Il principio di responsabilità: Jonas vs Ricoeur

Il concetto antenato di responsabilità è, secondo Paul Ricoeur, quello dell’imputazione che attribuisce l’azione all’agente, visto come causa dell’azione stessa.1

Come afferma anche Fabrizio Turoldo in Bioetica ed etica della responsabilità 2, il concetto responsabilità è recente e si affermerebbe attraverso un processo di umanizzazione, visto che ad un certo punto solo l’essere umano è visto come unico soggetto capace di responsabilità e imputazione, di individualizzazione, per una responsabilità esclusivamente individuale e di interiorizzazione, perché si afferma il potere della coscienza.

Questo concetto di responsabilità, però, non è ancora quello previsto e teorizzato da Hans Jonas, perché concerne la responsabilità per un’azione già compiuta da parte del soggetto agente nei confronti di qualcuno, quindi si tratta semplicemente dell’obbligo di rispondere di qualcosa che è già stato fatto nei confronti dell’oggetto che ha subito l’azione.

Solo verso il ‘900 la responsabilità inizia ad essere assunta come concetto in relazione a qualcosa di ancora incompiuto, in questo senso non è più un obbligo di rispondere di, ma rispondere a, che significa rispettare l’autonomia della persona.

È proprio questo il senso che Jonas intende per la responsabilità verso la tecnica: essere consapevoli della potenza della moderna tecnologia e delle sue conseguenze verso le generazioni future (ecco come si nota il rapporto che stabilisce il concetto di responsabilità: asimmetrico, dove la società presente è più forte rispetto a quella futura).3

Il concetto di responsabilità ha, inoltre, una doppia etimologia latina, quella di respondere e di risposare, la prima nel senso di ‘impegno verso l’altro, promessa’, presente in Paul Ricoeur, la seconda in quello di ‘resistere, contrastare’, ovvero saper gestire i cambiamenti della modernità: questo può essere considerato uno dei sensi della responsabilità di Jonas.4

Quindi il concetto di responsabilità, secondo Hans Jonas, è proprio il principio cardine di un’etica razionalista applicata soprattutto alla moderna bioetica che oggi è un ambito importante per i problemi che riguardano la libertà della ricerca. È proprio nella bioetica, infatti, che l’uomo è chiamato a fare delle scelte importanti da cui dipenderà il suo futuro, e il principio di responsabilità, in questo caso, assume un ruolo fondamentale: in campo medico la responsabilità non è solo per ciò che è accaduto, ma anche per quello che potrebbe succedere.

Certo, è difficile stabilire gli effetti futuri della moderna tecnologia perché molti di questi non sono subito individuabili.

Paul Ricoeur vede proprio in questo il pericolo di rovesciare l’etica della responsabilità nel non considerare più nessuno responsabile di nulla5, perché dover pensare a ogni conseguenza di ogni singolo gesto umano

finisce col rendere l’agente umano responsabile di tutto in modo indiscriminato. L’agente, in questo modo, non risulta più responsabile di nulla di cui egli possa assumersi il carico, perché prendere in carico la totalità degli effetti, significa capovolgere la responsabilità in fatalismo, nel senso tragico del termine, o meglio nella seguente denuncia: siete responsabili di tutto e colpevoli di tutto!6

Anche perché, secondo Ricoeur, fa parte della natura finita dell’uomo il fatto che molte conseguenze delle sue azioni siano ingestibili. Per questo egli insiste sul fatto di affiancare all’etica della responsabilità, che deve pensare alle conseguenze future, un’etica intenzionale che non si occupi delle conseguenze; ma questo non è attuabile, in quanto prevede il disinteresse totale nei confronti degli effetti futuri.

Nel libro Il Principio Reponsabilità del 1979, Hans Jonas giunge, invece, proprio alla necessità di applicare il principio di responsabilità ad ogni gesto dell’uomo che deve prendere in considerazione le conseguenze future delle sue scelte e dei suoi atti.

Quella di Jonas è un’etica orientata al futuro questo perché occorre la salvaguardia dell’essere e dell’umanità nel mondo minacciato dalla tecnica, con le sue conseguenze distruttive sul piano planetario.

L’imperativo di questa nuova etica, secondo Jonas, è:

Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra.7

Questa affermazione ci fa rendere conto come per Jonas l’etica della responsabilità sia vicina ad un’etica dell’intersoggettività, in quanto il soggetto responsabile è naturalmente sociale, dunque in rapporto con l’altro, in questo caso con le generazioni future.

Per Jonas è dunque necessaria una nuova teoria etica che possa valutare le possibili conseguenze catastrofiche dell’agire umano che oggi come oggi coinvolge l’intero pianeta.

Questa nuova etica potrà fondarsi ed essere vincolante solo attraverso un ripensamento del concetto di natura che secondo il nostro autore possiede una finalità in se stessa ed è ciò che determina il dover essere dell’uomo come insieme di scopi. infatti l’etica della responsabilità di Jonas muove dall’ontologia e questa è una rarità visto che le proposizioni dell’ontologia sono descrittive, mentre quelle dell’etica dovrebbero essere prescrittive; avendo, dunque, come fondamento l’ontologia, l’etica della responsabilità si basa sul principio secondo cui è meglio essere che non essere, visto che l’essere consiste nell’avere degli scopi che hanno valore in sé.8

La sopravvivenza dell’uomo diventa, così, un dovere metafisico: è necessario che ci sia un futuro, è necessario che continui la serie e che l’uomo permanga; la responsabilità verso il futuro, dunque, comprende un dovere diverso, ovvero si tratta di salvaguardare l’idea ontologica di uomo, non si può pretendere di fondare il diritto all’esistenza di un non-esistente.

La nuova etica dovrà dunque essere cosmica basata sul concetto della paura nei confronti dei possibili esiti catastrofici delle nostre azioni e sulla responsabilità.9

Valeria Genova

Note

1- P. Ricoeur, Il concetto di responsabilità, Il Giusto, Torino 1998, pp 31-56
2-F. Turoldo, Bioetica ed etica della responsabilità, Cittadella Editrice 2009, p.17
3- cfr Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, 1997
4- F. Turoldo, op. cit. p.38
5- cfr P. Ricoeur, op. cit.
6- F. Turoldo, op. cit. p. 22
7- Hans Jonas, op. cit. p.16
8- cfr F. Turoldo, op. cit. p.43
9- Hans Jonas, op. cit.
 

Carlo Magno ed Hārūn al-Rashīd: un incontro

Ciao a tutti, lettori di Sophìa!

Il tema che oggi accenno riflette la mia personale Weltanschauung e mi consente di espolorare un argomento più attuale che mai: l’incontro-scontro tra culture e civiltà differenti e lontani, l’Occidente da una parte, l’Oriente dall’altra. La filosofia è sempre stata uno scrigno di auto-descrizioni ed auto-rappresentazioni che hanno consentito alla formazione di identità. Un’identità, ci insegna il filosofo Ricoeur[1], è un’auto-descrizione che comporta però sempre una distinzione: è strano, ma riusciamo a capire un po’ di più chi siamo e cosa ci caratterizza osservando un Altro da noi, che ha qualcosa che noi non abbiamo, che è qualcosa che noi non siamo. Ebbene, complice l’ultimo esame che ho finalmente dato venerdì, oggi la mia intenzione è quella di immergermi nell’incontro che avvenne tra l’impero di Carlo Magno ed il califfato musulmano di Hārūn al-Rashīd: un reciproco scoprimento e riconoscimento che farà forse acquistare a quel concetto di identità, che nella attuale crisi europea e mediorientale sembra esser diventata la nuova parola d’ordine, nuove sfumature. Historia magistra vitae, non per niente.

Il medievista Giosuè Musca pubblicò nel 1963 Carlo Magno e Hārūn al-Rashīd, che ricostruisce i rapporti tra Carlo Magno ed il prestigioso e ricchissimo quinto califfo della dinastia abbaside che regnò sull’impero arabo dal 786 all’809. Tra il 797 e l’807 i due si scambiarono missioni diplomatiche che misero per la prima volta in contatto le loro civiltà, che purtroppo due secoli più tardi si sarebbero violentemente scontrate nelle crociate. Musca, nell’Avvertenza al libro dell’edizione del 1996, scrisse queste parole, che faccio mie: «[…] il libro fu pubblicato nel 1963. […] Erano gli anni della guerra fredda tra due superpotenze emisferiche […] l’aria che si respirava mi spingeva a cercare in un lontano passato episodi di comprensione e di convivenza. […] In più di trent’anni il genere umano non sembra aver fatto progressi sulla via della saggezza: i conflitti si sono frazionati e moltiplicati in un crescendo di ferocia più che “barbarica”, ad opera di uomini divenuti ancora più lupi per i loro simili. […] Rimango convinto che oggi la necessità di conoscere e di comprendere le diversità e le loro radici storiche è, se mai, più urgente. Perciò mi illudo che questo libro possa conservare ancora qualche motivo d’interesse[2]».

Le fonti del tempo ci presentano l’incontro tra i due grandi sovrani come il frutto delle rispettive volontà, ma la loro non fu solo un’iniziativa, bensì un incontro fra due mondi: quello franco-cristiano ed arabo-musulmano. Nel 797 Carlo Magno invia in Oriente presso Hārūn al-Rashīd una prima ambasceria e nell’801 gli viene annunciato che sono approdati a Pisa due legati che gli annunciano che sulla via del ritorno v’è Isacco, unico superstite della delegazione, con grandi doni (tra i quali un elefante, Abūl Abbās)[3]: colui che donava – Hārūn – e colui che riceveva – Carlo – riconoscevano l’uno all’altro un grande potere[4]. Sappiamo che Carlo Magno costruì case ad Abūl Abbās, sotto gli occhi meravigliati dei Franchi e che, purtroppo, solo otto anni dopo l’elefante morì nelle lande germaniche. Si dice anche che Carlo si addolorò per la sua morte improvvisa: gli si era affezionato[5]. In seguito, Carlo volle ringraziare il califfo e, nell’806, i suoi legati tornarono dalla missione nuovamente carichi di doni preziosi. Tra essi, un orologio d’ottone, descritto da Eginardo come un meraviglioso congegno meccanico azionato dall’acqua in cui il tempo era segnato da dodici cavalieri che uscivano a turno da dodici piccole finestre, i cui rintocchi avevano il suono dei cimbali[6]. Ci fu, poi, anche un altro dono di valore impressionante da parte del califfo a Carlo: la tomba di Cristo (dove era stato adagiato il corpo). Un gesto, questo da parte del califfo abbaside, che è un avvenimento senza precedenti.

L’asse Aquisgrana-Baghdad fu scevro di motivi di discordia e al tempo stesso unito da una comunanza di interessi (nei confronti dell’impero bizantino e sul fronte religioso – entrambi, infatti, aderivano ad una fede monoteista- ). Le trattative tra Carlo e Harūn costituirono una pausa rispetto allo scontro-confronto plurisecolare tra mondo cristiano e mondo islamico cui, ahimé, assistiamo ancora oggi, ed anzi, la presenza islamica ad Oriente contribuì a forgiare le relazioni internazionali del periodo del Medioevo che l’Europa intrattenne[7].

L‘identità non può che accompagnarsi all’incontro. Eppure, una differenza implicita è presente: tutto cambia in base alla disposizione o meno a seguire e ritenere invincibili solo i propri pre-giudizi. Carlo Magno ed Hārūn al-Rashīd erano curiosi l’uno dell’altro e tra essi si sviluppò una filo sottile simile alla simpatia che permise ad entrambi di accrescere le proprie conoscenze su un’altra civiltà, e quindi di capire un po’ di più la rispettiva identità culturale, arricchendola maggiormente. È più che mai necessario, oggi, conoscere la diversità. Possibilmente, senza troppi pre-giudizi. La Storia è meravigliosa in quanto ci dà ogni volta che lo vogliamo la possibilità di apprendere qualcosa in più sul tempo attuale, guardando al vecchio: perché non sfruttare questo dono?

Sara Caon

[ immagine tratta da Google Immagini]

[1]    Vedi P. RICOEUR, Sè come un altro, Jaca Book, Milano 2011.

[2]    G. MUSCA, Carlo Magno e Hārūn al-Rashīd, Edizioni Dedalo, Bari 1996, pp. 5-7.

[3]    MUSCA, ed. cit., pp. 15-17.

[4]    Ivi, p. 32.

[5]    Ivi, p. 33.

[6]    Ivi, p. 40.

[7]    Ivi, p. 148.

Sè come un altro

Quella dell’alterità è una questione che attraversa lo spazio storico e teoretico della modernità, da Husserl a Heidegger, da Sartre a Lévinas: chi affronta la questione mette in campo sempre una retorica dell’altro, dell’alterità, che, però, acquista validità di discorso a patto che si mettano in evidenza gli attori che lo animano: l’io, l’altro e il piano in cui ci si muove: sia esso gnoseologico, etico, linguistico, politico o ontologico.
Molteplici sono i contributi volti a comprendere la natura del legame che unisce il soggetto alla figura dell’altro, come molteplici sono le declinazioni che la categoria dell’alterità ha assunto nel corso della storia della filosofia.

La scelta di considerare, tra le diverse voci, la proposta e l’analisi che Paul Ricoeur elabora circa l’alterità, con particolare riferimento all’opera Sè come un altro, rinvia non solamente al fatto che egli occupa una posizione rilevante all’interno del panorama moderno, ma alla posizione di mediazione che ha saputo intraprendere, come alternativa alle due tendenze filosofiche opposte che hanno dominato dopo Cartesio: da una parte la posizione idealistica di un soggetto esaltato, la cui categoria dell’alterità viene sempre ricondotta al proprio; dall’altra parte la posizione nietzschiana di un soggetto umiliato e ridotto a una pura illusione.

La filosofia pratica di Ricoeur delinea un soggetto che agisce, patisce e si interpreta, nell’atto di interpretarsi e interrogarsi si scopre attraversato in modo costitutivo della figura dell’alterità che egli incontra nel cammino della proprio esistenza.

Al fine di capire a quale grado l’alterità sia costituiva dell’ipseità, dobbiamo ripercorrere l’analisi che Ricoeur opera circa la nozione di identità.
In Sè come un altro Ricoer distingue chiaramente due diverse sfacettature dell’identità: Ricoeur stesso dichiara che è nel termine soi-même che si costruisce la struttura ambigua e paradossale della soggettività umana; il termine même infatti, nella lingua francese, possiede una doppia valenza, a seconda che intendiamo l’identico al corrispondente latino di idem o dell’ipse. Ricoeur precisa come soi-même

«non è che una forma rafforzativa di soi, nella quale l’espressione même serve ad indicare che si tratta esattamente dell’essere o della cosa in questione»

Da una parte dunque identità-idem, nel significato di ‘medesimo’, sta a indicare il permanere identico e immutabile nel tempo da parte del soggetto, dall’altro identità-ipse, nel significato di ‘stesso’, indica il processo dinamico cui il soggetto è sottoposto temporalmente nell’operazione di identificazione. Con il concetto di identità-medesimezza Ricoeur intende esprimere il lato statico del processo identificatorio, cioè «il nucleo permanente del sé, sede da un lato dei tratti innati della personalità (carattere), dall’altro dei tratti acquisiti nell’arco dell’esperienza della vita temporale, e assimilati in forma di sedimentazione contratta».
Per carattere l’autore intende proprio l’insieme di quegli elementi distintivi che consentono di reidentificare un individuo come il medesimo anche col passare del tempo, scrive Ricoeur: «esso designa in modo emblematico la medesimezza della persona» attraverso quella che lui definisce l’identità numerica, qualitativa e la permanenza del tempo; prosegue sempre Ricoeur: «proprio in quanto seconda natura, il mio carattere sono io, io stesso, ipse, ma questo ipse si annuncia come idem», così ogni abitudine acquisita diventa una disposizione permanente e va a costituire uno dei tratti distintivi tramite i quali riconosciamo una persona come la medesima anche a differenza di anni. Il carattere per Ricoeur risulta essere proprio il che cosa del chi.

il doppio segreto
Il concetto di identità-ipseità invece fa riferimento al lato dinamico del processo di identificazione, aprendo il soggetto all’esperienza dell’altro da sé. Emblematica è la figura della promessa, utilizzata da Ricoeur come esempio del permanere di sé nel tempo attraverso la capacità di mantenere la parola data nonostante il cambiamento: il soggetto infatti deve mantenersi fedele alla parola data a partire dall’istante della formulazione della promessa al momento della sua attuazione, fedele nel significato quindi di identico a se stesso.
Dalla prospettiva così delineata è chiaro come l’identità per Ricoeur non sia totalmente chiusa e di per sé già formata, ma risulti essere un reale processo sempre in corso, che si costituisce in modo dinamico nel tempo tramite la costante dialettica tra medesimezza e ipseità, la quale rende l’io da un lato una totalità chiusa e compiuta, l’io-idem appunto, dall’altro lato invece, una totalità aperta soggetta a mutamenti ed evoluzione, l’io-ipse
Ricoeur sottolinea come identità-medesimezza e identità-ipseità non vadano pensate l’una distinta dall’altra o di per sé autonome, quanto invece nella loro reciproca relazionalità:

«un ente è identico a se stesso soltanto rispetto a ciò che è altro da esso e nel corso del mutamento temporale».

Tale dialettica rappresenta alla fine un soggetto che oscilla perennemente tra la tendenza all’uscire fuori di sé aprendosi all’altro e il bisogno di una chiusura stabilizzante dall’altra; un soggetto tensionale quindi, in costante conflitto tra due tendenze apparentemente contraddittorie, un soggetto che pur aprendosi all’altro vuole proclamarsi autosufficiente. Questa costante tensione e inquietudine, agli occhi di Ricoeur, non è semplicemente uno stato emotivo quanto invece la struttura ontologica stessa dell’essere umano: il soggetto deve imparare, durante il cammino della proprio vita, a riconoscersi quale soggetto finito e abituarsi alla costante tensione rispetto alle molteplici possibilità di diventare se stesso nel rapporto con l’altro.

Elena Casagrande

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La coscienza: un altro me stesso

La coscienza è il caos delle chimere, delle brame, dei tentativi; la fornace dei sogni; l’antro delle idee vergognose; il pandemonio dei sofismi; il campo di battaglia delle passioni.

Victor Hugo

La coscienza è senza dubbio uno dei concetti più difficili nel vocabolario dell’etica. Se chiediamo a noi stessi cosa la coscienza possa significare, questa ci appare già così viva e presente, come lo è la stessa sensazione di esserci. Non vi è dubbio che ciascuno di noi sente e percepisce di essere gettato, situato, presente all’esistenza, molto più difficile risulta sentire di essere presenti a se stessi, o meglio essere coscienti di sé e delle proprie azioni.

Quello che sembra essere un elemento condiviso quando si parla di coscienza è l’idea che questa sia il prendere consapevolezza di qualcosa o qualcuno, l’essere consapevoli di, rendersi conto di; molto spesso utilizziamo i due concetti come se fossero sinonimi, tant’è  sottile la differenza tra i due.

Penso sia necessario recuperare un significato di coscienza che non sia ridotto a semplice ‘capacità’ o ad una ‘facoltà’ della mente umana e componente parziale dell’uomo.

Molto spesso anche in ambito filosofico la coscienza viene ridotta a proprietà dell’uomo, in particolare a quella facoltà di conoscenza o autocoscienza; se pensiamo al Novecento il problema della coscienza si è allargato ulteriormente con l’introduzione dell’approccio psicanalitico di Freud: non è possibile ridurre la coscienza a consapevolezza di sé.

A questo si aggiunge poi il contributo in ambito scientifico ad opera delle neuroscienze e della psicanalisi, portando la questione sul piano ‘meccanicistico’ della dinamica della vita mentale e psichica. Per non rischiare che la questione si mantenga esclusivamente in ambito epistemologico o che venga ridotta all’analisi della relazione tra mente e corpo, dobbiamo porre attenzione più che alla conoscenza dei processi mentali, all’interpretazione dell’esperienza che viviamo, esperienza che rivela la sua natura di attività-passività; secondo la prospettiva fenomenologica infatti, ciò che è importante è che la prima attività del soggetto consiste nell’essere passivo rispetto all’oggetto. Sembra che la passività, intesa come alterità, come altro rispetto a noi, sia a fondamento delle nostre molteplici esperienze e così anche della nostra identità. Se la coscienza è sempre ‘coscienza di’, essa è sempre in rapporto ad un qualcosa che le è dato nella polisemia delle esperienze di vita.

Paul Ricoeur in Sé come un altro, individua tra le diverse figure di ciò che altro rispetto a noi, anche la coscienza: la coscienza come luogo del dialogo tra sé e se stessi, espressa dalla metafora della voce, è una passività senza paragone poiché essa è interiore e superiore a me. Ciò che per Ricoeur caratterizza la coscienza è il suo manifestarsi sia nella forma dell’attestazione sia in quella dell’ingiunzione morale. La coscienza proietta sulle diverse esperienze di passività che il soggetto incontra nel suo cammino, la sua forza di attestazione. Dal punto di vista ontologico, l’attestazione è la testimonianza ad opera del soggetto della sua radicale passività, del suo essere originariamente gettato nel mondo. L’ingiunzione morale invece costituisce

il momento di alterità propria al fenomeno della coscienza, conformemente alla metafora della voce. Ascoltare la voce della coscienza significherebbe essere ingiunto all’Altro ”

Paul Ricoeur – Sè come un altro

Altro che richiama il soggetto alla sua responsabilità morale attraverso la voce della coscienza.

Per Ricoeur questa passività che la coscienza incarna “consiste nella situazione di ascolto che a lui è rivolta alla seconda persona”.

Se la nostra identità è originariamente costituita di passività, proprio perché da sempre viviamo nel rapporto con ciò che altro rispetto a noi, la coscienza è la figura di passività più alta, poiché attesta, nel tessuto della nostra vita, ogni nostro modo di rapportarci all’altro, alle relazioni che instauriamo, alle situazioni che viviamo, attesta come percepiamo e riviviamo le esperienze, come affrontiamo i problemi, come giudichiamo le nostre azioni e quelle degli altri. Coscienza è molto più di consapevolezza o di autoconsapevolezza, la coscienza identifica ciò che siamo, identifica il soggetto nella sua totalità e nella sua unicità singolare.

Coscienza come Sé, come il racconto della nostra storia.

Elena Casagrande

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La forza del perdono

Siamo tutti impastati di debolezze e di errori; perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze: questa è la prima legge di natura.

Voltaire

Una delle cose che risulta più difficile per l’essere umano è il saper perdonare; molto spesso siamo convinti che il perdono sia un semplice atto riducibile all’espressione “mettere una pietra sopra” o che basti il solo dimenticare per ripristinare un rapporto.

Un’errata concezione del perdono ritiene che chi perdona sia un debole; tale considerazione però porta con sé delle domande: se il perdono è veramente la risposta dei deboli, perché risulta così difficile? Perché ci costa così tanto? Pur sapendo che sia giusto, perché lo concediamo con così tanta fatica? Read more