Ascoltare il proprio bisogno di pensare

Sentire la necessità e un vero e concreto bisogno di pensare, ai nostri giorni, potrebbe sembrare ai limiti dell’anacronismo. In un mondo che corre veloce e dentro il quale è facile percepire un senso di caos e smarrimento, desiderare di fermarsi a pensare suona quasi come un capriccio, una posa o un volersi sottrarre dall’attività, dal mondo produttivo, dallo scorrere del tempo ordinario. Ma facciamo un passo indietro: cosa significa pensare? Nel suo significato generico, che possiamo leggere come prima voce di un vocabolario, si tratta di esercitare l’attività del pensiero, cioè l’attività psichica per cui l’uomo acquista coscienza di sé e del mondo in cui vive. Ci aspetteremmo forse un significato maggiormente slegato dalla concretezza e più vicino a qualcosa di immateriale e privato, invece l’atto del pensare e il bisogno di pensare non è solamente legato alla nostra interiorità ma, a ben vedere, le sue implicazioni sono enormemente più vaste e ci consentono di abitare il mondo concreto con coscienza. 

Il momento o i momenti dedicati al pensiero – le ore, gli attimi che possiamo o desideriamo “regalare” a questo esercizio – lungi dall’essere slegati dalla realtà possono, al contrario, aiutarci a decifrare il quotidiano, il nostro tempo, ciò che sentiamo e ciò che amiamo. Allenare la nostra capacità di pensare, dare ascolto a quel bisogno profondo di fermarsi per riflettere e anche difendere questo bisogno non può far altro che migliorarci come esseri umani, perché è il pensiero e soprattutto lo sviluppo del pensiero critico a venirci in soccorso nei momenti di difficoltà, a farci porre un’attenzione particolare non solo a quello che vediamo intorno a noi ma anche a ciò che diciamo e facciamo nella vita di tutti i giorni. Se agire è il pensiero in atto e le nostre azioni sono il riflesso di quel pensare è di fondamentale importanza non mettere a tacere il nostro intimo bisogno di pensare, il desiderio che sentiamo di contemplare, di riflettere, di uscire momentaneamente dal mondo per rientrarci con una nuova difesa che è appunto composta dai nostri pensieri, unici, preziosi e che abbiamo avuto il coraggio di coltivare e veder crescere e svilupparsi. Ovviamente non tutti sentono nella stessa misura questo bisogno ma per quanto di diversa intensità il desiderio di pensare e l’atto stesso del pensare sono qualcosa che trascende l’età, il sesso, la provenienza geografica; è quella caratteristica che ci fa umani e questo lo rende affascinante e, allo stesso tempo (seppur in apparenza non tra i bisogni primari dell’uomo), proprio al vertice di un’immaginaria piramide di elementi non materiali eppure fondamentali per condurre un’esistenza consapevole.

Vito Mancuso, teologo e filosofo, ha intitolato proprio Il bisogno di pensare uno dei suoi libri (Garzanti, 2017). Qui l’autore dialoga con i suoi lettori al fine di risalire alle origini di questo bisogno tanto astratto all’apparenza eppure primordiale che ci rende così diversi da tutte le altre creature del Pianeta. Un bisogno che può anche prendere i connotati di urgenza, e infatti è intimamente legato al desiderio e al sogno. Quando pensiamo, cerchiamo e la nostra ricerca ci fa tendere verso la nostra interiorità, il nostro io più profondo al quale diamo ascolto e con il quale possiamo dialogare alla ricerca di risposte. L’esercizio del pensare è allora anche un esercizio spirituale, seppure si rifletterà sulla nostra esistenza tangibile e quotidiana. È uno strumento unico che può permetterci di non perdere la bussola ma anche fornirci un punto di appoggio per sollevarci quando tutto intorno a noi sembra crollare, ogni certezza farsi vana e, nella nostra esistenza quotidiana, percepiamo un senso di “bassezza”, di incolore uniformità:

«Io vi chiedo quale punto di appoggio avete per sollevare il vostro mondo dalle bassure dell’esistenza quotidiana» (V. Mancuso, Il bisogno di pensare, 2017).

Qui l’autore paragona il pensiero alla nota leva di Archimedeo. Il pensiero, in effetti, ci innalza ed è espressione di amore; quando si riconosce il proprio bisogno di pensare e lo si esercita, invero, si sta compiendo anche un atto d’amore, anzi più di uno: amore per la conoscenza, per l’approfondimento, per le domande, forse soprattutto per quelle che non avranno mai una risposta. Vale dunque la pena strappare dalle nostre giornate momenti da dedicare al pensiero e difendere quel bisogno prezioso, non soffocarlo e lasciarlo invece andare; sarà bello vedere dove ci porterà.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[Photo credit prottoy hassan via Unsplash]

 

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Pensare l’essenza, abitare l’essenziale

A partire dagli anni Novanta gli scavi archeologici condotti in Trentino a Riparo Dalmeri a 1240 m s.l.m. hanno riportato alla luce le testimonianze di vita di gruppi di cacciatori-raccoglitori nomadi del Paleolitico che alla fine delle grandi glaciazioni, per circa 250 anni, risiedettero stagionalmente in un ricovero sottoroccia. Nel corso degli scavi sono state effettuate numerose scoperte tra cui, oltre a una serie di pietre dipinte, l’individuazione di una capanna circolare costituita probabilmente da pali di legno piegati ad arco e ricoperti da frasche o pelli1. L’ipotetica ricostruzione della struttura abitativa effettuata in situ dagli archeologi, delimitata diametralmente da pietre e reperti litici, permette oggi di cogliere nei suoi tratti principali una delle prime forme dell’abitare umano: la capanna, per i nostri antenati preistorici che attraversavano gli altipiani prealpini, era essenzialmente un riparo che offriva protezione provvisoria dal freddo, dal buio e dalle bestie feroci.

Nel nostro tempo ci è difficile connettere questa dimensione originaria di semplice rifugio delle prime abitazioni alle nostre case ampie, confortevoli e ben arredate, anche perché ormai i pericoli di un ambiente naturale ostile e minaccioso sono stati per lo più allontanati dagli spazi antropizzati e urbani che viviamo. Osservando le case moderne, la natura di riparo tende a scomparire nella complessità costruttiva degli edifici cittadini, nella varietà degli arredamenti e nella decorazione degli interni. Il senso comune ci suggerisce che abitare una casa significa entrarci dentro, mettere dei mobili e affiggere il proprio nome sul campanello, riconoscendo quello spazio come nostro possesso. Vediamo quindi la casa come un edificio tra i tanti, delimitato da muri, composta da una o più stanze arredate e piena di oggetti. Eppure la casa non è solo quello che fisicamente appare, ma è anche un’entità simbolicamente costruita e vissuta come tale da chi la abita, su cui vale la pena riflettere per tentare di risalire a una sua forma originaria e al suo significato essenziale, considerando anche il fatto che essa rappresenta il luogo principale in cui avviene il nostro abitare questo pianeta.

Quando si affronta questo tema da un punto di vista filosofico, viene subito in mente che alcuni pensatori hanno fatto coincidere la ricerca di un luogo e di un’abitazione essenziali in cui soggiornare, lontani dalla civiltà e dall’ambiente cittadino, con lo sviluppo del loro pensiero e con la riflessione sull’essenza delle cose. A questo proposito Leonardo Caffo ha dedicato una parte del saggio Quattro capanne (Nottetempo, 2020) all’analisi delle vicende biografiche di Henry Thoreau e di Ludwig Wittgenstein, che avevano scelto di ritirarsi a vivere in una capanna come esperienza di distacco parziale dal mondo, dagli altri e dalla complessità del presente. Thoreau a metà dell’Ottocento si era stabilito in una baracca nelle foreste di Walden, per “vivere con saggezza e in profondità e per succhiare il midollo della vita”. Wittgenstein, nel secolo successivo, aveva abitato per un certo periodo in un casotto davanti al fiordo norvegese di Skjolden, lontano dal mondo accademico. Si possono aggiungere altri due esempi celebri: quello di Friedrich Nietzsche che, durante le lunghe camminate da eremita nei boschi, immaginava di costruire tra le montagne svizzere dell’Engadina un “canile” (in tedesco “Hundhütte”) in cui rintanarsi per sviluppare a pieno il suo pensiero abissale, e quello di Martin Heidegger che si ritirava periodicamente a meditare nella sua baita a Todtnauberg nella Foresta Nera vicino a Friburgo. 

Le biografie di questi filosofi, che scelsero di vivere la propria abitazione come un rifugio provvisorio, sembrano suggerire che esista un’effettiva corrispondenza tra pensare l’essenza e abitare l’essenziale. Se dunque da un lato le tracce di una capanna del Paleolitico ci riportano alle prime strutture abitative che, nella loro forma originaria, erano principalmente ripari temporanei, dall’altro lato, invece, l’intreccio tra vita e filosofia in alcuni pensatori, come Thoreau, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger, testimonia che talvolta l’indagine filosofica sull’essenza delle cose implichi anche la possibilità di ripensare il concetto di abitazione e di ritornare a una dimora essenziale. La capanna del filosofo, così come quella preistorica, in quanto unità abitativa minima e archetipa, permette quindi di far riemergere il significato originario di casa, che, nella sua forma semplice e basilare, è quello di rifugio e di riparo.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. Cfr. Bassetti M., Cusinato A., Dalmeri G., et. al., Riparo Dalmeri, una capanna di 11.000 anni fa, Archeologia Viva, anno XX, N. 90, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, pp. 68-77.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Il coraggio di pensare: Francesco Pastorelli su come insegnare la filosofia

In molti incontriamo la filosofia per la prima volta a scuola, normalmente al terzo anno di superiori. È quella strana età in cui smettiamo di essere adolescenti brufolosi e supponenti e iniziamo lentamente a diventare adulti e a porci qualche domanda in più su noi stessi e sulla vita. C’è chi in quel periodo avverte le questioni filosofiche come quanto di più astratto e lontano dalla proprie preoccupazioni, ma altri sentono invece che le proprie domande, il proprio sguardo meravigliato sul mondo, sono in fondo gli stessi della filosofia. E allora si innamora di quella disciplina.

Affinché questo accada è necessario un insegnante capace di appassionare e di chiarire anche gli autori più difficili, ma anche un manuale che svolga la stessa funzione, sapendo essere al tempo stesso chiaro e stimolante. Ma come si fa a mantenere un equilibrio tra questi due elementi? E cosa si nasconde dietro ad un manuale di filosofia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pastorelli, caporedattore del settore filosofia e scienze umane della casa editrice Loescher, che dopo una laurea su Spinoza e un dottorato su Shaftesbury alla Normale di Pisa ha iniziato a lavorare nel mondo dell’editoria.

 

Buongiorno Francesco, la prima domanda riguarda appunto la conciliazione tra elementi diversi che devono essere presenti in un manuale: lo scopo principale di un buon libro di filosofia dovrebbe essere rendere appassionante la materia o spiegarla in maniera semplice e lineare? Si può raggiungere un equilibrio tra i due elementi?

In realtà un buon manuale scolastico (qualunque, non solo di disciplina filosofica) dovrebbe sempre poter offrire un testo chiaro e appassionante, anzi: ci si appassiona alla lettura e allo studio quanto più si comprendono le cose in modo immediato, anche quando complesse. La filosofia tratta tematiche che attraggono naturalmente ogni studente: riuscire ad allontanarli offrendo un testo impenetrabile sarebbe davvero un peccato mortale! Credo che si possa dire di aver raggiunto l’equilibrio che citi nella domanda quando uno studente, dopo aver letto il manuale, ha (anche solo un pochino) voglia di leggere altro oltre il manuale. Il manuale dovrebbe essere una chiave per entrare in altri posti dove non si è mai stati, e che forse non avresti mai visitato senza il manuale.

 

Non c’è mai il timore che semplificando un autore per spiegarlo si tradisca la complessità del suo pensiero? Come si fa ad esempio a rendere comprensibile per un manuale scolastico pensatori ostici come Heidegger o Husserl?

L’autore sa scrivere un buon manuale quando dimentica di essere egli stesso un autore, ma si mette al servizio sia del filosofo che intende spiegare, sia del lettore finale. Tutto questo non intacca ovviamente l’originalità dell’impostazione (taglio concettuale, scelta antologica ecc). Ma un manuale “difficile” spesso cela un autore che non vuole scomparire e ha difficoltà a mettersi al servizio di un progetto didattico. Tutto sommato, direi, è anche una questione etica. L’autore di un manuale dovrebbe essere sempre un mediatore tra questi due mondi: l’oggetto che deve spiegare e il soggetto cui deve spiegare. 

 

In Italia si fa quasi sempre e solo storia della filosofia, non hai mai pensato di realizzare per la scuola invece un libro di filosofia? Ad esempio un manuale che, invece di partire da Talete per arrivare a Derrida, affronti delle macro-sezioni (la politica, l’amore) in cui contrappone i pensieri dei diversi autori? Sarebbe possibile farlo in Italia?

Non proprio, non ora. Le indicazioni ministeriali non hanno ancora scardinato un impianto che per consuetudine e indicazioni stesse rimane sostanzialmente storico-cronologico. Ma un po’ tutti i manuali, in realtà, offrono interessanti spunti tematici, anche interdisciplinari, pur senza arrivare al modello francese.

Nell’aria filosofica Loescher sta pubblicando proprio ora un’interessante novità, che sarà tra i banchi di scuola il prossimo anno scolastico. Si tratta di un manuale firmato da Umberto Curi, uno dei filosofi italiani contemporanei di maggior peso.

 

Volevamo chiederti qualcosa su questo nuovo manuale. Partiamo dal titolo, Il coraggio di pensare, che ricorda la massima kantiana del sapere aude. In che senso oggi bisogna avere coraggio per pensare filosoficamente e perché è importante insegnare questa audacia ai ragazzi?

Quando si progettava il manuale, ci sembrava importante che i ragazzi capissero che il mondo non si cambia da soli, ma con gli altri (oltre che per gli altri). Ma per fare le cose con gli altri, occorre condividere le idee (e quelle argomentate sono le più condivisibili, per loro natura), e quindi le parole che si usano per esprimerle. Idee (quindi parole) condivise, argomentate, discusse: queste cambiano il mondo. Se si capisce, si restituisce dignità e peso alle parole, e alle conseguenti azioni che esse possono generare. Se pensare vuol dire generare azioni, allora pensare è altamente responsabilizzante: come potrebbe non incutere timore e quindi non pretendere, il pensiero, una certa dose di coraggio?

 

In breve, qual è l’aspetto di questo manuale che ritieni meglio riuscito, e quale è l’elemento di maggiore novità rispetto alla concorrenza?

Abbiamo puntato moltissimo su due aspetti: un testo estremamente rigoroso (si ragiona sempre, non esistono idee offerte al lettore come fossero verità scolpite nella pietra) e al contempo formativo: abbiamo cercato infatti di mostrare il carattere ancora vitale di certe idee filosofiche, che hanno dato forma alla nostra vita e alle nostre convinzioni anche senza che noi stessi ne fossimo consapevoli, e come i grandi pensatori hanno cercato di mostrare le loro vie per diventare maggiorenni, ovviamente in senso intellettuale. Un bello stimolo, per ragazzi che stanno per diventarlo in senso anagrafico.

 

Come è stato collaborare con un autore importante e affermato come Umberto Curi? Il professor Curi ha sempre insegnato all’università, come avete fatto ad adattare la sua metodologia ad un manuale per la scuola superiore?

L’editoria scolastica è un’editoria di progetto: lo si condivide con l’autore e lo si porta avanti, e ognuno ovviamente (tanto l’editore quanto l’autore) ha fatto le proprie rinunce, ma sempre, e questo è il bello, in vista di un fine più alto: un progetto funzionale e valido, adatto per i docenti e gli studenti. Lavorare con Curi è stato molto divertente (anche se non sono certo mancati i momenti di tensione) perché si partiva da un assunto iniziale interessante: Curi, all’università, ha sempre dissuaso gli allievi dall’acquisto di qualsivoglia manuale, perché nessuno avrebbe potuto restituire il carattere vivo, formativo e dialogico che ha la filosofia “praticata”. I manuali a suo dire insegnavano pensieri, non a pensare. Se ha accettato di essere l’autore di un manuale scolastico è perché abbiamo condiviso e realizzato un progetto che finalmente, per la prima volta, ambiva a insegnare a pensare e non a snocciolare opinioni filosofiche.  

 

Chiudiamo infine con una domanda che siamo soliti fare a tutti i nostri ospiti: che cos’è per te la filosofia?

Prima di entrare nel mondo dell’editoria, ho insegnato per un anno in un liceo torinese e durante quel periodo mi fu chiesto di scrivere un articolo sulla filosofia per la rivista della scuola. La cosa mi spiazzò: dopo aver studiato e scritto per anni intere pagine su poche parole di alcuni filosofi, avevo perso di vista il senso generale dell’esercizio filosofico, ma la genericità della richiesta in realtà mi fece bene. E torna utile ora per rispondere. A farla breve: a nessun uomo basta respirare, bere e mangiare per essere felice o almeno sereno. Riflettere su se stessi e gli altri, sulle relazioni, “curare” l’interiorità con metodo ed esercizio (l’insegnamento di Pierre Hadot rimane insuperato) è qualcosa a cui gli uomini non possono rinunciare. C’è una gran differenza tra sopravvivere e vivere: la filosofia è quella differenza, e riesce ad esserlo senza costruire barriere, ma anzi abbattendole.

 

Lorenzo Gineprini

 

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Educhiamoci a pensare

E pensare che c’era il pensiero”
Giorgio Gaber

 

La filosofia è sin dalle sue origini esercizio del pensiero secondo ragione. I filosofi da sempre considerano l’uomo come l’essere per eccellenza dotato di pensiero e che, proprio questo dono ricevuto da Dio oppure dalla Natura, ha il compito e la responsabilità di adoperare.

È sufficiente scorrere celermente la galleria dei sapienti per scorgere quanta importanza venga accordata da ciascuno al bisogno di pensare. Partendo da Aristotele, per il quale la mansione propriamente umana è l’attività teoretica e la felicità stessa dell’uomo consiste nella vita di pensiero1. Passando per Severino Boezio che definisce la persona come “sostanza individuale di natura razionale”, fino a Cartesio dove il cogito è il fondamento metafisico affinché si possa affermare di non ingannarsi circa la propria esistenza, approdando all’illuminismo kantiano, stagione nella quale il pensiero riceve con decisione il più luminoso dei riconoscimenti. Scrive il filosofo di Konigsberg in un celebre articolo: «Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! Questa è dunque la parola d’ordine dell’illuminismo»2.

Sempre più spesso l’uomo del tempo presente rinuncia invece all’esercizio del pensiero. La sua qualità precipua, ciò che per antonomasia lo distingue da piante e animali, sembra tragicamente perdersi nel vuoto. È sufficiente osservare la vita, le scelte e le modalità di esprimersi di buona parte degli esseri umani che compongono la società ipermoderna  per constatare che la centralità del pensiero razionale, attorno alla quale si è sviluppata la cultura occidentale, sembra sgretolarsi all’incedere di esistenze sempre più vuote e anonime.

È ancora una volta la parola filosofica che può venire in soccorso della crisi contemporanea, esortandoci a rieducare la nobile e quanto mai preziosa facoltà del pensiero. Nella complessità del tempo presente, che sembra travolgere freneticamente le esistenze, la soluzione non è infatti quella di abdicare il pensiero in favore di un’illusoria leggerezza (certamente, l’uomo necessita anche di quella, purché consapevole), quanto piuttosto riconoscerne il suo intrinseco bisogno. Invero, un uomo che non pensa è un uomo che lascia agli altri la possibilità di pensare per lui. È un soggetto che, secondo Kant, preferisce rimanere in uno stato di minorità, di eteronomia, senza mai raggiungere l’autonomia che consiste nell’esercizio costante e consapevole del pensiero libero. «È così comodo – asserisce Kant – essere minorenni. Se ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie la dieta per me […] Non ho bisogno di pensare […] altri già si incaricheranno per me di questa fastidiosa occupazione»3. L’uomo preferisce farsi guidare e governare dagli altri, siano essi esseri umani o istituzioni, piuttosto che accedere all’autonomia attraversando la fatica del concetto. Così facendo il soggetto diviene incapace di scegliere liberamente, di agire criticamente e anzitutto di discernere il bene dal male. Ed è questa, come ha mirabilmente intuito Hannah Arendt, la dolorosa lezione che ci giunge dal recente passato totalitario. Occupandosi del processo al gerarca nazista Otto Adolf Eichmann, la pensatrice politica tedesca ha sostenuto che, avendo completamente rinunciato a pensare autonomamente, quest’uomo aveva perduto la possibilità di agire con libertà, sottomettendosi così ad un potere superiore, in questo caso ad un potere criminale. Egli era divenuto un cieco esecutore, che avendo abdicato al lieve evento del pensiero non era più stato capace di distinguere il bene dal male. Scrive Arendt riferendosi ad Eichmann: «Per dirla in parole povere, egli non capì mai ciò che stava facendo […] non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»4. La profonda analisi di Arendt spiega che è proprio laddove si abbandona il pensiero che il male dilaga, poiché la ragion pratica si può esercitare moralmente solo se preceduta da una pratica della ragione.

La contemporaneità, non sta dunque solamente attraversando una crisi economica senza precedenti, ma forse e più precisamente sta avanzando verso il futuro senza pensiero. Ma quale futuro può darsi senza l’esercizio del pensiero? Anche il tessuto socio-economico può infatti iniziare a ripartire solo se vi è un utilizzo serio e ponderato della ragione autonoma, che guidi a scelte equilibrate e lungimiranti nell’agire. L’analisi profonda della realtà, scorge che la decadenza è prima di tutto una crisi di individui che in parte o totalmente ripudiano il pensiero, finendo per confluire in masse che pensano e agiscono al posto loro. Dove tutti fanno ciò che fanno gli altri (conformismo) e vogliono ciò che vogliono gli altri (totalitarismo). Uno sguardo antropologico e sociologico non può che confermare questa tendenza spersonalizzante, che si rivela proprio nel momento in cui si esclude il pensiero. In questo senso risuonano più attuali che mai le parole di Carlo Maria Martini, il quale ebbe a dire: «Mi angustiano, invece, le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante»5.

L’esercizio del pensiero è la condizione senza la quale non si dà libertà alcuna. Una libertà interiore che niente e nessuno ci potrà mai strappare. «Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. […] Studiamoci dunque di pensare bene»6 scriveva Pascal. Solo così potrà avanzare un mondo moralmente orientato al bene e per questo più umano, più vivibile e dove come singolo «non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Bari 2017.
2. I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari 2019, p. 45.
3. Ivi, p. 45
4. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Felrtinelli, Milano, 201423, p. 290.
5. C. M. Martini, G. Porschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, p.64.
6. B. Pascal, Pensieri, Edizioni San Paolo, Milano, 198712, p. 240.
7. Ivi, p. 241.

[Immagine tratta da unsplash.com]

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Gli intellettuali oggi

Oggi l’intellettuale è una delle figure più vituperate insieme a quella dell’insegnante e del medico. Dai giornali, dai social network, dai talk televisivi si attacca sempre più spesso colui che desidera riflettere in maniera più approfondita su un certo tema poiché non sarebbe un’azione abbastanza pratica; d’altronde termini quali intellettualoide, professorone, filosofo ecc sono tra i dispregiativi più utilizzati per delegittimare chi esercita il pensiero.

Da dove deriva questo rancore?

Una delle ragioni principali deriva dal fatto che l’intellettuale non produce materialmente ricchezza. Non è dunque un lavoratore o un individuo che si mette a fare, un termine quest’ultimo talmente abusato ormai che se non si fa o non si mostra quanto si fa (in Facebook ad esempio), ci si sente colpevoli o perfettamente inutili in un mondo dove l’ordine di produrre ha esteso le sue lunghe braccia anche nel cesso di casa.

Dunque per ottenere rispetto da parte del pubblico, l’intellettuale contemporaneo è costretto a definirsi un professionista, un colletto bianco con una ventiquattrore contenente l’ultimo sensazionale libro dalla copertina dai colori sgargianti e con un titolo stampato a caratteri cubitali. Inoltre, essendo un professionista dovrà limitarsi a commentare solo ciò che è inerente al suo campo di competenza, un quadratino sempre più piccolo nell’epoca della parcellizzazione dei saperi: sei il massimo esperto delle mele, ottimo. Non azzardarti però a parlare delle pere, son troppo diverse quindi non puoi comprenderle. Oltre a limitarsi al suo campo di competenza, l’intellettuale contemporaneo per forza sarà costretto a schierarsi o tra le file dei buonisti acritici che credono in un mondo a forma di cuore, oppure fra i complottisti di mestiere che dietro a ogni zona d’ombra ricamano teorie da milioni di Like. Non ci si può astenere altrimenti sei uno della casta.

In realtà, io credo che l’intellettuale debba avere un altro profilo.

Innanzitutto dovrebbe avere fiuto, ossia la capacità di leggere e calibrare gli equilibri sociali prima degli altri. Per questo, occorre che l’intellettuale sia dotato di un senso critico estremamente sviluppato. Si può difendere una causa, si può dare voce a un punto di vista, ma la critica deve per forza venire prima della solidarietà (di fedeltà neanche parlo). Di conseguenza, l’intellettuale non potrà schierarsi apertamente prima di non avere sottoposto all’esercizio della critica questo primo legame in particolare e tutti quelli che legano le infinite componenti di una società. A tal proposito, per chi lavora con il pensiero non esistono ordini fissi, gerarchie naturali, presupposti intoccabili e verità a priori in quanto tutto è mutabile, rovesciabile e segmentato.

Insomma da questa breve descrizione l’intellettuale sembra essere un guastafeste, l’amico noioso che alle feste vuole ascoltare il vecchio e saggio Guccini al posto del giovane e superficiale Rovazzi. In realtà non è proprio così. Chi vuole partecipare ai dibattiti e alle riflessioni d’oggi non può vivere al di fuori del mondo come un eremita o provare nostalgia per quel passato della serie “si stava peggio quando si stava meglio”, ma bisogna che si immerga con tutto sé stesso nel suo tempo. Per questa ragione è impensabile non avere un account Facebook e/o Twitter dal quale commentare, anche in maniera provocatoria, ciò che succede con il pericolo di essere attaccato su tutta la linea da diversi leoni da tastiera.

Per concludere, l’intellettuale non può permettersi di essere schizzinoso di fronte agli strumenti di comunicazioni odierni e in generale di fronte alla società contemporanea. Occorre sporcarsi nello stesso fango dove nuotano gli altri, controbattere colpo su colpo senza perdere il senso critico, la vera arma di chi lavora con il pensiero. Magari insieme a un vocabolario incisivo e comprensibile da tutti.

Marco Donadon

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Architettura ed etica del verde: intervista a Stefano Boeri

In occasione della XX edizione del Festivaletteratura, lo scorso settembre abbiamo incontrato l’architetto e urbanista Stefano Boeri, che quel giorno presentava il suo libro Un bosco verticale. Libretto d’istruzioni per il prototipo di una città foresta (Corraini, 2015).
Quello del “Bosco verticale”, due torri residenziali nel quartiere Isola a Milano, è un progetto molto apprezzato che ha consolidato il suo riconoscimento come architetto a livello internazionale. Il suo lavoro presso lo studio Stefano Boeri Architetti (che tra le altre cose ha collaborato alla delineazione del masterplan di Expo 2015) viene affiancato dal suo incarico di professore ordinario di Progettazione Urbanistica al Politecnico di Milano, nonché di visiting professor in alcune università di tutto il mondo; dal 2004 al 2007 è stato alla direzione di Domus e dal 2007 al 2010 di Abitare, entrambe riviste d’architettura note a livello internazionale; ad oggi collabora ancora con alcune riviste (non solo d’architettura) tra le quali Wired.
Con lui abbiamo cercato di capire come l’architettura possa dialogare con la dimensione naturale dell’ambiente e anche di come possa intervenire all’interno della crisi ambientale in corso; si tratta di una disciplina molto affascinante e nonostante la sua applicazione sia puramente tecnica, essa scaturisce da profonde riflessioni sull’uomo, la sua natura e i suoi bisogni.

 

Nel 2014 ha vinto l’International Highrise Award per il suo Bosco Verticale, scelto dalla giuria secondo “parametri” legati alla sostenibilità, alla qualità estetica esteriore ma anche di vivibilità dello spazio; ai non addetti ai lavori tuttavia balza evidentemente agli occhi il lato “verde” del progetto. Nel mondo di oggi, come può e deve rientrare in architettura il tema della natura e dell’ambiente?

Entra in tanti modi: entra come fenomeno di ricolonizzazione da parte Boeri_Progetto Bosco Verticale1 - La chiave di Sophiadella natura di parti di città o di territorio antropico abbandonati, entra come questione nel rapporto con le superfici verdi, cioè il fatto che oggi le nostre sono città minerali con pochi spazi lasciati al mondo vegetale, e noi dovremmo invece – in prospettiva anche di contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico – sia moltiplicare gli spazi vivi e verdi tradizionali (parchi, giardini, viali, boschi…), sia (come nel caso del Bosco Verticale) sperimentare forme nuove di presenza del verde in città. Poi c’è anche il tema della biodiversità, che è un altro tema fondamentale: aumentare superficie verde è anche un metodo per aumentare la biodiversità, non solo della flora ma anche della fauna.

Boeri_Progetto Bosco Verticale2 - La chiave di Sophia

In un’intervista del 2007 Zaha Hadid espresse la sua sensazione che le persone in Italia fossero spaventate dal cambiamento e che dunque tendessero ad evitarlo. Il suo Bosco Verticale s’inserisce nella cornice di una Milano in continua crescita in cui i nuovi progetti d’architettura fanno da specchio a questa tendenza, cercando forse di recuperare una sorta di iato venutosi a creare con altre grandi metropoli europee. Lei cosa ne pensa? Aveva ragione Hadid, o in Italia siamo capaci di equilibrare l’innovazione e il contemporaneo con la tradizione?

Aveva ragione Hadid, nel senso che l’Italia per molti anni ha avuto paura di affrontare il contemporaneo nell’architettura, e questo per diverse ragioni: per esempio perché abbiamo avuto una stagione straordinaria negli anni Cinquanta e Sessanta di trasformazioni che invece sono state molto coraggiose e in cui domina il contemporaneo; inoltre perché la presenza della storia, con quella grande stagione fertile verso il recupero, hanno messo in secondo piano la necessità del contemporaneo. Negli ultimi anni invece le cose sono un po’ cambiate e devo dire che è vero  (anche se a volte non sempre in modo, come dire, felice), il contemporaneo ha ripreso possesso di alcune immagini delle nostre città: quindi sì, adesso sappiamo equilibrare la tradizione con il contemporaneo.

Il suo progetto di riqualificazione del porto de La Maddalena per il G8 del 2009 è probabilmente l’esempio lampante di come un buon progetto d’architettura sia in realtà soggetto a molteplici e a volte incontrollabili forze esterne. Ha qualche speranza di un esito positivo?

Mah non lo so, sono abbastanza disperato. Sono ovviamente sempre attivo su quella faccenda e sono informato su Boeri_Progetto La Maddalena - La chiave di Sophiaquello che sta succedendo: ci sono delle promesse, ci sono delle risorse… E’ un problema sostanzialmente di accordo tra la concessionaria Marcegallia, la Regione Sardegna e la Protezione Civile; il problema è che o la Presidenza del Consiglio riesce a risolvere o sennò nonostante le risorse, nonostante le buone intenzioni, non si farà nulla. E ogni mese che passa si perdono anni di qualità di architettura, di materiali, quindi… Quindi sono disperato, è proprio una brutta storia.

L’uomo è sempre stato particolarmente curioso del futuro, anche della quotidianità del futuro, e soprattutto attraverso il cinema ha provato anche a rappresentarlo – pensiamo a Star Trek, piuttosto che Blade Runner. Lei come pensa appariranno la metropoli e la cittadina del ventiduesimo secolo?

Io penso che il modo migliore per pensare al prossimo secolo sia di pensare al secolo scorso, cioè proiettare nel futuro la distanza temporale verso un passato che conosciamo: questo per capire l’accelerazione, le tendenze… La città del prossimo secolo sarà una città probabilmente per certi aspetti totalmente altra, e per una ragione, cioè che c’è una questione ambientale che se non viene gestita – come ora non viene gestita – nei prossimi anni in modo sempre più radicale si rischia di creare una situazione drasticamente nuova, per cui molte città saranno sommerse dall’innalzamento del livello degli oceani, molti spazi e molte città verranno abbandonati per la desertificazione… ci sarà forse l’opportunità e la necessità di immaginare una migrazione su altri pianeti, ci sarà… ci saranno problemi enormi. Io per esempio sto lavorando su un’idea di Shanghai 2116, perché insegno alla Tongji University di Shanghai e lì abbiamo messo in campo anche l’idea di costruire una nuova Shanghai su un altro pianeta.

Quali significati assumono l’etica e l’estetica applicate all’architettura?

Beh evidentemente sono intrecciate ed evidentemente, come dire, si parlano, nonostante siano anche due dimensioni molto diverse. L’estetica comunque non è mai una categoria generalizzabile, ha degli interlocutori e dei destinatari, una cosa bella non è bella in assoluto ma bella rispetto ad alcune aspettative, bisogni ed alcuni immaginari… anche solo pensando a questo si scorge il dialogo tra le due.

Etica ed estetica sono in effetti branche della filosofia: sentire questi termini legati ad una disciplina apparentemente esclusivamente tecnica come l’architettura avvalora la nostra concezione di filosofia. Che cos’è per lei la filosofia?

E’ un’interrogazione sul senso della vita.

 

Non è così scontato. Ritengo che molte delle conflittualità, degli orrori e degli errori del nostro tempo siano dovuti proprio alla banalizzazione del senso della vita, che non viene più indagato veramente, perché si pensa la vita come una batteria che si consuma e non come un dono. Anche l’architettura (come tutte le nostre altre discipline) interroga e fa interrogare noi stessi su questo: per esempio, perché un terremoto fa crollare così facilmente un edificio, e che valore hanno dato alla vita le persone che l’hanno costruito? Ne hanno dato abbastanza? Ma non solo. Pensiamo al ponte più moderno di Venezia e a tutte quelle pecche che lo rendono così problematico da attraversare: chi l’ha progettato si è veramente immedesimato nelle persone che quotidianamente viaggiano da una riva all’altra? Ai loro bagagli, ai loro passi, alle loro esigenze nel farlo? Oppure ancora: che cosa rappresentano opere come il Pantheon di Roma, la Grande Muraglia, l’Empire State Building? Di quali vite, di quali sogni raccontano? In effetti potremmo non smettere mai di farci domande sulla vita soltanto guardando un’architettura.
Ecco dunque che non è così scontato riflettere sul senso della vita. Come risolvere molte problematiche del nostro mondo? Semplicemente continuando a pensare.

Giorgia Favero

[Immagini di proprietà di Stefano Boeri Architetti]

Come ragioniamo quando agiamo

La filosofia, si sente dire, insegna a pensare. Ma cosa s’intende dire quando ci si esprime in tal modo?
Per capirlo è necessario prima esaminare cosa vuol dire pensare. Ci hanno provato diversi filosofi esaminando la questione sotto vari aspetti. Ad esempio Kant, che con la sua distinzione tra giudizi analitici a priori, a posteriori e sintetici a priori continua a far inorridire generazioni di studenti, e di cui oggi – sospiro di sollievo – non parliamo. Utilizziamo invece la distinzione introdotta da Peirce, che distingue tre tipi di ragionamenti: deduttivo, induttivo e abduttivo.

Il ragionamento deduttivo è usato dalle scienze esatte, come la matematica e la logica. Queste raggiungono la verità in modo definitivo e meccanico. Partendo da assiomi o da principi ultimi, arrivano a conclusioni altrettanto vere. Nei termini dello stesso Peirce, in questi casi, abbiamo come premesse una regola, ad esempio: la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è 180, e un caso: questo triangolo disegnato alla lavagna. Come conclusione un risultato: Questo triangolo ha come somma degli angoli interni 180.

Al contrario nel caso dell’induzione partiamo da un caso: “piove”, e da un risultato: “esco e per strada scivolo”. Se la cosa si ripete e se sono mediamente intelligente, inizierò a pensare che ci sia sotto una regola del tipo: “quando piove le strade sono scivolose”. È evidente che abbiamo già di molto sporcato la purezza della verità dell’inferenza deduttiva. Ci sono infatti buone possibilità che io sia in errore servendomi di questo tipo di ragionamento. Esso è il metodo proprio delle scienze naturali come la fisica, la biologia etc. La possibilità di errore è radicalmente intrinseca a queste scienze, al punto che Popper ha con successo proposto di utilizzarla come criterio definitorio di ciò che è scienza: una scoperta scientifica quindi, deve portare con sé la possibilità di principio di essere negabile da nuove osservazioni.

Il terzo tipo di ragionamento, l’abduzione, è quello utilizzato principalmente nella vita di ogni giorno, in situazione, nel concreto. Esso fra tutti è il più lontano dalla luce della verità: è il più rischioso dei metodi. Si basa sull’applicazione di una regola: “Se c’è odore di pane nell’aria deve esserci del pane nelle vicinanze” ad un risultato: “sento effettivamente, entrando in casa, il dolce aroma del pane appena sfornato” in modo da ottenere un caso: “in qualche modo deve essere comparso del pane in casa mia”. Il problema di questo tipo di ragionamento, risiede proprio nel fatto che benché il risultato sia certo, forse stiamo applicando ad esso la regola sbagliata. Rimanendo sull’esempio di prima, potrebbe darsi il caso che il mio coinquilino abbia deciso di provare un bizzarro nuovo profumo, o l’odore potrebbe venire dall’appartamento del vicino.
Cosicché se sentendo l’odore di pane mi metto a cercarlo, agisco in forza di un’interpretazione della situazione; in poche parole sto scommettendo sull’efficacia dell’utilizzo della regola nel particolare contesto. È inutile dire che questo tipo di scommessa, come ogni vera scommessa, non si basa completamente su una decisione ragionata, ma è esito di una sorta di sesto senso – una razionalità silenziosa perché precosciente – presente in ognuno di noi.

Torniamo allora alla domanda che ci siamo posti all’inizio: “cosa vuol dire che la filosofia insegna a pensare?”. Alla luce di questi brevi chiarimenti, possiamo concludere che la filosofia ci aiuta senza dubbio ad affinare il ragionamento deduttivo, in parte quello induttivo e in generale a riflettere su questi meccanismi nell’insieme. Ma oltre a ciò, l’insegnamento della filosofia consiste anche nel capire il funzionamento del ragionamento abduttivo, tenendo a freno certe interpretazioni superficiali e deleterie che finiscono per avere effetti negativi sulla vita di tutti i giorni. Sicché quell’imparare a pensare, è in certa misura, imparare a vivere.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

Bukowski e il blocco dello scrittore

«Scrivere del blocco dello scrittore è sempre meglio che non scrivere affatto»1.

Charles Bukowski in questo caso ha ragione. Dedico questo promemoria filosofico proprio alla pagina bianca, sofferenza dello scrivere e quell’appagante gioia che ti dà nel momento hai finalmente scelto l’ultimo punto.

Il blocco dello scrittore è l’evento più devastante che può accadere ad uno scrittore. Avere idee e non saperle esprimere, continuare a cancellare la stessa frase almeno duecento volte e rimanere sempre di fronte a quella pagina bianca in cui ti rifletti. Si prova una sorta di vertigine, pur non stando in piedi, pur non stando in alto fisicamente. Non è neanche possibile accartocciare la carta in cui abbiamo scarabocchiato i tentativi di appunti, ormai si scrive quasi sempre su un foglio virtuale, non c’è neanche questa via libera per la frustrazione. Ma pensandoci non succede solo agli scrittori: a chi non è successo quando era alle scuole e ha avuto un blocco durante un tema? Chi non sapeva quella volta come scusarsi di fronte al torto fatto? Chi non sapeva cosa scrivere in quel messaggio per quell’amico lontano? A chi non è successo di non sapere esprimere chiaramente i propri sentimenti ad una persona cara?

Spesso quel vuoto ci assilla e ci assale e ci fa perdere nell’insensatezza dei nostri pensieri. L’ignoto dell’indefinito, di quello che ancora non abbiamo chiarito con delle semplici frasi si propaga davanti a noi. Il non riuscire a scrivere ci terrorizza. Il non riuscire ci blocca. Lo si può chiamare anche terrore e paralizza. Dunque la scelta più facile sembrerebbe lasciare stare, magari riprovare più tardi, un’altra volta.

Non solo nella scrittura ma soprattutto durante la vita avviene. Se non abbiamo una strada tracciata e bisogna partire da zero, è impossibile non essere impauriti da quello che può succedere. Il nuovo può provocare angoscia, propriamente la paura dell’indefinito, dell’infinito possibile. Uno scrittore non sa mai dove lo porterà quel nuovo paragrafo, quella frase in cui un racconto inizia e una storia prende forma, come in un viaggio on the road in posti sconosciuti. Non si conosce la strada da percorrere.

Ed è forse qui che l’unica cosa che ci salva davvero è per il suo senso opposto quell’indefinito, come per il bicchiere mezzo vuoto, che di fatto è anche mezzo pieno. Quel mezzo pieno ci permette di essere in qualche modo positivo e dire a noi di stessi che ce la possiamo fare, perché c’è qualcosa di nuovo da intraprendere. Nuove prospettive da analizzare, scelte azzardate e fidate a seconda di quello che l’istinto ci guida. Se l’angoscia ci spinge da una parte, è emozionante dall’altra, l’ignoto ci fa provare diversi effetti.

Così anche scrivere di questo blocco aiuta lo scrittore a esprimere il suo malessere, ma pur sempre gli consente di scrivere. Lo sforzo aiuta ad andare avanti a pensare, a vivere nel modo migliore che ci è permesso; alla fine è tutta questione di volontà fin dove ci è dato. Esercizi quotidiani di scrittura, come sempre anche un po’ di vita per andare avanti, passo dopo passo verso un futuro. Oppure come in questo caso al prossimo punto e ad un nuovo articolo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Charles Bukowski.

[Immagine tratta da Google Immagini]