Sguardo alla Luna: polisemia del satellite terrestre

Citata sin dall’opera con cui si è soliti fare iniziare la Letteratura Italiana, cioè il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi (1224), come «sorella» dell’uomo, in quanto creatura di Dio e parte della bellezza dell’Universo, la Luna ha sempre rivestito un ruolo singolare nella vita di tutti gli uomini di ogni tempo come punto di riferimento universale, simbolo di mistero, di imperturbabilità e di alterità, meta ultima verso cui evadere o interlocutrice amica, proiezione rovesciata della Terra, a una distanza siderale.

Testimone eterna e lontana del dramma umano, la Luna è presenza assidua nei Canti di Leopardi, dalla luce lunare delicata e pura in apertura dell’Ultimo canto di Saffo («verecondo raggio della cadente luna» vv.2-3), alla serena e dolce notte lunare in La sera del dì di festaqueta […] posa la luna» vv.2-3), dall’astro notturno con cui il poeta intrattiene un intimo colloquio rivolgendovisi con gli appellativi affettivi di «graziosa» e «diletta» alla Luna «silenziosa», «eterna peregrina», «giovinetta immortale» cui, in una notte silenziosa e deserta, simbolo del desolato scenario dell’esistenza, un pastore errante dell’Asia rivolge con ingenua semplicità continui interrogativi senza risposta, la protesta pacata e rassegnata di tutti gli uomini che aspirano a una condizione superiore, ideale ma solo vagheggiata, alla Luna, bella e dolce ma irraggiungibile («Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che, fai,/ silenziosa luna?»).

Una luna già carica di una sensibilità moderna, tutta novecentesca, tormentata ed esistenziale, quella di Leopardi, che ha un “fastidio che gli ingombra la mente” e a cui “la vita è male”, e che continua ad esempio nell’incipit dell’Assiuolo di Pascoli («Dov’era la luna? Ché il cielo/ notava in un’alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio vederla») in un’atmosfera da favola decadente un po’ sospesa e un po’ angosciosa scandita da un sinistro singulto di refrain, un «pianto di morte». E pianto di morte sarà quello rivolto da Alfonso Gatto a una «luna di pietà» che imbianca la guerra in Alla voce perduta. E a una luna di pietà si rivolgerà anche Ungaretti nel ricordare in Veglia la notte passata «vicino a/ un compagno massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio».

Se Montale predilige ambientazioni più assolate, tuttavia in Satura II contempla la Fine del ’68 proprio dalla luna, «il modesto pianeta che contiene filosofia, teologia, politica,/ pornografia, letteratura, scienze palesi o arcane» assumendo così un’ottica rovesciata, uno sguardo dal di fuori, la sua è una terra vista dalla luna. Quella luna dove già Ariosto nel canto XXXIV aveva mandato Orlando a recuperare il senno, perso per amore di Angelica, quella luna agli antipodi della terra, imperturbabile, dove si raccoglie tutto ciò che si perde nel mondo a causa della sconsideratezza umana. Quella luna ariostesca che affascina Calvino che ne fa un simbolo di leggerezza, intesa nell’accezione appunto tutta calviniana del termine, come saggezza, fermezza interiore, atarassia e al tempo stesso spiritosa e superiore irriverenza. E in questo dialettico gioco di specchi si inseriscono le riflessioni di Sergio Solmi sulla Luna del poeta francese Jules Laforgue, nelle cui Complaintes si ritrova l’influenza anche della celebre canzone popolare Au clair de la lune.

Una luna quindi non solo letteraria e scientifica ma anche popolare, una luna da canzonetta, una luna da romantica cartolina da cliché, una luna che è di tutti, una luna universale, una luna che «fa lume a tutti/dall’India al Perù/ dal Tevere al Mar Morto», una luna che «viaggia senza passaporto», come ci ricorda una filastrocca dalla disarmante attualità, La luna di Kiev di Gianni Rodari che con un clin d’œil al Cantico delle Creature e con quella leggerezza calviniana e quell’ingenuità propria degli antichi e dei fanciulli, cara a Leopardi e a Pascoli, si chiede se la luna di Kiev sarà la medesima di quella di Roma o soltanto sua sorella e lascia la parola alla luna stessa che replica «Ma son sempre quella!/ – la luna protesta- /non sono mica un berretto da notte sulla tua testa!» regalandoci un’immagine che, un po’ come quella della Signorina Felicita di Gozzano a cui la luna sopra un campanile sembrava «un punto sopra un “i” gigante», riesce ancora a strapparci un sorriso.

 

Rossella Farnese

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Viaggiando tra i sogni interiori: Myricae di Pascoli

Il sogno e la dimensione onirica sono, come afferma in un suo saggio Fernando Bandini1, elementi portanti della poesia pascoliana, spesso caratterizzata da atmosfere decadenti e rarefatte, che hanno il sapore “dell’altrove”Leggendo, infatti, i componimenti della raccolta Myricae (1891), capita di trovarsi all’interno di paesaggi misteriosi, perlopiù notturni, dove i sensi colgono elementi indefiniti, lontani, appartenenti ad una dimensione altra. Si tratta di percezioni perlopiù uditive o visive, che contribuiscono a creare un’atmosfera carica di elementi simbolici.

Ciò si può notare in L’assiuolo, dove l’io poetico afferma: «Le stelle lucevano rare/tra mezzo alla nebbia di latte:/sentivo il cullare del mare,/sentivo un fru fru tra le fratte;/sentivo nel cuore un sussulto/,com’eco d’un grido che fu/sonava lontano il singulto:/chiù…» (9-16). Il paesaggio riflette una realtà indistinta, dove il canto dell’assiuolo si confonde tra la vegetazione, così come la sua immagine; non è chiaro quanto ci sia di vero in ciò che il poeta percepisce: parte di ciò che sente potrebbe essere immaginato, o meglio sognato. La scelta di ambientare il componimento tra le tenebre della notte contribuisce infatti ad ampliare la sensazione di mistero che pervade l’intera scena.
Analogamente, nel componimento Sogno, Pascoli immagina di essere ritornato nel suo villaggio, nella sua casa e vede che «nulla era mutato» e «ai morti ero tornato». In qualche modo, dunque, l’aspetto del sogno, secondo il poeta, ci mette in contatto con un mondo sospeso, in parte interiore, dove riscopriamo legami antichi, che dentro di noi sono rimasti intatti.

Il sogno, sotto altri aspetti, diventa una porta di accesso che ci permette di viaggiare, forse addirittura nell’aldilà, dove possiamo ritrovare i nostri cari defunti. Sotto questo punto di vista, esso costituisce una sorta di medium, si carica di un ruolo fondamentale nella vita dell’individuo: quello di collegamento tra due mondi da sempre separati. Pascoli realizza dunque una rivalutazione del sogno, agli albori delle teorie psicanalitiche di Freud, che di lì a poco affronteranno le tematiche dell’inconscio.

Ciò non deve far pensare, tuttavia, che il ruolo cruciale attribuito al sogno elevi quest’ultimo ad una situazione di privilegio nell’immaginario pascoliano; esso, al contrario, è perlopiù un sogno di angoscia, di dolore, che viene rievocato da suoni o da visioni lugubri, come dal «pianto di morte» dell’assiuolo. Sembra quasi che l’io poetico tema questi incontri, come se il viaggio dentro di sé, attraverso l’onirico, desti paura, destabilizzazione.
In Paese Notturno, ad esempio, l’oscurità della notte suscita l’immaginazione del poeta, che non distingue le capanne attorno e si chiede se siano un «tempio dell’antico Anubi». La campagna circostante si veste di ombre che l’io non riesce a comprendere e perciò prova una certa paura, di fronte a qualcosa che è apparentemente sconosciuto. È come se il soggetto si fosse immerso in un mondo altro, interiore, dove esistono lati non noti nemmeno a sé e tutto ciò gli suscita timore. Si percepisce inevitabilmente, in questi componimenti, l’influenza freudiana, nello spazio che il poeta lascia all’espressione dei propri sentimenti, in questo caso costruttori dell’esterno, partendo dall’interno.

In definitiva, ciò che emerge dai componimenti della raccolta Myricae ci riporta ad una visione del sogno quale elemento centrale della nostra quotidianità: porta di accesso verso altri mondi o verso noi stessi, al contempo espressione profonda delle nostre paure e della nostra interiorità. In questo senso Pascoli ci ricorda che è importante ascoltarsi, anche nei momenti in cui sogniamo, perché tutto fa parte di noi, e la realtà non è altro che l’espressione di quello che siamo, anche quando non siamo coscienti.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. F. Bandini, Sogno e visione onirica nella poesia di Giovanni Pascoli, in V. Branca, C. Ossola, S. Resnik, I linguaggi del sogno, Sansoni Editore, Firenze, 1984.

 

[immagine tratta da pixabay]

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L’infanzia come radicamento e riflesso dell’io: Saba e il piccolo Berto

«Berto – gli dissi – non aver paura./Io ti parlo così, sai, ma non oso, o appena, interrogarti. Non sei tu, tornato all’improvviso, il mio tesoro nascosto? Ed io non porto oggi il tuo nome?»1

A chi non è mai capitato di parlare con parole suadenti al piccolo bimbo che risiede in noi, come in questo passo di Saba? Quante volte il fanciullino, crucciato, ci ha spinto a comportarci oltre le convenienze, magari mettendo in atto atteggiamenti poco consoni?

Capita spesso che, difronte a realtà scomode, non piacevoli o semplicemente contrarie alle nostre aspettative, una parte di noi emerga prepotentemente, imponendo la sua voce e costringendoci ad agire o a reagire in maniera anticonvenzionale. Questa parte, eliminate tutte le forme sociali o culturali, spinge l’adulto a comportarsi in maniera tremendamente spontanea e sincera, talvolta mettendolo in un terribile imbarazzo, difronte al prossimo.

Se Freud pone le basi per l’analisi scientifica di tali realtà e dinamiche inconsce, già Pascoli aveva parlato di un “fanciullino” a cui tutte le cose appaiono nuove e che permane in noi anche in età adulta. Dopo di lui, anche Umberto Saba dedica una sezione intera della sua raccolta di poesie alla figura di Berto, il proprio sé bambino, a cui si sente profondamente legato. Egli chiama Berto «l’immagine di me, d’uno di me perduto»2, una parte dell’anima sepolta da anni, dunque, che ritorna alla luce scavando nelle profondità delle sue origini. Con lui parla, meglio, realizza un monologo, dato che Berto ascolta, intervenendo poco o niente, quasi fosse il riflesso di una realtà intangibile, un ricordo sbiadito che talvolta ritorna. Ma in questo dialogare Saba si riscopre, lasciando al lettore due quesiti curiosi: Quanto l’infanzia ha influenzato la sua persona adulta? Quanto di quel bambino è rimasto in lui?

Si tratta di due domande per nulla immediate, che coinvolgono una serie di altri elementi appartenenti a settori come la pedagogia, la psicologia dello sviluppo, il cognitivismo.

Ormai la maggior parte degli psicologi concorda nel ritenere che l’infanzia è un momento essenziale nella vita di una persona; un trauma subito da bambino è un trauma che l’uomo adulto si trascina per tutta l’esistenza.

Saba stesso era stato spinto dal proprio psicanalista ad indagare su se stesso bambino, perché lì dovevano essere presenti i nodi dei propri problemi, le fila di molti atteggiamenti inspiegati.

Un uomo come un bambino cresciuto, quello che ci presenta dunque l’autore, sebbene l’adulto si dimentichi completamente di essere stato giovane. «Perché, Berto, in volto t’oscuri? Parla. Io sono, rispose, un morto. Non toccarmi più»3.

Saba parla di un morto perché Berto è stato in un certo senso dimenticato, lasciato latente in una parte dell’uomo che non è possibile vedere, se non dopo un difficile e radicale lavoro su se stessi.

Ma attraverso questa autoanalisi, questa “messa a nudo” di realtà inesplorate è possibile capire molto di sè, l’autore lo mostra nell’ultima poesia della raccolta: Congedo, nella quale sostiene che il bimbo ha comunicato cose importanti all’uomo. L’infanzia, anche secondo Saba, viene dunque ad acquisire un valore portante, quasi i sentimenti provati da piccolo si riproponessero anche nell’adulto, dove in un certo senso vengono cristallizzati.

L’ultima riflessione è opportuno rivolgerla alla questione della permanenza del bimbo nell’adulto. Nonostante Saba più volte ripeta di parlare con un morto, una figura andata perduta, un soffio di vento in una realtà altra, nell’insistenza con cui cerca il dialogo con il fanciullo, egli stesso mostra di credere nella presenza di questa entità nell’uomo adulto. Vale a dire che, per quanto ci possiamo dimenticare di essere stati bambini, una parte di noi continua ad esserlo a suo modo; in alcuni questa parte è più evidente, in altri rimane coperta da uno strato di convenzioni, abitudini e obblighi tipici della vita contemporanea, senza tuttavia scomparire del tutto.

Saba concluderebbe forse con un invito: cerchiamo di rimanere nel profondo dei bambini, nella misura in cui questo significa conservare la propria spontaneità e i sentimenti genuini, non trascurando fino a dimenticare quella parte fanciullina che è in noi.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. U. Saba, Il canzoniere, Einaudi, Torino,ì 2004, p. 391.
2Ivi, p. 388.
3. U. Saba, op. cit., p. 392.

[immagine tratta da google immagini]

 

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L’eterna contemporaneità di Ulisse

Facendo narrare ad Ulisse l’episodio del folle volo1, Dante costruisce un proprio doppio. Entrambi si dirigono verso il Purgatorio eppure, per molti aspetti, le loro vicende si collocano agli antipodi.

Quella dantesca è una discesa verso il nucleo dell’universo, cui segue una ascetica risalita verso la luce dell’Empireo; al contrario, il viaggio dell’eroe greco si sviluppa sul piano orizzontale delle conquiste geografiche (come quelle europee del ‘500, tanto vaste quanto sanguinarie).

Dante ha una guida in Virgilio, allegoria della ragione: attraverso il loro dialogo e le anime incontrate, egli procede moralmente e si purifica.

Ulisse viaggia in solitaria ed è vinto da un desiderio insaziabile di conoscenza: lui non dialoga, ma tutt’al più persuade con le arti della retorica. Non tende a un progresso etico, ma a un accumulo di esperienze. Il mondo di Ulisse è tutto chiuso nella sfera mondana di cui tenta di infrangere i limiti: ignora che le colonne d’Ercole sono un segno della volontà divina e vede il Purgatorio solo come una montagna bruna, certamente imponente e straordinaria, ma non più che un punto bianco sulla carta geografica.

Il mondo di Dante ha senso solo in prospettiva dell’ultraterreno: capisce l’umano perché fa esperienza del divino.

Ulisse, invece, è condannato dal non aver visto nient’altro che il suolo terrestre, limitando il mondo alla sola sfera dei sensi. Egli, cioè, ignora la sfera del trascendente che sola, per il Cristianesimo, può dare significato all’esistenza. Per l’eroe greco la conoscenza è un valore in sé, è essa stessa virtute.

Per Dante, invece, la conoscenza si acquisisce seguendo un cammino di perfezionamento morale il cui culmine risiede nel riconoscimento dei propri limiti e nella fede in Dio, il quale illumina su verità più alte di quelle raggiungibili con la semplice e sola ragione. Dante rilegge la sorte dell’eroe omerico secondo le categorie proprie della cultura cristiana.

Ulisse appare come un uomo senza Dio (non può neppure nominarlo) e perciò insensibile ai valori morali. La famiglia non lo trattiene né per affetto, né per senso del dovere («né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘ l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta […]»). L’unico ardore  che conosce è puramente individuale: «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore», cioè «seguir virtute e canoscenza». Egli si lega ai compagni di viaggio perché condividono il suo progetto (e quindi solo strumentalmente). L’esperïenza che insegue è una conoscenza diretta e sensibile: il viaggio, con il suo senso di avventura e di scoperta personale, ne è l’emblema. Allo stesso modo, la virtute di Ulisse, per grande che sia, non è illuminata da Dio, ma si fonda sulla stessa semenza o natura umana: la conoscenza e l’esperienza, dice Ulisse, sono per noi quasi un istinto.

Nella cultura cristiana medioevale, invece, la conoscenza è sempre mediata da un principio di autorità (la tradizione, la Chiesa) e regolata da principi religiosi invalicabili. I teologi condannano spesso la curiositas come vana: all’uomo non è concesso sapere tutto, e volerlo fare è peccare di superbia. La caduta di Adamo ed Eva derivava da questo, poiché il serpente aveva promesso loro: «[…] Sarete come Dio, conoscerete il bene e il male»2. Odisseo agisce proprio infrangendo questi limiti: uomo del mondo classico, egli ignora le categorie del mondo giudaico-cristiano. La forza della sua ragione, tramite cui persuade i compagni a spingersi in un’impresa tanto rischiosa e a guidarli effettivamente verso il Purgatorio, viene polverizzata dalla potenza “oscura” e muta di Dio. Infrangendo il volere divino (rappresentato dalle colonne d’Ercole) e vinto dalla propria velleità, egli incaglia nella natura stessa delle cose e dell’uomo, che è stato proprio Dio a stabilire. La conoscenza di Ulisse si rivela così ignoranza, e la sua virtù peccato.

Come «archetipo mitico che si sviluppa nella storia e nella letteratura come un constante logos culturale»3,Ulisse attraversa, da Omero in poi, tutta la letteratura europea di ogni tempo testimoniando la straordinaria fortuna di un mito letterario che affonda le proprie radici nell’inquieto dipinto dell’esistenza umana, nella perpetua tensione tra viaggio e ricerca, colorandosi di significati sempre nuovi. Le numerose vite di questo personaggio risalgono a quell’attributo di cui Omero per primo si servì, per definirlo: polytropos (‘dalle molte forme’).

Dall’Iliade in cui è l’eroe astuto, artefice dell’inganno fatale del cavallo di Troia, all’Odissea in cui alla sua methis (‘astuzia’) si sovrappone il tema del suo nostos (‘ritorno’), dalle tragedie di Sofocle ed Euripide, all’ Eneide di Virgilio, alle Metamorfosi di Ovidio. Da A Zacinto di Foscolo, costruita sulla identificazione tra l’eroe greco e il poeta, che si sente esule alla perpetua ricerca di sé, alla figura inquieta dell’uomo moderno nelle poesie Il ritorno e Ultimo viaggio di Giovanni Pascoli, in cui l’uomo dalle molte forme viene ritratto al termine della propria vita, stanco e dubbioso. E ancora, nelle Laudi in cui D’Annunzio lo propone come incarnazione di un moderno superuomo, dotato di doti straordinarie, che si eleva al di sopra della massa e disprezza ogni pericolo; o all’Ulisse, di Umberto Saba, protagonista dell’omonima poesia tratta dalla raccolta Mediterranee (1946), il cui non domato spirito ne fa una proiezione dell’inquietudine del poeta e del suo doloroso amore per la vita. Infine, l’Ulysses di James Joyce, vera epica della modernità che narra in parallelo le giornata di Leopold Bloom e quella di Stephen Dedalus, riedizioni rispettivamente di Ulisse e di Telemaco, che vagano per Dublino nel caos del mondo moderno (fino ad incontrarsi nello spazio/tempo dell’inconscio), giungendo poi all’identificazione nel Primo Levi di Se questo è un uomo (1947). Qui, in particolare, la memoria dei versi danteschi è imprecisa, vessata dal silenzio e dall’oblio, quasi a sentire disperatamente la necessità di aggrapparsi alla poesia e rincorrerne l’eco, come se attraverso il ricordo fosse in grado di mantenere distanti morte e dolore. Il protagonista identifica il proprio tragico destino con quello di Ulisse, sommerso dalle acque e, per un istante, gli balena nella mente l’intuizione tremenda che quel destino sia stato fissato per volere divino: l’altrui piacque dantesco assume un effetto dirompente e tragico, e il viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole si trasforma nell’infernale odissea della Shoah4.

Dante e Ulisse sono eroi del viaggio: la meta verso cui impegnano il proprio incedere è la stessa.

La via per giungere alla conoscenza è ben differente. La conoscenza dantesca si sviluppa man mano che cresce il perfezionamento morale di chi aspira a realizzarla: l’elevarsi della propria moralità dà luce all’intelligenza.

Al contrario, l’indomita sete di sapere di Odisseo è collocata sul piano solo empirico.

Dante realizza un pellegrinaggio cosmico, Ulisse un’esplorazione animata da un’intrepida audacia.

Questa immagine attraeva Dante per la sua integrità e la sua forza e lo allontanava per la sua indifferenza morale. Ma osservando quei caratteri di eroico avventuriero, di ricercatore che indaga in tutte le regioni esclusa quella morale, Dante ha visto in lui qualcosa di più generale della psicologia del futuro che si stava avvicinando: ovvero, i tratti propri della coscienza scientifica e più ampiamente culturale del tempo nuovo, la separazione fra la scienza e la morale, fra la scoperta e il suo risultato, fra la scienza e la personalità dello scienziato5.

 

Riccardo Liguori 

NOTE:
1. Il poeta, con quest’espressione, condanna un’intelligenza che si rovescia nel suo contrario nel momento in cui si rifiuta di accettare i limiti che le sono imposti. Siamo nel XXVI canto dell’Inferno, Divina Commedia.
2. Genesi 3,5.
3. Definizione di Piero Boitani.
4. Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Einaudi, Torino, 1997, pp. 108-111.
5. J. Lotman, Testo e contesto, Laterza, Bari, 1980, pag. 98.

 

[L’immagine di questo articolo reca l’illustrazione in copertina alla versione dell’Odissea pubblicata da Feltrinelli]

 

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