Sotto il mantello dell’invisibilità

La vita spesso mi sembra incredibilmente densa di problemi e complicazioni – anzi, sicuramente lo è. Nel mio presente ci sono la ricerca affannosa di tema e relatore per la tesi, la prospettiva dei numerosi esami spalmati nelle ultime due sessioni, il continuo paterno reminder che suona in mille varianti del “Quando ti trovi un lavoro?”, ma anche il lavorio logorante della mia coscienza, che mi ricorda tutte le altre cose che vorrei fare ma che non faccio per pigrizia. Insieme a tutto questo misuro quotidianamente la frustrazione derivante dalla mia incessante percezione di totale inadeguatezza. Per intenderci, quella che di fronte a questi problemi ti spingerebbe piuttosto ad avvolgerti nel piumone ignorando la sveglia e a chiuderti in un bozzo isolato dal mondo.

Naturalmente da quel bozzo tocca sempre uscire, allora ecco che il piumone diventa pret-à-porter: un mantello dell’invisibilità. Nel meraviglioso mondo di Harry Potter questo viene usato in “missioni segrete” a servizio del bene, io invece ho cominciato a servirmene per scopi probabilmente meno nobili e sensati, ormai addirittura dalla fine delle medie, quando ero già troppo alta e troppo tonda per non essere notata e per questo cercavo in ogni modo di non esserlo. Non volevo che vedessero quello che vedevo io.

Da quel momento il mantello mi è rimasto incollato addosso per tutta l’adolescenza, cosa che comunque non mi ha impedito di farmi degli amici – insomma, non sono né sono stata un caso disperato, però è vero che ci sono persone i cui occhi sembrano vedere attraverso un velo di apparenze e di solitudine, persone che inspiegabilmente riescono a trovarti in quell’angolino in cui ti sei asserragliato. Lasciandomi il liceo alle spalle ho cercato di liberarmi anche del mantello, eppure spesso me lo ritrovo ancora inconsapevolmente adagiato sulla testa – che è anche il motivo per cui spesso esco di casa con i capelli davvero mal raccolti e tute da ginnastica sbrindellate, convinta che facendo una così rapida apparizione nella società nessuno possa realmente vedermi.

Invece un giorno, come diversi altri giorni, sono andata a fare il pieno alla macchina nella solita stazione di servizio vicino casa. Ci trovo quasi sempre un ragazzo (tra l’altro piuttosto carino), probabilmente di qualche anno più grande di me, che lavora lì insieme ad altri due signori. Nonostante ovviamente ci abbia sempre parlato, per lo meno a livello di saluti, ovvie richieste e ringraziamenti, non credevo mi vedessero davvero. Invece quel giorno il ragazzo mi guarda e dice “Ti sei tagliata i capelli!”.
SBAM.
Così, “Ti sei tagliata i capelli”. Nemmeno una domanda, era una sicura affermazione. E’ stato come se mi avesse strappato il mantello di dosso e mi fossi ritrovata nuda di fronte a lui.

Ci sono così tante, così tante persone che pascolano in questo mondo che uno davvero comincia a perdere coscienza del proprio significato di individuo; così tante persone che nascono e muoiono ogni giorno nell’anonimato che alle volte devi proprio sforzarti per credere di fare la differenza, d’essere seriamente speciale. Perciò uno non si aspetta di essere riconosciuto come individuo in mezzo ad una moltitudine del tutto indistinta (per esempio i clienti di una stazione di servizio). Eppure, a quanto pare, alcune volte può succedere – infatti quel giorno è successo: il mantello è volato via con un gesto talmente improvviso e violento da lasciarmi stordita per almeno un paio di secondi e solo poi è arrivata quella sensazione di… direi di calore, come qualcosa che lentamente si scioglie al sole. E’ come quando per una volta la compagna di corso non ti dice “Non ti ho vista ieri a lezione”, invece con aria quasi di rimprovero commenta “Ieri ti ho vista a lezione ma sei scappata via subito”. Oppure come quando qualcuno che ti è stato appena presentato, dopo svariati minuti riesce ancora a ricordarsi il tuo nome. Piccole cose, ma che ti ricordano che nonostante tutto (il timore, il senso d’inadeguatezza, la moltitudine di anime) sei ancora collegato a questo mondo, sei una tessera del puzzle incastrata al suo posto, concavo con convesso e dritto con dritto, ed anche se il puzzle ha più di sette miliardi di pezzi e a guardarlo non si riesce ad avere la percezione della mancanza di qualcosa, comunque quel buco ci sarebbe, esisterebbe.

Perché esistere, nonostante tutto, non può essere una cosa da poco. Sono sempre stata convinta che in un certo senso dobbiamo meritarci il nostro stare in vita su questa terra: essere gentili e disponibili con il prossimo, comportarsi secondo i dettami della società civile, magari fare qualcosa di concreto per arginare le ferite di questo mondo malato; ma la verità è che non facciamo cose buone 24 ore su 24, giorno dopo giorno: ecco perché è piacevole a volte essere riconosciuti e notati solo per il fatto che esistiamo, indipendentemente da quello che facciamo in quel momento, io e proprio io, io così come sono, io e basta. Ci sono delle volte in cui essere visti fa la differenza, semplicemente riscalda il cuore. Quel mantello infatti, nonostante spesso nasca come forma di protezione, silenziosamente può diventare una gabbia. Quei piccoli sciocchi momenti sono come l’apertura dello sportello: mi rendo conto che posso uscire, se lo voglio. Eppure, la consolazione di quel minimo riconoscimento vale più di mille parole, più di mille sogni: “So che esisti. Non per uno scopo, non per una qualche necessità, semplicemente: so che esisti. Dunque, cerca di ricordarti sempre che tu esisti”.

Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google Immagini]

Io e ancora io

Qualche anno fa ho letto un romanzo di Pirandello e in cambio quello mi ha lasciato dentro un’ossessione. Sapete come fa Pirandello, no? Ti strappa la terra da sotto i piedi come fa un mago con la tovaglia e ti lascia precipitare… no, non nel vuoto, piuttosto in un magma denso di domande e di dubbi. Da un lato questo mi piace: sfidare ciò che noi diamo ogni giorno per scontato e cercare piuttosto un’altra soluzione, un’altra angolazione delle cose, è decisamente un buon allenamento per tenersi fuori dalla banalità, da una sciocca perché tracotante certezza di conoscenza. Già, perché non è che ci devi impazzire: devi solo tenere la mente allenata al cambiamento, alle possibilità. Per quanto riguarda me, il vero grattacapo, il vero sassolino nella scarpa, è il fatto che non mi sono mai vista vivere. Vitangelo Moscarda detto Gengè ha instillato in me l’idea e questa non se ne va più via: non riesco a vedermi vivere.

Pensateci. Ogni volta che incrociate il vostro sguardo o la vostra immagine su di una superficie riflettente non potete far altro che recitare: vi siete visti, e ciò che fate lo fate proprio perché vi siete visti. Magari non ve ne accorgete, però è così. Come la mia amica quando siamo salite insieme in ascensore, proprio l’altro giorno: si è vista e la mano è volata ai capelli, repentina come lo scatto d’un serpente, s’è aggiustata quella ciocca che di sua iniziativa s’era messa da un’altra parte; in questo modo è rientrata in quella che per lei doveva essere la sua parte, la sua versione di sé: ordinata. Io naturalmente faccio lo stesso e in particolare, se sto parlando con qualcuno o sto facendo qualcosa ma nel frattempo continuo a guardarmi, c’è una parte del mio cervello che s’interroga su quello che sta guardando, e ciò che anche gli altri stanno guardando.

Come quando quell’altra mia amica, mentre riguardavamo le foto di un viaggio fatto insieme, indicando un particolare scatto ha chiesto “Ma chi è quella botola” – realizzando un attimo dopo che era proprio lei; la cosa si è risolta a grasse risate, però lei non si è riconosciuta in una foto a tradimento. Similmente altre ragazze si guardano allo specchio e sostengono di vedere delle “botole” quando gli altri invece vedono qualcosa di ben diverso. Le immagini ci appaiono sempre distorte dal nostro cervello, dai nostri desideri, aspettative e cultura. Qualsiasi immagine, certo (L’uomo è misura di tutte le cose, diceva qualcuno), ma il fatto che anche l’idea di noi stessi sia così facilmente deformata crea quello che secondo me è un grave disagio per la nostra mente. O almeno per la mia. E quindi grazie, Gengè Moscarda.

Sicuramente quando ce ne andiamo in giro e facciamo cose ci pensiamo molto meno: siamo un’entità che attraverso due fori guarda al di fuori di noi stessi e diversamente dagli altri non possiamo vederci al naturale –cioè possiamo ascoltarci annusarci e toccarci ma non vederci. Certo, nemmeno gli altri possono, non veramente, proprio perché ognuno di loro ci filtra attraverso la sua anima, cultura, personalità, e allora siamo diversi ancora. L’altro giorno sono andata ad una piccola ma interessante conferenza a Conegliano ed una delle relatrici, una donna sui trentacinque e molto sottile, con un naso fino e dritto, i capelli ordinati e la camicetta di seta a stampe molto carina, a quanto pare per tutto il tempo in cui ha parlato, aldilà di quel lungo tavolo al quale era seduta anche la mia amica, s’era tolta le scarpe col tacco e si stava massaggiando i piedi, il tutto durante il suo intervento. Come a dire: una metà composta, distinta ed ordinata, mentre l’altra nascosta del tutto imprevedibilmente in una posa scomposta a grattarsi i piedi; mezza falsa, mezza reale, oppure entrambe reali o entrambe false.

Apparenza e realtà, io e qualcun altro. Forse, se mi vedessi vivere, proprio io da fuori, capirei come sono realmente. Per esempio: io mi definisco, e senza il minimo dubbio, una persona timida, soprattutto nel relazionarmi con qualcuno che non conosco; un’amica di vecchia data invece è riuscita a dirmi che appaio altezzosa e distaccata nei confronti delle altre persone. Come può il contenuto del mio corpo esprimere apertamente un sentimento così diverso? E poi ancora: con tutto il tempo che passo allo specchio, banalmente a truccarmi, asciugarmi i capelli, riordinare le sopracciglia, neppure io quando mi vedo fotografata a tradimento riesco a riconoscermi. Voglio dire, a guardar bene lo so che sono io, ma in qualche modo non sono io.

Che poi, si può davvero dire che il modo in cui mi vede ciascuna delle persone che m’incontra sia solo un’apparenza? Non è forse un altro lato ancora del mio essere, pur con tutti gli inevitabili filtri del singolo individuo che mi osserva? Banalmente, mia mamma mi vede sempre bella (ovvio, è la mia mamma), un’altra ragazza mi definisce “troppo simpatica”, quella mia amica mi crede altezzosa: perché dovrebbero essere proiezioni false? Può essere che io a volte possa sembrare più carina di quello che sono (diciamocelo, a volte capita), o più simpatica, e anche altezzosa. Siccome l’essere umano è mutevole e multiforme, possono essere tutte verità che le altre persone colgono in modo diverso e in momenti diversi.

Ci sono insomma millemila versioni di me: quelle di tutte le persone che mi guardano, quella che io mi vedo a tradimento, quella che io mi vedo quando so di vedermi, quella che io mi sento di essere, e poi ce n’è un’altra ancora, una infame, una proprio difficile con cui convivere: quella che vorrei essere quando gli altri mi guardano e soprattutto quando io mi guardo. Sostanzialmente è diversa in molti aspetti da quella che credo di essere, cioè lei è più tenace e sicura di sé, probabilmente meno banale e certamente meno pigra, all’occorrenza è menefreghista e sa anche suonare il pianoforte! A volte coincide con quello che alcune persone pensano che io sia, ma la cosa mi fa ridere perché per me è irraggiungibile, ma se non altro conoscerla ed inseguirla dovrebbe aiutarmi a migliorare me stessa.

Comunque, in Pirandello tutto ciò finisce male: il protagonista decide che siccome la sua personalità (il suo uno) è frammentata in almeno centomila altre, in realtà lui non è nessuno. E si chiude in un manicomio. Io invece preferisco sprofondare solo di tanto in questa mia pazzia, ma il resto del tempo mi godo il quotidiano confronto con le personalità multiple che ritrovo nello specchio e scopro negli occhi degli altri, perché forse (e dico forse) è comunque un buon modo per conoscere se stessi.

Giorgia Favero

[Immagine tratta da Google Immagini]

La bellezza salverà il mondo

Oggi il mondo è piccolo davvero: immagino uomini francesi o spagnoli nel Medioevo osservare la distesa apparentemente infinita dell’Atlantico e non avere la più pallida idea di che cosa potesse esserci oltre, chiedersi quanto oltre avrebbero potuto trovare qualcosa. Se c’è una cosa per cui voglio davvero benedire tutto il nostro processo tecnologico del XX-XXI secolo è proprio questo effetto restringente dei confini, questa vicinanza così possibile con gli altri e con le cose.

Fosse per me visiterei ogni angolo della nostra piccola e meravigliosa biglia azzurra. I giornali, i libri, i mass media e i social network mi fanno capire che non c’è limite alla bellezza che l’ingegno divino-naturale e l’ingegno umano (mosso da buone intenzioni) è stato capace di creare; adesso ho solo la voglia di toccare con mano tutta questa bellezza, fisso il planisfero nella mia lavagna di sughero con un misto di frustrazione e determinazione. Condivido il folle sogno romantico di Dostoevskij e credo che la bellezza salverà il mondo, intendendo per “mondo” tutti noi cittadini, persone, entità pensanti e dotate di sentimenti ma forse anche la Terra stessa. O almeno, sono certa che potrebbe farlo.

Sono seduta sul sedile di un tram di Amsterdam, mi lascio trasportare come dalla corrente nell’antico letto artificiale della città, scivolo fluida tra la folla della sera, in mezzo alle luci di Natale, sopra ai canali silenziosi. Penso. La gente attorno a me mi fa pensare alla routine, ad un tram preso un milione di volte, ad un lavoro appena concluso, ad una casa in cui tornare, dei famigliari o amici con cui stare. Proprio come il treno che prendo infinite volte per tornare a casa da Venezia dopo una giornata di università, solo che il panorama al di là del vetro è diverso e per me tutt’altro che ordinario, è pieno di possibilità. Scendo a Muntplein e mi immergo nella Kalverstraat dei negozi, sotto festoni di luci natalizie: la gente compra i regali perché dopodomani sarà san Nicola, ovvero l’originale Santa Claus; due ragazzi mi fermano, mi chiedono informazioni in inglese: pensano che io viva lì.

Non sarò mai grata abbastanza ai miei genitori perché mi danno la possibilità di vivere tutto questo. E’ vero che la conoscenza è il vero antidoto per la maggior parte degli orrori del mondo, credo che sia stato proprio mio padre il primo ad insegnarmelo. Lui è tutt’altro che un professorone classicista, ma la sua citazione preferita è sempre stata dalla Commedia, il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse:

Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza.

Mentre lo diceva a mio fratello (che è più grande di me) io piccolina lo ascoltavo e non capivo il senso. C’è stato un momento mentre ero alle medie in cui una lampadina si è accesa: leggi, scopri, vedi, desideri e (se puoi) parti, perché è quello l’unico modo per salvarti dall’oscurità degli animi umani, dalla cecità, dallo schifo del mondo.

Sono felice perché ho scoperto che cosa si prova a mangiare dei caldi noodles take away seduta a terra sul ciglio di un canale olandese, con il vento gelido che punge la faccia e l’occhio digitale del turista che passando in barca ti nota e pensa “Ah! Due allegre olandesi che mangiano in riva al canale”; so cosa vuole dire trascorrere una serata di un anonimo giorno feriale in un teatro del West End e dopo fare uno spuntino con delle patatine del McDonalds, mescolata alla folla che si riversa nelle strade; a Trapani ho assaggiato la sensazione di andare in spiaggia alle cinque del pomeriggio dopo un acquazzone estivo, solo per osservare un diverso colore del mare, per distendersi sulla sabbia fredda e leggere accerchiata dall’aria salmastra e piacevolmente fresca. Nella città che non dorme mai ho scoperto l’abitudinario alzarsi presto al mattino, fuggire con quel bruco di latta fuori dalla periferia, sbucare fuori dalla bocca infuocata ed entrare in un grattacielo per andare a scuola. Nella Parigi oggi ferita solo tre anni fa ho passato un afoso pomeriggio distesa al Parc Citroen, senza pensieri, a sonnecchiare ed ascoltare musica in mezzo a famiglie, coppie di ragazzi, bambine che si sfidavano a fare la ruota.

Però ce n’è anche un’altra di “classica” tra le citazioni preferite di mio padre: è quel momento nei Promessi Sposi, quando Renzo e Lucia osservano il loro lago di Como, con la sua corona di monti, che si stanno lasciando alle spalle. Recentemente anche questo passo mi sembra perfetto: perché è giusto conoscere il mondo, ma non bisogna dimenticare la propria casa. E’ bello partire quando sai che puoi sempre tornare.

Dunque sono fortunata perché so anche cosa vuol dire vivere in un paese infossato tra le colline senesi, uno di quelli dove non vi si raccolgono più di duecento vite, dove si trova quella pace che può dare il canto degli uccelli, il rumore del vento tra le fronde dei cipressi, ma si prova anche la difficoltà di raggiungere il paese più vicino (che in realtà è lontano) senza possedere un’auto; e al contrario, so cosa significa vivere nel formicaio milanese, 1.300.000 residenti e altri 700.000 pendolari giornalieri, tutti indaffarati, tutti presi, un cuore che pulsa e che ti fa sentire vivo ma dove fatichi a trovare un po’ di silenzio che sia vero silenzio, una solitudine che sia vera solitudine. Ho sperimentato anche l’intermedio: una cittadina veneta di provincia, qualche migliaio di abitanti in una campagna che non è vera campagna, un punto in una rete di strade, cittadine, persone. Non si può amare tutto quanto, ma lo si può apprezzare. Questa è la bellezza del mondo, conoscerla (conoscerci) potrebbe salvarci. Prendere in prestito momenti ordinari delle vite degli altri ci fa capire quanto siamo diversi ma soprattutto quanto infondo siamo armoniosamente simili. E poi certo, la bellezza è anche un’alba nel deserto, la nona sinfonia di Beethoven, la basilica di San Pietro, la vista da Machu Picchu, un dipinto di Renoir, un abito di Elie Saab, veder “cadere” una stella di san Lorenzo…

Chi cerca di possedere un fiore, vede la sua bellezza appassire. Ma chi lo ammira in un campo, lo porterà sempre con sé. Perché il fiore si fonderà con il pomeriggio, con il tramonto, con l’odore di terra bagnata e con le nuvole all’orizzonte.¹

Cercare la bellezza, trovare la bellezza e vivere sulla pelle l’emozione che essa porta con sé, ci fa capire che non vorremmo mai vederla distrutta. L’importante del viaggio, come di ogni esperienza, è il tenersi qualcosa da riportare indietro, a casa. Imparare qualcosa di bello che viene da fuori e portarselo dentro per arricchire noi stessi.

Giorgia Favero

[L’immagine è tratta da Google e ritrae l’artista Yves Klein]

Note:

[1] Tratto da Paulo Coelho, “Brida”, Bompiani 1990