in cui per eccellenza brulicano le idee e, quindi, dove risulta più facile che emerga qualcosa di nuovo. 
Qui sta la pars costruens del pensiero laterale. Esso, a differenza di quello logico, non si limita a schemi rigidamente accettati, esso aspira a nuove idee. Idee più semplici e più efficaci che si inseriscono in un orizzonte diverso, in un  nuovo ordine, migliore rispetto al precedente. Basti pensare a chi, nonostante abbia risolto un problema in modo soddisfacente, continua a sentire uno stimolo a tentare nuove strade.
Di certo il pensiero laterale si scontra con la realtà. Ovvero, una volta concepita una nuova idea, non è facile individuare chi la metta in pratica. È sotto gli occhi di tutti come il concepimento di una nuova idea sia spesso molto più entusiasmante della sua realizzazione pratica. Solitamente, l’interesse se lo accaparrano quelle idee che mostrano in se stesse l’utile che è possibile ricavare, la loro valenza pratica.
Le idee nuove, tuttavia, rischiano di andare incontro ad una prova falsata proprio perché sono nuove. Lo spirito di conservazione rende difficile staccarsi dal passato. Si è riluttanti a dar credito a nuove idee. 

La pratica di nutrire nuove idee viene solitamente riservata ai ricercatori, quasi fosse parte integrante solamente del loro lavoro. Ciò giustifica tutti gli altri a non interessarsene, a non educare la propria mente al pensiero laterale. Ma esso è utile a tutti. A tutti coloro che necessitano di idee nuove, anche nelle piccole situazioni di vita quotidiana. Tutti possono acquisire una mentalità laterale ed essa richiede pratica: non ha delle ricette o delle tecniche specifiche di applicazione, richiede piuttosto una forma mentis, non di immediata acquisizione. È infatti faticoso abbandonare una determinata impostazione per un nuovo ordine, che scardini la prima. Chi applica una mentalità laterale si occupa di cercare nuove correlazioni tra gli elementi del problema, nutrendo così uno sguardo totalmente nuovo.

La nostra contemporaneità, come le singole esistenze, ha bisogno di persone che accolgano ed allenino questa forma mentis, che non si accontentino di soluzioni prefabbricate ma lascino vagare il proprio intelletto finché non approda su isole inaspettatamente vicine e fertili.

 

Sonia Cominassi

 

[Photo credit Dollar Gill via Unsplash]

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La filosofia è morta. Viva la filosofia

«Chi si vuole sotterrare nella polvere dell’antichità, quando il corso del suo tempo ad ogni istante lo avvolge e con sé lo trascina?».

Questo scriveva un giovane Schelling all’ex compagno di studi Hegel. I due filosofi, insieme con il poeta Hölderlin, avevano condiviso il percorso di studi presso lo Stift, il seminario protestante dell’Università di Tubinga, dal 1788 al 1793. Il corsivo è dello stesso Schelling: il suo tempo. L’autore vuole far cadere l’attenzione dei lettori sul tempo in cui loro stessi vivono, con il quale possono (e devono) confrontarsi.

Nell’elaborazione del proprio sistema filosofico – da alcuni concepito come una sorta di ideal-realismo – Schelling non lascia spazio alla storia, concentrando il proprio interesse al rimando di ogni determinazione molteplice all’unità dell’Assoluto. Ma sarebbe errato concepire la citazione iniziale come una negazione dell’importanza del passato. La frase infatti prosegue così: «Vivo e mi muovo al presente nella filosofia».

Questa citazione può fornire un punto di partenza per alcuni interrogativi, proprio riguardanti il presente e il significato di fare filosofia oggi. Una possibile concezione, alla luce delle citazioni di Schelling, è quella di una filosofia viva, in grado di volgere il proprio sguardo in avanti, confrontandosi con il mondo e cercando di dare risposte ai problemi dell’uomo nella contemporaneità. Una Filosofia, in altri termini, non limitata a una filologia fine a se stessa. Una Filosofia che, utilizzando le categorie fornite dai pensatori del passato, si superi continuamente. Un movimento incessante che segue il divenire del mondo nel suo modificarsi e si adatta alle sue pieghe. Questo, nell’epoca della cosiddetta post-verità, non deve però tradursi in un’impossibilità conoscitiva, in un relativismo distruttivo, che nega ogni acquisizione del pensiero umano.

Dicevamo, alcune domande sull’oggi: la Filosofia accademica, in Italia, si muove «al presente»? Oppure ha fissato il proprio sguardo verso ciò che è passato? La risposta definitiva, a una questione di portata tale da investire lo statuto stesso della filosofia, potrebbe non essere mai trovata. Limitiamoci a qualche spunto di riflessione. Consideriamo i tre migliori «mega atenei italiani» (oltre 40.000 immatricolazioni) secondo la Classifica Censis 2019/20, ovvero Bologna, Padova e Firenze (link alla Classifica Censis). I piani di studio della Laurea Triennale in Filosofia sono accomunati da due fattori: massiccia presenza di insegnamenti afferenti al settore disciplinare storico e, per la quasi totalità degli insegnamenti, didattica frontale.

E ancora: quale impatto ha oggi la Filosofia sulla società? È ancora in grado di apportarvi cambiamenti? Come viene percepita dal pubblico non specialistico? Ha ancora un significato “essere filosofi” oggi? Domande che, qui, rimarranno senza risposta. A una prima occhiata sembra che la Filosofia abbia abdicato a una delle proprie ragioni di vita, quella di indirizzare l’umanità verso un futuro migliore. E come potrebbe? I dati dell’Associazione Italiana Editori «rilevano che l’indice di lettura di libri colloca l’Italia nelle posizioni di coda del ranking internazionale»: leggiamo poco, troppo poco perché la filosofia venga considerata più di un vezzo elitario (link ai dati AIE).
Di fronte a questo panorama poco confortante, due sono state le reazioni, entrambe “estreme”. Da una parte, i filosofi si sono ritirati nelle torri d’avorio dei propri dipartimenti. L’esito è stato una ricerca tanto più parcellizzata quanto più inabile a fornire coordinate per orientarsi nel presente. Dall’altro lato, i “volti noti” della filosofia si sono rivelati niente più che opinionisti televisivi, politici o politicanti.

La serie di domande potrebbe continuare all’infinito, anche in senso contrappuntistico: per fare filosofia non è però necessario conoscere tutto il panorama della storia della filosofia precedente? Quale alternativa può mai esserci alle lezioni frontali nelle discipline umanistiche? Ma davvero facciamo filosofia per cambiare il mondo?

Non può essere che tutta la filosofia del passato si sia rivelata una cattedrale nel deserto. Ci sono luoghi, fisici e non, lontani dall’accademismo, che praticano una filosofia viva, attiva e fattiva. Una parte del mondo accademico ha (forse) rinunciato a quella legittima pretesa: che la filosofia sia in grado di elaborare visioni orientative in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Assumiamo questo come constatazione, come punto di partenza. Per fare cosa? Certo è che, per dirla nuovamente con Schelling, «qui c’è ancora parecchio da fare».

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
Le citazioni di Schelling sono tratte da G.W.F. Hegel, Epistolario, 1785-1808, p. 107, citato in Borghesi, Massimo, L’età dello spirito in Hegel, Roma: Edizioni Studium, 1995.

[Photo credit Giammarco Boscaro via Unsplash]

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