Filosofia: amore per il peccato

“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché, nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire”1

“Ma il serpente disse alla donna: “Voi non morirete affatto!” Anzi. Dio sa che nel giorno in cui mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male2.

Un divieto imposto a priori e una tentazione che, come un vento leggero, rinvigorisce un fuoco già acceso: così sembra procedere il racconto biblico di Adamo ed Eva, primi peccatori e ultimi dogmatici.

La scelta effettuata da Eva rappresenta una straordinaria svolta nella “storia umana” e nella concezione che da essa ne deriva: l’uomo sceglie infatti volontariamente di tendere al peccato più grande e affascinante, cercando di raggiungere l’albero del bene e del male.

In questo passo della Bibbia, si assiste ad una sorta di nascita allegorica della Filosofia come tendenza umana alla fuga verso tutto ciò che è imposto e che appare assolutamente certo: i personaggi, soggetti apparentemente nudi nella carne e nello spirito, dubitano di Dio stesso, della verità che sembrerebbe essere incontrovertibile, e scelgono di imboccare la strada del dubbio, assai più ripida e ben più pericolosa.

E da lì in poi, da quel fatidico giorno di storie lontane e di visioni allegoriche, l’uomo scivola verso l’abisso più profondo, la dimensione dell’incertezza, in cui ogni posizione apparentemente certa è in realtà un filo sottile o un terreno instabile da cui fuggire: ed è proprio nel suo “andare oltre”, scacciando il dogma, che risiede la grandezza di un uomo nuovo, consapevole di se stesso e della propria capacità di esercitare il dubbio.

Adamo ed Eva scelgono infatti di coprire il proprio corpo: non sono personaggi in preda al pudore e alla vergogna, ma dimostrano invece di essere dei soggetti nuovi che hanno maturato una nuova visione di sé… L’individuo si spoglia della verità certa e inconfutabile, capace di celarla persino a se stesso e trova quindi il coraggio di osservarsi, scoprendo, con differenti occhi, di essere fragile, nudo.

Ed è proprio dalla morte della certezza, dallo stupore verso il mondo, dalla meraviglia, dal timore di sé e della voglia di scoprirsi veramente che nasce la Filosofia e che sembra emergere una nuova vita, non già edificata, ma da costruire, pezzo dopo pezzo.

Continueremo a costruire incessantemente la nostra esistenza, la nostra scala, poi faremo qualche passo indietro e osserveremo la nostra creazione, chiedendoci se in fondo non sia tutto il gioco di un bambino che crea e immediatamente distrugge, perché è nella creazione e nella costruzione che risiede tutto il suo divertimento.

Forse è anche questo il destino dell’uomo, perennemente bambino: edificare teorie ed edifici, distruggerli e poi creare nuova vita.

Costruire pensieri e abbatterli.

Costruire se stessi e mettersi radicalmente in discussione: perché senza fine non c’è inizio e senza caduta non c’è sollevamento.

Probabilmente però, una scala debole e instabile, resisterà alla distruzione e consentirà all’individuo di tornare a vedere, per qualche istante, il proprio Paradiso.

L’uomo chiederà a Dio di poter osservare per un’ultima volta l’albero del bene e del male, per poter peccare ancora, elemosinando un frutto di dolce conoscenza e di amaro dubbio: e sarà proprio quando le sue mani toccheranno i frutti sacri e maledetti che inizierà nuovamente la sua caduta.

Questa volta si chiederà però se quei frutti siano mai maturati e se Dio sia realmente esistito al di fuori della propria mente: nessun urlo durante la caduta, solo il rumore di insostenibili pensieri.

 

Gabriele Iacono

Gabriele Iacono è uno studente di diciotto anni: ha collaborato con “Bravi Autori” e “Archivio Immaginazione”, partecipando inoltre ad alcuni concorsi di scrittura e alla pubblicazione di numerose antologie di racconti.
Oggi è articolista presso il giornale online “Il Post Scriptum” e recentemente ha pubblicato il suo primo libro, intitolato “Eterni Prigionieri”.

 

NOTE:
1. Genesi 2: 16-17
2. Genesi 3: 4-5

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Nessuno si salva in compagnia

Alors, c’est ça l’enfer. Je n’aurais jamais cru. Vous vous rappelez: le soufre, le bûcher, le gril … ah.
Quelle plaisanterie. Pas besoin de gril: l’enfer, c’est les Autres.
(J.P. Sartre, Huis Clos, scène V) .

 

Ho pensato spesso all’inferno. A dire il vero, c’ho scritto sopra una tesi di laurea.
Ero arrivato a dire che l’inferno non esiste.

Ti svegli ogni mattina e capisci che hai ragione.
La tua anima (indubitabilmente peccatrice) non finirà perseguitata dai demòni.

Mi sveglio ogni mattina e capisco che ho torto.
L’inferno forse non esiste, ma esiste questo mondo.

E questo mondo è peggiore dei gironi danteschi o miltoniani, lo sai.

Leggo il giornale. Povertà, omicidi, attentati islamisti, carestie, guerre dimenticate, morte.

È questo l’inferno? È il mondo che ti attornia?

E se fosse la stessa mia vita?
La solitudine, l’imponderabile pesantezza dell’esistere, l’aridità del sentire, l’invisibile desiderio di avere?

Forse … ma se fosse tutto più semplice?
Se l’inferno fosse qualcosa di più banale, una persecuzione eterna e corporea …

Il fatto che mi sono alzato e ho gettato via le coperte, il caldo della camera, il rumore del mio respiro?

Perché no?
Guardati allo specchio: l’immagine che ti rimanda è sconfortante. Scendi, è finito il caffè. Macchina, viaggio, lavoro, traffico, burocrazia.
È questo l’inferno?

Attorno a me l’alito dell’esistenza: momenti incartapecoriti, consunti, mai vissuti, intonsi.
Non ho trovato la verità, né la risposta alla mia domanda fondamentale: “Chi sono io?”.
E sono qui, a cercare ancora: è questo l’inferno? Un costante bisogno che mi dilania …

Ricordati quel libro: Porta Chiusa; è di Sartre. L’hai letto e riletto, lo conosci a memoria.
Cos’è l’inferno? Solo lui lo sa perfettamente. L’inferno sono gli altri.

I diavoli sono costoro.
Li vedo. Mi attorniano, mi toccano, respirano la mia aria, sfiorano la mia carne.
Ma ben peggio, guardano. Ecco il loro forcone: lo sguardo.

Bravo! Pretendono di dirti chi sei e tu non hai altro modo di capirlo, se non facendoti guardare.

Sono i miei Minosse: giudicano, spogliano delle certezze.

Il mondo ti perseguita, gli altri sono male.

Sto in coda alla posta, ho una macchia sulla camicia: se nessuno guardasse, non ne sarei cosciente.
Arriva quella vecchia, mi fissa, vede, mi giudica.

Capito cosa intendevo? Eccoti, nudo nella vergogna, punito per una disattenzione originale!

Sono solo una cosa!

Ma certo! Credi d’apparir agli altri ciò che sei? Di mostrarti come fascio di sentimenti, pretese, ideali, sogni e speranze? Questi son solo fiori d’un ossario maleodorante di putredine!
Tu, amico, per altri, sei solo una carcassa che cammina.

È dunque questo l’inferno – esistere-a-causa-degli-altri. Reificarmi!
Esisto perché sono giudicato, consapevole che persino ogni più piccolo sforzo per apparire diverso, sarebbe vanità, se altri non approvassero …

Ah!, se solo decidessero di ignorarti o dimenticarti, allora saresti in paradiso!

Mi sveglio ogni mattina, e so che mi giudicheranno!

E che non ti resta nulla, se non la possibilità di adattarti oppure resistere al verdetto!

I mei diavoli … posso amarli oppure odiarli; accettarli oppure ricusarli.

Non dimenticartene: in fondo, anche tu puoi guardare!

Sì: anche io sono altro per altri!

Giusto! Anche tu hai occhi per pungere oppure accarezzare, benvolere oppure maledire!

E ci sarà sempre qualcuno che vorrà adoperarsi per migliorare l’opinione che io ho di lui.

Qualcuno sì, ci sarà, che dipenderà dal tuo sguardo, in questo mondo.

Sono vittima, ma anche giudice, giuria, giustiziere e ghigliottina.

E il tuo sguardo: deciderai tu se sarà di condanna o assoluzione … sei libero, perché sei vivo.
E soprattutto perché sei solo – libertà e solitudine son veli che s’intrecciano in un’unica cortina.

E quando qualcuno mi guarderà con amore … che farò?

Accade così di rado che faresti bene a non chiedertelo.
Ma − se proprio vuoi saperlo − è questo il senso della pesantezza dell’esistere. Restituire quanto s’è ricevuto.
Giudizio per giudizio, odio per odio, bene per bene.

Ed è anche il senso dell’inferno: la libertà è il mio inferno.

Ma è anche tribunale che tu, quotidianamente, presiedi!

E quelli che diranno che la vita è bella? Che si può essere felici? Che l’esistenza può esser leggera?

Allontanali, poichè mentono. Sono in malafede.
Nulla è leggero: tutto è vanità di pietra.

Ah, come li odio quelli che ti dicono che la vita è bella, che tutto andrà bene! Sono più irritanti di una suite dodecafonica e più stomachevoli d’una curva glicemica.
Ma, infine, mi sveglio ogni mattina, e ringrazio Dio di vivere nell’inferno della libertà.

Sì, amico mio. Tanto t’ha amato Dio, da mandarti all’inferno.

 

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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L’eterna contemporaneità di Ulisse

Facendo narrare ad Ulisse l’episodio del folle volo1, Dante costruisce un proprio doppio. Entrambi si dirigono verso il Purgatorio eppure, per molti aspetti, le loro vicende si collocano agli antipodi.

Quella dantesca è una discesa verso il nucleo dell’universo, cui segue una ascetica risalita verso la luce dell’Empireo; al contrario, il viaggio dell’eroe greco si sviluppa sul piano orizzontale delle conquiste geografiche (come quelle europee del ‘500, tanto vaste quanto sanguinarie).

Dante ha una guida in Virgilio, allegoria della ragione: attraverso il loro dialogo e le anime incontrate, egli procede moralmente e si purifica.

Ulisse viaggia in solitaria ed è vinto da un desiderio insaziabile di conoscenza: lui non dialoga, ma tutt’al più persuade con le arti della retorica. Non tende a un progresso etico, ma a un accumulo di esperienze. Il mondo di Ulisse è tutto chiuso nella sfera mondana di cui tenta di infrangere i limiti: ignora che le colonne d’Ercole sono un segno della volontà divina e vede il Purgatorio solo come una montagna bruna, certamente imponente e straordinaria, ma non più che un punto bianco sulla carta geografica.

Il mondo di Dante ha senso solo in prospettiva dell’ultraterreno: capisce l’umano perché fa esperienza del divino.

Ulisse, invece, è condannato dal non aver visto nient’altro che il suolo terrestre, limitando il mondo alla sola sfera dei sensi. Egli, cioè, ignora la sfera del trascendente che sola, per il Cristianesimo, può dare significato all’esistenza. Per l’eroe greco la conoscenza è un valore in sé, è essa stessa virtute.

Per Dante, invece, la conoscenza si acquisisce seguendo un cammino di perfezionamento morale il cui culmine risiede nel riconoscimento dei propri limiti e nella fede in Dio, il quale illumina su verità più alte di quelle raggiungibili con la semplice e sola ragione. Dante rilegge la sorte dell’eroe omerico secondo le categorie proprie della cultura cristiana.

Ulisse appare come un uomo senza Dio (non può neppure nominarlo) e perciò insensibile ai valori morali. La famiglia non lo trattiene né per affetto, né per senso del dovere («né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘ l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta […]»). L’unico ardore  che conosce è puramente individuale: «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», cioè «seguir virtute e canoscenza». Egli si lega ai compagni di viaggio perché condividono il suo progetto (e quindi solo strumentalmente). L’esperïenza che insegue è una conoscenza diretta e sensibile: il viaggio, con il suo senso di avventura e di scoperta personale, ne è l’emblema. Allo stesso modo, la virtute di Ulisse, per grande che sia, non è illuminata da Dio, ma si fonda sulla stessa semenza o natura umana: la conoscenza e l’esperienza, dice Ulisse, sono per noi quasi un istinto.

Nella cultura cristiana medioevale, invece, la conoscenza è sempre mediata da un principio di autorità (la tradizione, la Chiesa) e regolata da principi religiosi invalicabili. I teologi condannano spesso la curiositas come vana: all’uomo non è concesso sapere tutto, e volerlo fare è peccare di superbia. La caduta di Adamo ed Eva derivava da questo, poiché il serpente aveva promesso loro: «[…] Sarete come Dio, conoscerete il bene e il male»2. Odisseo agisce proprio infrangendo questi limiti: uomo del mondo classico, egli ignora le categorie del mondo giudaico-cristiano. La forza della sua ragione, tramite cui persuade i compagni a spingersi in un’impresa tanto rischiosa e a guidarli effettivamente verso il Purgatorio, viene polverizzata dalla potenza “oscura” e muta di Dio. Infrangendo il volere divino (rappresentato dalle colonne d’Ercole) e vinto dalla propria velleità, egli incaglia nella natura stessa delle cose e dell’uomo, che è stato proprio Dio a stabilire. La conoscenza di Ulisse si rivela così ignoranza, e la sua virtù peccato.

Come «archetipo mitico che si sviluppa nella storia e nella letteratura come un constante logos culturale»3,Ulisse attraversa, da Omero in poi, tutta la letteratura europea di ogni tempo testimoniando la straordinaria fortuna di un mito letterario che affonda le proprie radici nell’inquieto dipinto dell’esistenza umana, nella perpetua tensione tra viaggio e ricerca, colorandosi di significati sempre nuovi. Le numerose vite di questo personaggio risalgono a quell’attributo di cui Omero per primo si servì, per definirlo: polytropos (‘dalle molte forme’).

Dall’Iliade in cui è l’eroe astuto, artefice dell’inganno fatale del cavallo di Troia, all’Odissea in cui alla sua methis (‘astuzia’) si sovrappone il tema del suo nostos (‘ritorno’), dalle tragedie di Sofocle ed Euripide, all’ Eneide di Virgilio, alle Metamorfosi di Ovidio. Da A Zacinto di Foscolo, costruita sulla identificazione tra l’eroe greco e il poeta, che si sente esule alla perpetua ricerca di sé, alla figura inquieta dell’uomo moderno nelle poesie Il ritorno e Ultimo viaggio di Giovanni Pascoli, in cui l’uomo dalle molte forme viene ritratto al termine della propria vita, stanco e dubbioso. E ancora, nelle Laudi in cui D’Annunzio lo propone come incarnazione di un moderno superuomo, dotato di doti straordinarie, che si eleva al di sopra della massa e disprezza ogni pericolo; o all’Ulisse, di Umberto Saba, protagonista dell’omonima poesia tratta dalla raccolta Mediterranee (1946), il cui non domato spirito ne fa una proiezione dell’inquietudine del poeta e del suo doloroso amore per la vita. Infine, l’Ulysses di James Joyce, vera epica della modernità che narra in parallelo le giornata di Leopold Bloom e quella di Stephen Dedalus, riedizioni rispettivamente di Ulisse e di Telemaco, che vagano per Dublino nel caos del mondo moderno (fino ad incontrarsi nello spazio/tempo dell’inconscio), giungendo poi all’identificazione nel Primo Levi di Se questo è un uomo (1947). Qui, in particolare, la memoria dei versi danteschi è imprecisa, vessata dal silenzio e dall’oblio, quasi a sentire disperatamente la necessità di aggrapparsi alla poesia e rincorrerne l’eco, come se attraverso il ricordo fosse in grado di mantenere distanti morte e dolore. Il protagonista identifica il proprio tragico destino con quello di Ulisse, sommerso dalle acque e, per un istante, gli balena nella mente l’intuizione tremenda che quel destino sia stato fissato per volere divino: l’altrui piacque dantesco assume un effetto dirompente e tragico, e il viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole si trasforma nell’infernale odissea della Shoah4.

Dante e Ulisse sono eroi del viaggio: la meta verso cui impegnano il proprio incedere è la stessa.

La via per giungere alla conoscenza è ben differente. La conoscenza dantesca si sviluppa man mano che cresce il perfezionamento morale di chi aspira a realizzarla: l’elevarsi della propria moralità dà luce all’intelligenza.

Al contrario, l’indomita sete di sapere di Odisseo è collocata sul piano solo empirico.

Dante realizza un pellegrinaggio cosmico, Ulisse un’esplorazione animata da un’intrepida audacia.

Questa immagine attraeva Dante per la sua integrità e la sua forza e lo allontanava per la sua indifferenza morale. Ma osservando quei caratteri di eroico avventuriero, di ricercatore che indaga in tutte le regioni esclusa quella morale, Dante ha visto in lui qualcosa di più generale della psicologia del futuro che si stava avvicinando: ovvero, i tratti propri della coscienza scientifica e più ampiamente culturale del tempo nuovo, la separazione fra la scienza e la morale, fra la scoperta e il suo risultato, fra la scienza e la personalità dello scienziato5.

 

Riccardo Liguori 

NOTE:
1. Il poeta, con quest’espressione, condanna un’intelligenza che si rovescia nel suo contrario nel momento in cui si rifiuta di accettare i limiti che le sono imposti. Siamo nel XXVI canto dell’Inferno, Divina Commedia.
2. Genesi 3,5.
3. Definizione di Piero Boitani.
4. Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Einaudi, Torino, 1997, pp. 108-111.
5. J. Lotman, Testo e contesto, Laterza, Bari, 1980, pag. 98.

 

[L’immagine di questo articolo reca l’illustrazione in copertina alla versione dell’Odissea pubblicata da Feltrinelli]

 

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Studio sull’interpretazione anassimandrea della morte

Una delle domande più inquietanti che, da sempre, l’uomo si pone è: “Perché si muore?”

Per rispondere a questo quesito, scomoderemo uno dei filosofi più antichi che la storia del pensiero occidentale annoveri come proprio venerando e terribile antenato: Anassimandro (610-546 a.C.). Egli fu il primo pensatore a porre a fondamento dell’esistente non un elemento fisico, ma l’ἄπειρον [apeiron], che noi traduciamo con “Infinito” (α privativo + πεῖραρ “compimento, fine”).

I frammenti dottrinali di Anassimandro, secondo l’edizione dei Die Fragmente der Vorsokratiker di Diehls e Kranz, sono cinque: quello più famoso e filosoficamente più interessante è il primo (1b):

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον…έξ ών δέ ή γένεσίς έστι τοίς οΰσι, καί τήν φθοράν είς ταύτα γίνεσθαι κατά τo χρεών • διδόναι γάρ αύτά δίκην καί τίσiν άλλήλοις τής άδικίας κατά τήν τού χρόνου τάξιν.

Di questo frammento sono state date molte traduzioni e, ancor di più, interpretazioni; nella convinzione ermeneutica che la traduzione è già di-per-sé un atto ermeneutico, vorremmo aggiungere anche la nostra umile voce. La traduzione che noi presentiamo è:

Annunziò Anassimandro che principio delle cose-che-sono è l’Infinito … infatti, donde gli essenti han sorgente di vita, colà hanno anche necessariamente la morte loro; essi, infatti, pagano l’uno all’altro il fio e la purificazione dell’ingiustizia secondo la regolarità del tempo.

L’Infinito è causa tanto della vita quanto della morte “necessariamente”: κατά τo χρεών – ma perché i viventi pagano l’un l’altri il fio dell’ingiustizia?  E soprattutto, di quale ingiustizia? Quella di essere state create.

Nella logica anassimandrea, l’ἄπειρον è una totalità immobile – intangibile ma presente – che, per ragioni ignote, periodicamente è funestata da cicli di creazione e distruzione; specificamente, è possibile ipotizzare che ogni singolo ens-creatum, staccandosi dall’Infinito che lo genera, crei una perturbazione-cosmica che può essere risanata (secondo un principio di economia compensativa) solo dalla morte – cioè dal ritorno all’Infinito “causa originante” e “causa finale”.

L’allontanamento dall’Infinito è, parimenti, un fatto involontario e un reato preterintenzionale – per il quale ogni ente deve pagare; e come avviene questo “processo all’ente”? Secondo “la regolarità del tempo”. Una ragione empirica piuttosto chiara: gli esseri anziani, che prima d’altri si son distaccati dall’Infinito, normalmente, sono quelli che prima tornano a esso.

Come gl’entes muoiano, è assolutamente indifferente: quindi “che sia per spada o per lento sfacelo del tempo”, tutti i viventi perverranno alla φθορά, come ridondante monito a chi verrà dopo di loro, e riproposizione eterna di chi li ha preceduti sul lungo viale della notte eterna.

Altresì, è evidente che la nascita non solo è un reato, ma anche un peccato: un peccato originale meglio ancora, che, come conseguenza di una vera e propria sentenza, deve essere compensato da un castigo. Certo, la parola “peccato” è impegnativa, e non si suol attribuirla a concetti pre-cristiani, ma in questo caso ci sentiamo di usarla, e i testi anassimandrei potrebbero tranquillamente confermare la nostra scelta. Il frammento 2b recita:

(Una certa natura dell’infinito) è eterna e non invecchia mai1;

mentre il frammento 3b dice:

Così è il divino: immortale e indistruttibile2.

Ragioniamo: se il divino è immortale e indistruttibile, significa che esso è eterno – e non invecchia mai, ovvero non si corrompe; e tuttavia la natura dell’Infinito è appunto quella di essere eterna e incorruttibile; ne consegue logicamente che la natura dell’Infinito è divina e che quindi, l’atto generante gli enti, essendo un distaccarsi dal divino, viene a rivelarsi come un “peccato” (laddove per peccato intendiamo l’allontanamento dalla divinità). Conseguentemente, nascere è un peccato, e la morte è l’espiazione.

Se la nascita è peccato e la morte è penitenza – perché ricongiunge l’ente al divino – meglio sarebbe forse, per gl’uomini, non nascere proprio? Una domanda sensata.

Ragionandoci, però, non-nascendo non vi potrebbe essere comprensione dell’Infinito, dacchè solo l’Uomo comprende – stanti le sue particolari conformazioni intellettuali – l’Infinito: che ne sarebbe, dunque, di esso se non avesse la possibilità dell’autocompresione? A quel punto risulterebbe essere non più (un) infinito, ma (un) limitato dalla consapevolezza (mancata) di sé.

Un Infinito che non s’autocomprende come tale è un cattivo-infinito, perché limitato dall’ignoranza: di conseguenza, esattamente come la morte è κατά τo χρεών, perché chiude il cerchio del peccato e lo emenda, parimenti κατά τo χρεών è la nascita – senza la quale l’Infinito risulterebbe (mi si perdoni il giuoco di parole) finito. Ergo, il peccato della nascita è un peccato necessario, che richiede, però, un altrettanto necessario atto purificatorio.

In questo senso, una traduzione più libera, ma forse più pregnante del frammento 1b potrebbe essere:

Da dove gli essenti traggono la vita, ebbene lì hanno anche necessariamente la morte: infatti essi pagano l’un l’altro il fio ed espiano il peccato di essere nati, secondo l’ordine del tempo con cui sono venuti al mondo.

Torniamo ora al punto iniziale: perché c’è la morte? La risposta che ricaviamo da Anassimandro è la seguente: la morte c’è perché c’è la vita: simul stabunt vel simul cadent.

Morendo, ritorniamo a essere ciò-che-siamo, parte dell’Infinito, mentre nascendo, ci distacchiamo da esso. V’è dunque una legislazione cosmica che necessariamente, e inscindibilmente, collega l’atto di nascita a quello di morte.

E, d’altronde, ciò ch’abbiamo dimostrato, non è ciò che la sapienza dell’Occidente, da sempre, sa? Si muore semplicemente perchè s’ha da farlo. Nessuna eccezione è prevista. Tutto il nostro affannarci qui e ora, è puro niente:

Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Quid lucri est homini de universo labore suo, quo laborat sub sole? Generatio praeterit, et generatio advenit, terra autem in aeternum stat3.

[…] Al gener nostro il fato/non donò che il morire. Omai disprezza/te, la natura, il brutto/poter che, ascoso, a comun danno impera/e l’infinita vanità del tutto4.

David Casagrande

NOTE:
1. Trad. di G. Reale. In: I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani/RCS libri spa – Il pensiero occidentale, 2006 (20124), p. 197.
2. Trad. di G. Reale, ibidem.
3. Liber Ecclesiastes 1, 2-5.
4. G. Leopardi, Canto XXVII (A se stesso), vv. 12-16.

[Copyright: Fulvio Bonavia photographer, in: Google immagini s.v. “Vanitas”]

Il bacio, “scrigno dell’essere”

Filosofia del bacio: si intitola così un breve ma interessante libretto di Franco Ricordi pubblicato qualche anno fa da Mimesis. Certo, sulle prime si potrebbe rimanere interdetti: che cosa ha mai a che fare la filosofia, una forma di sapere apparentemente così arida, astratta e speculativa, con la vivida concretezza passionale racchiusa in un bacio?

Eppure l’archetipo del bacio (e dell’amore che travolge ogni limite), se ci si pensa, è stato forse illustrato e descritto proprio da un uomo che, oltre che sommo poeta, è stato anche un filosofo di eccezionale statura: Dante Alighieri. Ci riferiamo, naturalmente, al celebre episodio di Paolo e Francesca, i due sfortunati amanti che Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno (siamo nel canto V del­l’In­ferno).

I famosi versi del poema dantesco possono introdurre bene al motivo di fondo del volumetto di Ricordi (ma moltissimi sono poi gli autori a cui egli fa riferimento nel corso della trattazione). Secondo l’autore, infatti, il bacio «non è soltanto un atto che si possa considerare estetico», ma ha anche un «senso etico», nonché delle implicazioni che – usando un termine “tecnico” e impegnativo – potremmo definire “ontologiche”. In altri termini, per Ricordi il bacio non è soltanto un’intensa fonte di piacere, ma anche la piena espressione delle potenzialità insite nell’essere.

In primo luogo – dice l’au­to­re proprio in apertura del suo libro – «il bacio in bocca si può considerare come un fondamentale atto di libertà», che è in grado di schiudere completamente agli umani l’ac­ces­so alla “gioia dell’essere” (non importa – tiene inoltre a sottolineare Ricordi fin dalla prima pagina – che a scambiarsi un bacio siano un uomo e una donna o due persone dello stesso sesso). Atto di libertà, il bacio, che risulta difficile inquadrare come “peccato”, anche se a volte ci viene esplicitamente presentato come tale. Tanto più che esso, secondo Ricordi, è addirittura «una delle fonti più belle e più importanti della [stessa] filosofia». In questo senso, se Dante è arrivato «a una concezione del­l’A­mo­re in quanto motore e chiave dell’universo», diventando così «il maggior teorico del­l’a­mo­re in senso filosofico e metafisico» è forse proprio perché è partito con il considerare e il descrivere il bacio tutto terreno di Paolo e Francesca, che – sostiene Ricordi – «è talmente bello, talmente importante, profondo e pieno di significato anche etico, da non poter essere rappresentato come semplice peccato».

In seconda battuta, si pensi alle capacità generative e trasformatrici proprie dell’amore: tutti sanno che le persone innamorate cambiano, vengono trasformate e “ricreate” dal loro amore quasi fino al punto di non sembrare più le stesse. Non va inoltre dimenticato che il bacio prelude all’atto amoroso, «quindi all’essere di noi tutti, alla nostra nascita, vita e morte». E se nelle favole il bacio è in grado di ridonare la vita, di spezzare incantesimi o di trasformare i rospi in principi, anche nella realtà la “respirazione bocca a bocca” «può essere intesa come una sorta di “bacio della vita”, un soffio che restituisce l’anima a chi, verosimilmente, potrebbe essere lì lì per perderla».

Tenendo presente tutto questo, Ricordi, sfruttando e capovolgendo uno spunto heideggeriano (la morte come «scrigno del nulla»), propone suggestivamente di considerare il bacio come il vero e proprio «scrigno del­l’es­se­re».

Per dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la fondamentale connessione sussistente tra bacio e filosofia, Ricordi analizza non solo la “quintessenza” del bacio (espressione che compare come titolo del primo capitolo del libro), ma tutte le sfumature che esso ha assunto al­l’in­ter­no della cultura occidentale, spingendosi alla ricerca di quella che egli definisce un’eti­ca del bacio. In particolare, tra tutte le declinazioni possibili di esso, troviamo due estremi: da un lato il “bacio etico” compiuto nella cerimonia matrimoniale, che ha la funzione di ratificare la fedeltà dei coniugi (il cui prototipo, secondo Ricordi, è il bacio di Otello e Desdemona) e, dal lato opposto, il “bacio libertino” o “rubato” (prerogativa dalle avventure amorose di Don Giovanni).

Il saggio di Ricordi non si limita comunque a essere una semplice rassegna fenomenologica o una ricognizione tipologica del bacio e del baciare, ma intende anche invitare a riflettere sui cambiamenti di mentalità e quindi sul diverso modo di rapportarsi al bacio da parte della società umana nel corso della storia: ancora negli anni ’70 – afferma ad esempio Ricordi – il bacio era considerato un peccato la cui gravità era direttamente proporzionale alla durata dell’atto, mentre ora è considerato una profonda espressione d’affetto o tutt’al più un innocente preliminare.

Al fine di valutare le evoluzioni e i cambiamenti a cui il bacio è stato soggetto con il passare delle epoche, la parte centrale del libro si divide in tre sezioni: Il bacio nell’epoca tragica, dove a tema è il bacio nell’antichità classica (ma si parla anche di Foscolo, Leopardi, Nietzsche, Kleist); Il bacio nel­l’e­po­ca teologica, la quale – al contrario di quanto si potrebbe pensare – è proprio essa l’“epoca d’oro” del bacio in bocca; e infine Il bacio nell’epoca economica, dove lo sguardo si spinge nella contemporaneità, per tentare di valutare e comprendere il «degrado nichilistico in cui [versa] il bacio d’amore nella nostra epoca». Chiude il libro il capitolo intitolato La possibilità etica del bacio, in cui Ricordi tira le fila della propria indagine, giungendo alla conclusione che il bacio non è soltanto un «contatto carnale» o il «simbolo […] della vita erotica dell’uomo», ma anche uno «straordinario viatico etico e morale» e quindi «uno degli atti più alti della vita».

Nel bacio, infatti, si incontrano e si fondono assieme afflato mistico (e dunque religiosità) e sensualità, istinto di conservazione (e dunque biologia) e poesia: se Heidegger avesse potuto leggere il libro di Ricordi, avrebbe ben volentieri parlato anche del bacio (oltre che della “brocca”) come di una “quadratura” o “quaternità” (Geviert) in cui si incontrano e congiungono «la terra e il cielo, i divini e i mortali». Alla luce di questo intreccio, appare chiaro che più che singole discipline settoriali, è forse solo la filosofia quel sapere che è in grado di poter offrire una panoramica dell’essenza intima e delle manifestazioni del bacio senza rischiare di impoverire tale fenomeno, in virtù della possibilità che solo essa ha di poter comporre e tenere insieme, grazie al suo sguardo inclusivo e onniavvolgente, tutte le prospettive e le dimensioni che in esso sono racchiuse.

Oltre alla prospettiva storica, un altro aspetto su cui l’autore vuole concentrare l’attenzione è la straordinaria capacità, propria del bacio, di riuscire a conservare intatto il «mistero della [sua] bellezza» anche al giorno d’oggi, in cui pure si assiste a una «infinita spettacolarizzazione», «reificazione» e «mercificazione» del bacio in bocca e degli atti dell’amore. Secondo Ricordi, tale circostanza è un segno inequivocabile dell’ine­sau­ribile capacità di significazione propria del bacio (e quindi dell’amore che esso esprime), che pertanto non risulta rinchiudibile all’interno di un “sistema” che ne sveli una volta per tutte la natura, dato che esso dimostra costantemente di essere costitutivamente aperto a nuovi, infiniti e imprevedibili sviluppi – proprio come la vita e la libertà di cui esso è simbolo.

 

Gianluca Venturini

 

[Immagine tratta da Google Immagini, Paolo e Francesca di William Dyce]

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