Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottomette per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto il fatto che la nozione di diritto e quella di forza siano nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

banner-riviste-2023

La droga fa male. E allora?

Una lezione su Pascal per parlare di droga senza retorica e moralismo.

“Prof, è stata la lezione più bella dell’anno.”
Al liceo scientifico di Cinisello Balsamo oggi si è parlato di droga.
Ma perché tanto successo?

Ogni volta che a scuola si parla di droga, i ragazzi sono costretti ad ascoltare le prove medico-scientifico-etiche che dimostrano che le droghe fanno male e che la droga è brutta. Che palle.

Invece la lezione di oggi è iniziata con due premesse:

  • La droga è bella. Altrimenti perché la gente si drogherebbe?
  • La droga fa male, ma non è un problema. Cioè, se la droga mi accorciasse la vita ma mi rendesse felice, tutto sommato sarebbe un buon affare. Chi non scambierebbe una breve vita davvero felice con una lunga vita di sofferenza? Se tu potessi ricevere l’illuminazione come Buddha, ma in cambio dovessi di vivere dieci anni di meno, accetteresti? Io ci metto la firma subito.

Ma allora qual è il problema della droga?

Per questo serviva Pascal.

Blaise Pascal, nel Seicento, osservava che l’uomo sta nel mezzo tra una vita grandiosa e una vita miserabile. Egli è in grado di conoscere come la terra gira intorno al sole, di mandare gli uomini sulla luna e forse anche su Marte, di creare in pochi mesi il vaccino per un virus planetario. Ma, come dissero anche Galilei e Newton, la scienza può conoscere il come, non il perché: che senso ha tutto questo? Perché io sono qui? Chi sono io? Che cos’è la morte? Perché sono sempre insoddisfatto?

Pascal si accorge che l’uomo ha in sé un desiderio di felicità infinita che non riuscirà mai a raggiungere in quanto essere finito.

Allo scopo di fuggire dalla consapevolezza di questa condizione insopportabile, l’uomo ricorre al divertissement: la distrazione, l’oblio, l’evasione, cioè la droga.

Ogni attività dell’uomo è droga: il cibo, il sesso, le serie tv, YouTube, Facebook, Instagram, Whatsapp, l’eroina. Sono tutte cose belle, che ci fanno stare bene perché ci permettono di non rimanere soli con la nostra verità.”

All’inizio della lezione i ragazzi erano interessati, ma, appena ho detto “droga”, da diciassettenni si sono trasformati in cinquenni ammutoliti di fronte a Peppa Pig.

Mi scappa una domanda retorica: “volete che parliamo di droga?”.

Vado alla lavagna. Adesso vi spiego tutto:

Terence McKenna, nel libro “Il nutrimento degli dei”, distingue tre tipi di droghe e i loro effetti sull’individuo e sulla società.

  • Eccitanti: zucchero, cacao, caffè, tè, cocaina, alcool. Queste sostanze danno all’individuo la sensazione di essere separato dal resto del mondo. Sono le droghe del dominio. Le conquiste e le stragi in sud America e in ogni parte del mondo sono state perpetrate dalla cultura dell’alcool. La cocaina è la droga preferita dei capitalisti arrivisti, ma oggi anche dei poveracci che si illudono di essere per qualche ora Scarface.
  • Allucinogeni: cannabis, LSD, funghetti, DMT. Queste droghe, al contrario, danno alla persona la sensazione di connessione con tutto il resto: dissolvono l’ego. Proprio come descritto da tutti i grandi mistici di ogni tempo. Queste droghe, per McKenna, sono benefiche per l’uomo.
  • TV, Intenet, cibo, pornografia, e tutto quello che potete usare per fuggire dalla realtà.”

Suona la campanella. Fino ad ora ho mandato il messaggio che le droghe allucinogene sono buone e non vorrei chiudere così in fretta la mia carriera. Quindi prometto che continueremo a parlarne alla prossima lezione.

Perché le aragoste non si drogano.

“Buon giorno, seduti.”

Sì, ancora oggi, quando entra il prof. si alzano in piedi e tu devi dire “seduti”. Forse è per questo che, solo a scuola, in un’aula con 24 persone, il virus non si trasmette. Perché qui siamo ancora negli anni novanta. Ma con YouTube.

“Prof, oggi parliamo di droga?”

Sulla lavagna multimediale lo psichiatra dott. Abraham J. Twerski spiega come crescono le aragoste: l’aragosta è un animale morbido che vive all’interno di un guscio rigido.

Quando l’aragosta cresce sente dolore perché spinge contro il guscio, finché questo non si spacca. Poco a poco si formerà un nuovo guscio, fino alla prossima crescita.

Morale: se l’aragosta potesse andare dal medico per avere un Valium o un Percocet, l’aragosta si calmerebbe e non crescerebbe più. Il disagio ci fa crescere.

“Quando uscite la sera con gli amici e andate in corso Como, spesso vi annoiate. Quindi bevete: lo sballo dell’alcool vi permette di poter rimanere in una situazione che non vi piace. Se invece provate a non bere o a non farvi una canna, a un certo punto sarete costretti dalla vostra stessa noia ad andarvene in un posto che vi piace di più, con persone più interessanti. Potete andare a casa a suonare la chitarra se vi va, o a leggere quel libro che volete iniziare, andare a farvi una corsa se ne sentite il bisogno, o semplicemente andare a letto perché siete semplicemente stanchi. Le droghe ci impediscono di scoprire quello che vogliamo davvero, perché quando siamo fatti stiamo bene comunque e ovunque. Invece dovremmo accettare di essere diversi dagli altri e fare scelte che siano davvero nostre.”

Dopo aver visto il loro entusiasmo ho pensato che, se nella mia vita non mi fossi distratto così tanto, forse sarei arrivato prima a fare questo lavoro meraviglioso.

 

Davide Valenti

Matteo Davide Valenti nasce ad Agrigento nel 1978.
Si laurea in Filosofia a Palermo con una tesi su Baruch Spinoza e si traferisce a Milano.
Segue un Master in Ideazione e produzione di audio-visivi all’Università Cattolica.
Lavora come stagista in una casa di produzione di cartoni animati.
Lavora come assistente in una galleria d’arte.
Lavora come barista presso la discoteca Plastic.
Viene assunto come Copywriter presso le agenzie di pubblicità DDB, Saatchi&Saatchi, Leoburnett, Tita Milano.
Espone come artista visivo presso diverse gallerie d’arte italiane e straniere.
Insegna nelle scuole primarie di Milano.
Insegna Filosofia e Storia presso un liceo scientifico di Milano.
I suoi interessi attuali sono la scrittura, la psicologia e la spiritualità.

 

[Immagine tratta da Pexels.com]

copertina-abbonamento2021-ott

Lo svagato. Il divertissement contemporaneo

«Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera»
B. Pascal, Pensieri e altri scritti di e su Pascal, 1987.

Così Pascal definiva il dramma dell’uomo moderno, per il quale l’incapacità di saper restare da solo con se stesso spinge il soggetto a ricercare fuori da sé ciò che, invece, abita prima di tutto in sé.
È così che nasce il divertissement pascaliano, ovvero «quel che principalmente ci impedisce di pensare a noi stessi e che ci porta, senza che ce ne accorgiamo, a perderci» (Ivi). La distrazione è ciò che ci porta a far di tutto, purché non si pensi. E sebbene oggi siano cambiati i connotati formali, quel principio è rimasto totalmente intatto.

Su questo tema è possibile ritrovare numerosi spunti di riflessione in Lina Maria Ugolini, nel suo ultimo libro Lo Svagato (2020). Docente titolare di Analisi delle forme poetiche e drammaturgia presso il conservatorio “Antonio Vivaldi” di Alessandria, la Ugolini è scrittrice, poetessa e contafiabe, musicologa.
L’esigenza de Lo Svagato nasce a partire dall’analisi della società contemporanea. A causa dell’avvento tecnologico, fondamentalmente siamo tornati indietro anziché andare avanti e, da soggetti del progresso, ne siamo diventati oggetti, lasciandoci a tratti fagocitare dalla novità, dimenticando la nostra sana coscienza critica. Siamo diventati tutti un po’ svagati.

Chi è lo svagato?
Per la Ugolini, lo svagato è «un perfetto non pensante imbecille» (L.M. Ugolini, Lo Svagato, 2020) reso tale da quella che, nella superficie, sembra essere l’evoluzione della società umana ma che, nel suo profondo, determina piuttosto, come ben sottolinea l’autrice, il vero e proprio processo involutivo della natura umana. Dall’avvento del capitalismo alla nascita dei nuovi mezzi di trasporto, al cibo veloce e al mondo del web: per l’autrice lo svagato è colui che, davanti a tutto questo, subisce ma soprattutto sceglie spesso di passare dalla parte di chi si serve degli strumenti e delle innovazioni, alla parte di chi serve a far in modo che essi davvero funzioninoChiaro è, nel testo, il riferimento al nichilismo: il soggetto, spinto dalla foga di diventare un Oltreuomo ed illudendosi di poter spingere tutto alla massima prestazione, non si è reso conto che ha perso di vista se stesso. Il tragico è che non vede più neanche gli altri.

Le nostre relazioni, infatti, oggi sono liquide: siamo tutti iperconnessi eppure tutti più distanti; non guardiamo più, bensì visualizziamo per essere visualizzati; non parliamo guardandoci negli occhi, bensì messaggiamo per ottimizzare i tempi. Non sappiamo più perdere il tempo necessario a non perderci.
Lo svagato, come sottolinea bene l’autrice, è abitante della società contemporanea. Egli però è, allo stesso tempo, uno specchio dove ciascuno può trovare riflessa un po’ della propria immagine perché, sebbene con diverse sfumature, lo svagato siamo noi.

Lo svagato siamo noi quando ci illudiamo che le nostre mancanze più profonde possano essere colmate da una materia esterna che è frutto di un’ossessiva ricerca di perfezione e, contemporaneamente, fuga dalla parte più vera ed intima di noi stessi. Nonché la più bella.
Lo svagato siamo noi quando vendiamo la nostra identità pur di avere un posto nella vetrina dell’omologazione dei social.
Lo svagato siamo noi quando perdiamo di vista l’altro e restiamo a contemplare il nostro ego dimenticandoci che, per citare il mito platonico, siamo completi solo quando troviamo la nostra metà, che non è esclusivamente intesa in termini spiccatamente romantici, ma è la vita donata e spesa amando con passione gli uomini, scoprendo che, soltanto chinandoci verso le ferite dell’altro, saremo in grado di curare anche le nostre.
In questi mesi di lockdown, a causa degli effetti della pandemia, qualcosa sembra essere cambiato e lo svagato nel Nichilismo diventa così, per l’autrice, lo svagato nel rimpianto, dove «le promesse, le lusinghe di realtà aumentata […] non valevano, né servivano se rapportate al bisogno di un vero abbraccio» (Ivi).

Tutto questo, oggi, sarà in grado di aiutarci a riprendere in mano ciò che siamo? Chissà se lo svagato, come la Ugolini ben lo definisce, saprà ritornare ad essere un attento conoscitore e divulgatore di amore e speranza, il cui unico e vero divertimento non è lo svago insensato bensì la gioia intelligente e piena di una vita in cui il cuore resta il principio e la fine di ogni invenzione sociale e tecnologica.
Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Agnese Giannino

 

[Photo credit Priscilla Du Preez via Unsplash]

copertina-abbonamento-2020-ultima

Pascal e il Kundalini Yoga: due filosofie a confronto

«Noi conosciamo la verità, non solamente con la ragione, ma anche con il cuore; è in quest’ultimo modo che noi conosciamo i primi principi ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli». 
Pascal, Pensieri, edizione Bompiani, anno 2000, pensiero 479

In questo famoso brano dei suoi Pensieri, Blaise Pascal (1623-1662) ridimensiona il ruolo della ragione come unica facoltà conoscitiva, aggiungendo un’altra facoltà, il cuore.
Come sarebbe un mondo in cui cuore e pensiero razionale lavorano in sinergia? In cui conoscere possa significare anche sentire, capire, comprendere col cuore e forse avere una prospettiva più ampia e completa della realtà che ci circonda?

Per Pascal l’uomo non è solo cervello e non conosce solo con esso: è ragione e cuore, pensa con entrambi. Cuore e intelligenza sono dunque in sinergia: la razionalità dimostra di essere un’ottima chiave per conoscere l’universo fisico, ma una chiave limitata per aprire il mondo ben più ricco e complesso della realtà intesa in senso più ampio, in primis della realtà intima dell’uomo. Quando parla di cuore, o meglio di intelligenza del cuore, Pascal si riferisce all’idea delle Sacre Scritture, nelle quali il cuore rappresenta il baricentro intellettuale e morale della persona e il luogo di incontro con DioNe deriva che il pensiero, che costituisce per Pascal il proprium dell’uomo, è un pensiero del cuore che sente, che intuisce, che ha una sua finezza– e della ragione insieme.

Ma Pascal non è il solo a parlare dell’importanza di conoscere col cuore e centrarsi sul cuore.

La riscoperta del “potere” del cuore è il fulcro del Kundalini Yoga, di cui maestro e fondatore è stato Yogi Bhajan, che dall’India ha portato le conoscenze e la filosofia del Kundalini in occidente nel 1969.

«L’amore è il flusso costante e consistente della vita. È il veicolo del Prana. È il Divino che si manifesta nella radiosità. È, è sempre stato e sempre sarà».
Yogi Bhajan, 6 gennaio 1986

Ho avuto la fortuna di avvicinarmi a questi insegnamenti e precetti durante il periodo di “permanenza” forzata a casa a causa del Covid. Il Kundalini Yoga non si limita a insegnare l’esercizio fisico, la meditazione e le tecniche di respirazione yoga in quanto tali, ma insegna alle persone come vivere, come relazionarsi tra loro, e come relazionarsi a Dio riscoprendo la centralità del cuore, senza tralasciare però l’importanza di una mente lucida e di un pensiero razionale chiaro.

Guru Rattana Kaur, allieva storica di Yogi Bhajan, spiega molto accuratamente le tecniche, ma soprattutto la filosofia racchiusa nel Kundalini Yoga. Nel manuale L’evoluzione a un mondo centrato sul cuore con il Kundalini Yoga e la meditazione (edizioni Macro 2016) scrive:

«Yogi Bhajan ha proposto un percorso spirituale in cui l’elevazione non implica di trascendere il corpo. Ci ha offerto una tecnologia spirituale adatta alla gente comune, che ha famiglia, che vive in ambienti urbani, si sposa, ha dei figli e si guadagna da vivere. In definitiva, ci ha insegnato a onorare la nostra umanità, a rendere sacra la sessualità, incoraggiandoci a essere prosperi».

Il centro energetico del cuore, insegna il Kundalini, ha un impatto che è 108 milioni di volte più efficace di quello della testa.

Due filosofie molto diverse, quella di Pascal e quella indiana del Kundalini, ci conducono alla stessa riflessione: l’uomo non è solo cervello, è anche e soprattutto cuore. Nel cuore trova il suo baricentro, la sua intimità, la sua scintilla divina. Che mondo sarebbe se riuscissimo davvero a farli “lavorare” in sinergia, senza prevaricazioni?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Nicola Fioravanti su unsplash.com]

copertina-abbonamento-2020_nuovo

L’evento Coronavirus: sfida per il pensiero e l’esistenza

I giorni difficili e convulsi della pandemia da Coronavirus che stiamo attraversando si ergono come una sfida non solo dal punto di vista sanitario (il più urgente) e dal punto di vista socio-economico dai quali dipendiamo, ma pure come una sfida per il pensiero.

Nel momento in cui personale sanitario, ricercatori, amministratori e politici, sono impegnati per la gestione di questo vulnus, il Coronavirus, che flagella il nostro paese, non può venire meno l’esercizio del pensiero come interrogazione sul mondo e su se stessi, proprio alla luce di quanto stiamo vivendo. Se dunque, come sosteneva Hegel, la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero è quanto mai necessario esercitarsi in quanto vi è di più nobile e caratteristico nell’essere umano: pensare. La filosofia non può retrocedere dinanzi a questa sfida, non può starsene a guardare, non può esimersi dal prendere seriamente in considerazione quanto sta avvenendo. Deve farsi interprete della crisi del proprio tempo che, investendo la struttura del paese e l’intero sistema mondo, lascerà inevitabilmente delle cicatrici, più o meno profonde, non solo alla collettività ma a ciascun singolo nel suo modo di stare al mondo. L’evento, così per come si sta mostrando, non può essere ridotto solamente ad un episodio parentetico, la cui conclusione – che tutti auspichiamo essere il più vicina possibile – debba riportarci esattamente al precedente status quo. L’evento, infatti, così come lo aveva lucidamente descritto Hannah Arendt, è tutto ciò che accade e che ci riguarda in prima persona, che ci attraversa e talvolta ci sconvolge. L’evento sfida l’individualità e in questo caso l’intera collettività, costringendoci a pensare in modo differente noi stessi, gli altri e il mondo. Lungi dall’essere un accadere solamente negativo, l’evento può essere l’occasione di un’esperienza trasformativa per ciascun singolo.

L’esperienza può essere quella di un rinnovato modo di stare al mondo. Per questo, la particolare situazione che stiamo vivendo, di un mondo in preda alla paura e che sembra essersi fermato dinanzi ad un nemico invisibile, ci invita a non attendere passivamente il tramonto di questo periodo, ma a renderlo occasione di riscoperta di valori, modalità di vivere e assaporare il quotidiano, in particolare la relazione con se stessi – «ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene dal non saper restare tranquilli in una camera», scriveva Pascal –, con gli altri, in particolare i più prossimi, di affrontare quanto del mondo della vita sino a questo momento si era dato per scontato e sul quale ci si era adagiati. A questo si collega la riscoperta dell’essenziale per la vita, al fine di ripulire l’interiorità da quanto la soffoca e ne impedisce l’espressione e il nutrimento. Il tempo sospeso può essere favorevole a bilanci esistenziali, alla riscoperta di quei valori che animano l’esistenza e la muovono verso obiettivi ancora da realizzare nel futuro, facendo emergere le risorse migliori di ciascuno di noi, oltre le sovrastrutture conformistiche che uniformano le esistenze distruggendone le peculiarità. Il tempo che stiamo vivendo può essere inoltre occasione per affrancarci dal superfluo prodotto dall’industria dei bisogni e dei consumi, che in ultima analisi conduce a sentire persino la vita e le relazioni come oggetti da consumare, a discapito della bellezza dell’incontro fra soggetti umani che si riconoscono e si rispettano.

L’evento non va dunque rinchiuso sbrigativamente nei meandri della storia – se non per quanto riguarda i suoi effetti nefasti che ci auguriamo di neutralizzare al più presto –, ma è necessario lasciarlo parlare affinché interroghi le nostre coscienze. Quanto sta accadendo non è solo una sfida scientifica prima ed economica poi, ma pure un appello per il pensiero che si riflette nel nostro modo di essere e stare al mondo. Rispetto a questo è però importante vigilare sulla superficialità, nemica acerrima del pensiero, capace di catapultarci nuovamente nell’ordinario, pieno di oggetti e scelte di massa ma vuoto di senso.

Ingenui e incapaci di cogliere la lezione di questo tempo se, non appena terminata l’emergenza, torneremo alla vita precedente non trasformati e cresciuti interiormente. Riflettere, nel qui ed ora, può aiutarci a tornare alla quotidianità, con nuove consapevolezze oltre gli automatismi usuali, per molti versi inautentici sul piano esistenziale. Dal mondo della scuola a quello del lavoro, l’evento epocale che stiamo attraversando può ricondurci ad un modo di essere differente, trasformati interiormente da quanto accaduto, a condizione che si riesca a pensare questo presente, a riflettere intorno al proprio tempo. Chiediamoci: dopo questo evento Coronavirus, come tornerò alla mia quotidianità? Questo dipenderà non solo dai risvolti socio-economici, ma pure dall’approccio di pensiero che nel momento della prova abbiamo esercitato.

In questo senso – e con le dovute distinzioni – può essere utile richiamare alla memoria le parole che Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943, ebbe a scrivere nel proprio Diario nel bel mezzo della persecuzione nazista in Olanda: «Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile»2. Se dunque, da questa situazione, oltre a salvaguardare la nostra salute, i nostri corpi, non avremmo acquisito un «nuovo senso delle cose attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione –, allora non basterà»3.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1.B. Pascal, Pensieri e altri scritti, Edizioni San Paolo, Milano 1987, p. 167.
2.E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 2012, p. 185.
3.E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano, 2012, p. 45.

[Photo credits Eduard Militaru su unsplash.com]

copertina-abbonamento-2020-promo-primavera

Il bisogno umano di silenzio

«Viviamo nel tempo del rumore. Il silenzio è sotto attacco»1, così scrive Erling Kagge, esploratore e scrittore norvegese nel suo ultimo lavoro intitolato Il silenzio. Uno spazio dell’anima (Einaudi, 2017). Ed è proprio questa una descrizione che tristemente si addice al tempo presente. Cifra fondamentale del nostro tempo è infatti il rumore assordante che circonda la nostra frenetica quotidianità. Un frastuono che sia fa via via insostenibile per la mente e il cuore di ciascuno. Persino quei pochi attimi di silenzio e introspezione personale che sino a qualche tempo fa erano possibili nell’arco di una giornata, negli ultimi anni vengono occupati da quei prolungamenti bionici dei nostri arti che prendono il nome di tablet e smartphone e che non abbandoniamo nemmeno ai sevizi igienici o mentre “dormiamo”. Una vera e propria dipendenza tecnologica dettata dalla paura incontrollata di rimanere sconnessi (nomofobia).

Il mito tecnologico e performativo impera sulle esistenze degli abitatori di quest’epoca ipermoderna costringendoli a ritmi serrati, frequentazioni sempre più disturbanti e scelte di massa contraddistinte da voci, parole, chiacchiere, musica rintronante, in una bulimia di rumore che spesso ha l’inconsapevole obiettivo di mettere a tacere il vuoto interiore e di aggirare il timore di accedere alla propria interiorità più intima e vulnerabile. Ecco perché l’uomo contemporaneo, occidentale in particolare, oppresso dal rumore, pur sentendolo come insostenibile continua a preferirlo al silenzio.

Nondimeno, il silenzio è un bisogno precipuamente umano che necessita di essere soddisfatto ma che per realizzarsi richiede impegno, costanza e il coraggio di scendere in se stessi, prendendo contatto con la propria interiorità, i propri pensieri, le proprie emozioni. Diversamente dalla società del consumo, dell’illusoria allegrezza, della vita ipermondana, l’uomo ha bisogno di chiudere il rumore fuori di sé, di riscoprire dunque la possibilità di fare silenzio e incontrare se stesso, nient’altro che se stesso.

I luoghi dove è possibile sperimentare il silenzio sono molteplici, montagna incontaminata, mare lontano dalle stagioni della confusione balneare, eremi, monasteri ed ora persino luoghi creati appositamente secondo i principi fisici dell’insonorizzazione. Tuttavia, il silenzio è possibile ritrovarlo in ogni momento, proprio lì dove siamo, dove ci troviamo, dentro di noi. Questo richiede la volontà di assentarsi temporaneamente, di concedersi la possibilità di una pausa dal frastuono quotidiano, immergendosi in se stessi. Fare silenzio è dunque un esercizio di ascolto interiore, dal quale possono emergere più nitidamente i contorni della nostra anima. Ecco dunque che dal silenzio può affiorare lo stupore, origine di ogni filosofare, di ogni slancio creativo e di ogni vetta dello spirito. Una volta immersi nel silenzio, che ci confronta con noi stessi, è possibile ritornare rinnovati a dialogare con l’esterno, con la natura con la quale è possibile riassaporare un’originaria comunione, simbolo di una fratellanza generatrice di inesauribile ricchezza simbolica e interiore. In questo senso l’esperienza del silenzio è del tutto personale e in quanto tale non può essere che intima e profonda. Pertanto, una volta riscoperto, il silenzio diventa una forza, un’opportunità inalienabile di rientrare in se stessi come in una fortezza inespugnabile.

Condizione essenziale per il silenzio è la solitudine. Da non confondersi con l’isolamento che chiude la soggettività in un deserto emozionale e intellettuale, la solitudine è la necessaria capacità per poter trovare il silenzio e farne esperienza. Purtroppo, la capacità di stare soli è da sempre un problema per gli esseri umani, come aveva ben intuito Blaise Pascal in uno dei suoi celebri pensieri: «ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una sola cosa: dal non saper restare tranquilli in una camera»2. La solitudine, specialmente oggigiorno, appare come un disagio da evitare e non come l’opportunità per ritrovare se stessi nel silenzio, nella benefica assenza di rumori e parole inflazionate. È proprio nella solitudine e nel silenzio che sono custoditi i più preziosi valori umani, la propria essenza di esseri finiti, perennemente attratti dall’infinito e dalla sete di senso.

Il silenzio, che emerge nella solitudine creatrice, si stacca nettamente dalla mentalità dominante, dallo status quo della superficialità poiché richiama la nostra attenzione a quanto stiamo facendo. Il silenzio ci aiuta a riportare concentrazione ad ogni piccolo gesto, ad ogni singola azione che compiamo, anche nelle più consuete e apparentemente banali pratiche quotidiane. Il silenzio ci invita ad entrarci dentro alle cose, a farne esperienza consapevole: richiama l’attenzione all’attimo, al presente, al qui e ora, libero dal rimorso del passato e dall’angoscia del futuro. Il silenzio svela in questo senso tutto il suo potenziale educativo e terapeutico, poiché per fare silenzio è necessario disinserire il pilota automatico che guida le nostre giornate scandite dal tempo finito dell’orologio (chrònos) che divora le esistenze, per prendere contatto con il tempo, eterno, dell’istante, dell’interiorità.

Il silenzio è un esercizio difficile, insidiato dal rumore che infrange le nostre esistenze facendole piombare nel conformismo consumistico dove esse stesse diventano vittime di modalità annichilenti. Altresì è l’antidoto più efficace per “chiudere momentaneamente fuori il mondo”, così da poterlo osservare e capire con maggior lucidità, consapevolezza e spirito critico. Se dunque il rumore riduce significativamente la qualità della nostra vita, il silenzio è una possibilità di recuperare il rispetto per se stessi e la cura di una vita autentica.

Al silenzio bisogna anche educarsi, in particolare nelle relazioni intersoggettive. La comunicazione satura di parole, non necessariamente risulta efficace, spesso è un ostacolo al raggiungimento dell’intimità dell’incontro. Ecco perché le pause e i silenzi che connotano la comunicazione empatica fra esseri umani, sono ricchi di significati esistenziali che possiamo cogliere solo se siamo educati e abituati a far spazio al silenzio, in noi e nell’altro. Per questo, spesso il silenzio avvicina molto di più due persone che non fiumi di parole. Queste ultime possono distruggere l’incanto dell’incontro, poiché insufficienti per esprimere l’enigmatica profondità della nostra e dell’altrui interiorità.

Le parole devono dunque arrestarsi di fronte alla presenza del mistero inesprimibile dell’esistenza, al suo senso e a quello del mondo. In questa direzione, come non ricordare le parole arcane e al contempo sfavillanti che ha scritto il filosofo Ludwig Wittgenstein, nella prefazione al proprio Tractatus logico-philosophicus: «tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»3. Il linguaggio infatti configura «come il mondo è» ma non «che esso è»4. Il che significa che il linguaggio rappresenta la totalità di ciò che accade, dei fatti del mondo, costituisce l’immagine della realtà, ma non può configurare il senso (inesprimibile) del mondo. Invero, il senso del mondo e della vita non si possono raffigurare come fatti, non sono enunciabili con il linguaggio. In quanto realtà trascendenti il linguaggio stesso, costituiscono l’ineffabile, il mistico (dal greco myein, “esser muto”). A questo s’addice il silenzio: condizione unica per pensare, sentire e sperimentare intensamente, attraverso scintillanti risonanze interiori, ciò che non si può dire, ma solamente mostrare («esso mostra sé, è il Mistico»5), ciò su cui si deve tacere: il regno dell’indicibile.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. E. Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, Einaudi, Torino 2017, p. 27.
2. B. Pascal, Pensieri e altri scritti, Edizioni San Paolo, Milano, 198712, p. 167.
3. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, p. 23.
4 Ivi, p.108.
5. Ivi, p. 109.
[Photo credits Patrick Schneider su unsplash.com]

cop_06

La notte dell’anima fra inquietudini e speranza

Conoscere l’uomo e dunque conoscere se stessi implica penetrare i meandri dell’anima, attraversare le salite impervie e le pendenti discese della propria intimità più profonda. Quante volte nel corso della nostra vita ci troviamo immersi nel flusso impetuoso di emozioni e pensieri che come una corrente carsica solca le pareti più profonde della nostra anima? Quante volte questo fluire di pensieri ed emozioni ci fa sprofondare nella notte oscura dell’anima? Un buio al quale, più o meno consapevolmente, ci conduciamo o siamo condotti da contingenze esterne. Da un lato, una condizione di spaesamento intellettuale, che può portarci a sperimentare il vuoto, il nulla dell’esistenza. Dall’altro, uno smarrimento emotivo, che può condurci ad una profonda sofferenza psicologica e spirituale, nei misteri oscuri della tristezza, dell’angoscia e della disperazione.

Accogliere queste pause dell’anima significa accettare la propria finitudine, la propria umana miseria, la propria infinita piccolezza. Convivere momentaneamente con l’inquietudine del pensiero e delle emozioni che spesso si avviluppano in una inspiegabile e angosciante morsa, tuttavia significa riconoscere che la nostra anima non è immobile, ma che essa è in divenire, che il dinamismo che la caratterizza non si è arrestato, ma sta attraversando le faticose paludi dell’esistenza. In questo senso è possibile riconoscere il travaglio dell’anima, la sofferenza psicologica e spirituale dentro la storia del singolo, espressione dell’umanità.

Conoscere se stessi richiede di prendere coscienza della notte oscura dell’anima, di quel vuoto spaesante e talora disturbante, che sembra difficile colmare. È questa la condizione esistenziale che hanno sperimentato i più grandi maestri del pensiero e dello spirito, che sarebbe onesto definire maestri di vita. Pensiamo alla profonda conoscenza dell’animo umano di Socrate, all’esercizio interiore di Seneca e Montaigne, alle inquietudini del cuore di Agostino d’Ippona, al travaglio interiore di Giovanni della Croce, allo strazio esistenziale di Pascal, Leopardi e Kierkegaard, al buio dell’anima conosciuto da Simone Weil e Etty Hillesum, solo per citarne alcuni. Costoro hanno attraversato la notte oscura dell’anima, ne hanno sperimentato l’abisso e, più di qualsivoglia manuale di psicologia, possono testimoniare ancor oggi, attraverso i loro scritti sgorgati dalla sera della vita, il cammino tortuoso e sfavillante dell’anima alla ricerca di se stessa e del proprio senso.

Coloro i quali abbiano sperimentato le notti senza stelle dell’anima, si sono al contempo resi consapevoli che è proprio il vuoto, il nulla, la via verso il tutto, verso la pienezza. Solo la mancanza infatti induce l’incessante ricerca personale. Non a caso la parola desiderio (dal latino de-sidera) significa assenza delle stelle, brama d’infinito. L’uomo disposto a scendere nell’abisso della propria interiorità è l’uomo disponibile ad oscillare fra il nulla e il tutto, poiché consapevole che l’uno è foriero dell’altro. La contemplazione profonda non s’arresta dunque allo smarrimento interiore, ma riesce a scorgere, proprio nell’acme del travaglio, la luce della speranza che dà significato a pensieri ed emozioni trasfigurandoli positivamente. Cogliere anche solo i riflessi delle stelle nel torrente impetuoso dell’angoscia e della disperazione, implica la fiducia che le doglie del parto siano generatrici della vita e consente di intravedere che il dolore può essere fertile humus per ogni gesto creativo, per ogni atto d’amore e di vita. In questo senso, come non pensare all’inquietudine psicologica e spirituale di Vincent Van Gogh, dalla quale sono affiorate alcune fra le pennellate più intense, struggenti, appassionate e coinvolgenti della storia dell’arte. Come non ricordare la travagliata esistenza di Alda Merini, dalla cui sofferenza interiore sono sgorgate con slancio creativo poesie traboccanti di vita, amore e bellezza.

È questo l’approdo spirituale di ogni essere umano che vive secondo saggezza e che, avendo conosciuto il vuoto interiore e non smettendo di camminare per le praterie della propria anima, non si stacca dal mondo, ma ne prende attivamente parte per far sì che il suo viaggio interiore diventi generativo anche per tutto quanto è altro da lui. Per questo, è importante riconoscere il lavorio dell’anima anche quando calano le ombre della notte nella nostra esistenza, quando tutto sembra precipitare e perdersi in un abisso senza fondo. Quando ogni significato sembra svanire in un nichilismo distruttivo, è lì che possiamo cogliere espressioni veramente umane. L’inquietudine va dunque riconosciuta, accolta e rispettata in noi e in chi ci sta dinanzi come cifra dell’esistere, come punto di partenza ma non come approdo finale. Le trepidazioni dell’anima ci attraversano e ci trasformano positivamente se cogliamo in noi e negli altri barlumi di speranza che possono emergere anche nelle esistenze più disperate e angosciate. È importante spalancare le porte alla speranza che fa capolino proprio nelle notti oscure della vita. Essa è l’espressione della libertà ultima dello spirito, che conduce l’uomo a trascendere l’immediatezza del presente proiettandosi verso il futuro. Educhiamoci dunque ad ascoltare voci e silenzi dell’anima, a coglierne ombre e luci, a scorgere la speranza anche nelle lacrime, nel grido doloroso o talvolta strozzato dell’angoscia esistenziale che lacera l’interiorità. Educhiamoci a comprendere i moti profondi dell’anima che oscillano fra il dicibile e l’indicibile, fra il visibile e l’invisibile. Proprio accogliendo in noi e nell’altro questa tensione dialettica, fra ciò che può essere detto e l’inesprimibile, è possibile intravedere la speranza, che si riverbera luminosa come la luna sul mare della notte. Anche nelle tenebre dell’anima non cessiamo di coltivare in noi la speranza poiché, come affermava il filosofo tedesco Walter Benjamin: “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. La speranza è infatti garanzia di possibilità per lo spirito affinché si determini la libertà del singolo e la sua responsabilità, per il presente e per il futuro, nel tempo della vita e della storia.

Le inquietudini interiori sono la nudità dell’anima di fronte a noi stessi e all’altro, ma in questa fragilità di pensieri ed emozioni è custodita la vera forza umana. Invero, l’aver attraversato il travaglio della propria anima ci permette di avvicinare maggiormente il mondo interiore dell’altro, evitando di divenire monadi senza porte e finestre, immedesimandoci nella sua imperscrutabile essenza e nel suo vissuto con attenzione, sensibilità, rispetto e calore umano, aiutandolo a scorgere la speranza che, seppur leggera e impalpabile come la brezza estiva, è il motore che permette alla vita di non arrestarsi e di proseguire il proprio misterioso cammino.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo Credit: Hisu Lee via Unsplash.com]

banner-pubblicitario-La chiave di Sophia N6

Crisi ecologica e pensiero globale. La proposta di Edgar Morin

Nelle sue Sette lezioni sul pensiero globale, Edgar Morin afferma che il nostro è il tempo di una «politica interamente divorata dall’economia, asservita all’economia, e non a una qualsivoglia economia: all’economia che parla unicamente di interessi» e a causa della quale la povertà si sta rapidamente trasformando in «miseria di massa». Secondo Morin noi tutti viviamo sovrastati da un’economia selvaggia, che ha sviluppato «una sorta di tumore: il dominio del capitale finanziario speculativo». L’attuale sistema economico non solo impoverisce i più per concentrare la ricchezza nelle mani di pochi privilegiati, ma mette sempre più in pericolo l’ambiente e l’ecosistema, e quindi tutti i viventi. «L’eco­nomia detta di mercato, diciamo l’e­­co­­­no­mia capitalistica, ricopre ormai praticamente tutto il globo, compresa la Cina». L’e­mer­gen­za non è quindi locale, ma planetaria.

Morin ritiene che l’unico modo per risolvere alla radice i problemi della Terra sia prendere coscienza della «devastazione ecologica» che stiamo causando e ripensare al nostro posto nel mondo. Ciò che si tratta di capire è che noi crediamo di poter dominare la biosfera, ma «più la dominiamo, più la degradiamo e più degradiamo le nostre condizioni di vita». È quindi più che mai necessaria, per Morin, una «riforma della conoscenza e del pensiero, per delineare un pensiero “complesso” […]: un pensiero globale, mondiale», che tenga conto del «cordone ombelicale» che ci unisce a tutta la Natura.

Come si può intuire, il “pensiero complesso” che propone Morin è multidisciplinare e attento a cogliere le connessioni sussistenti tra le parti e il Tutto: «la parola complexus», ricorda Morin, «vuol dire “legato”, “tessuto insieme” e, dunque, il pensiero complesso è un pensiero che lega, da una parte contestualizzando, cioè legando al contesto, dall’altra parte tentando di comprendere che cosa è un sistema». Non a caso, Morin adotta come proprio motto personale il pensiero n° 72 di Pascal (ed. Brunschvicg):

«poiché tutte le cose sono causate e causanti, […] e tutte sono legate da un vincolo naturale e impercettibile che unisce le più lontane e le più diverse, ritengo che sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere dettagliatamente le parti».

Guardare al Tutto per capire il ruolo delle parti e osservare l’intreccio e l’interazione delle parti per comprendere la natura del Tutto: ecco gli obiettivi che si prefigge il “pensiero complesso” di Morin. La proposta di questo pensatore è senz’altro sensata, ma quali risposte offre, in concreto, il suo “pensiero globale” ai problemi del nostro tempo? Per Morin, ciò che andrebbe fatto per migliorare la situazione del pianeta è molto chiaro: in primo luogo «possiamo e dobbiamo concepire i limiti delle riserve energetiche esauribili, come quelle del petrolio e del carbone, privilegiando le risorse illimitate delle energie solare, eolica e delle maree». In secondo luogo, «bisognerà anche contenere la crescente urbanizzazione apparentemente illimitata», in modo da favorire il deflusso della popolazione «dalle città alle campagne».

Morin guarda inoltre con favore all’agro-ecologia e all’agro-silvicoltura: «malgrado l’attuale dominio dell’agricoltura e dell’allevamento industrializzati», scrive il sociologo francese, il diffondersi di pratiche ecologiche in campo agricolo «è uno dei segnali deboli che […] lasciano intravedere la possibilità di un futuro migliore per l’alimentazione delle città e la vita delle campagne». Necessaria sarebbe anche la creazione, in ogni agglomerato urbano, di «eco-quartieri», dotati di «sorgenti di energia pulita e di circolazione automobilistica sempre più elettrificata».

Nonostante Morin veda il mondo muoversi in direzione di una maggiore consapevolezza ecologica, egli ritiene che tali progressi avvengano solo su piccola scala e comunque troppo lentamente, e questo a causa della mancanza di una spinta decisiva, quella che dovrebbe imprimere la politica. Morin ritiene ad esempio che gli Stati non facciano abbastanza per promuovere l’agro-ecologia, e che dietro a questa mancanza di impegno si nasconda l’intenzione di favorire «le grandi monocolture e gli allevamenti industrializzati».

Questo disinteresse del mondo politico si estende poi a ogni altro tipo di iniziativa “verde”. Ciò che sembra mancare è la volontà di agire in modo globale e sistematico e di integrare tra loro i provvedimenti che potrebbero rendere il mondo più “pulito” e vivibile. Tutto ciò che riguarda le pratiche ecologiche, scrive Morin, «è molto disperso e non è ancora in confluenza. Nessun organismo, nessun partito politico, nessuna associazione si occupa di far convergere queste iniziative, di farle conoscere».

Secondo Morin, ciò che l’umanità deve fare per salvarsi dal baratro è rendere “ecocompatibile” non solo la propria tecnologia, ma la propria intera economia, intervenendo alle sue radici per sanarla:

«ciò che deve crescere è un’economia ecologizzata, un’economia della salute, un’economia del bene pubblico, un’economia della solidarietà, una nuova educazione».

Morin non è comunque un sognatore o un pensatore che propone facili utopie e sa bene quanto sia arduo fare dei reali passi avanti nella direzione da lui indicata. Non a caso, a proposito del futuro del nostro pianeta, egli afferma che è necessario portarsi “oltre l’ottimismo e il pessimismo”: «l’ottimismo ci acceca sui pericoli; il pessimismo ci paralizza e contribuisce al peggio. Bisogna pensare oltre l’ottimismo e il pessimismo. Da parte mia, sono un otti-pessimista». Questa dichiarazione ha come sfondo la consapevolezza che il futuro del mondo non è predeterminato e prestabilito, ma ancora tutto da decidere e quindi aperto a una molteplicità di esiti, che possono essere drammatici ma anche lieti. Il miglioramento della situazione globale non è quindi scontato, ma nemmeno impossibile.

Certo, se l’umanità prosegue sulla strada che finora ha imboccato, il futuro non sarà roseo, ma nulla impedisce agli esseri umani di “cambiare rotta” e veleggiare verso lidi migliori. Ecco perché Morin afferma che la «lotta» per costruire un mondo migliore – a cui tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo contribuire – «non è totalmente disperata». Ma dato che il “lieto fine” non è affatto scontato, solo se ci impegniamo veramente «l’incredibile può accadere, e accadrà». Morin stesso ricorda a questo proposito l’antica sentenza del filosofo greco Eraclito: «se non cerchi l’insperato, non lo troverai».

 

Gianluca Venturini

 

 

[L’immagine è una rielaborazione digitale di immagini tratte da Google immagini]

 

copabb2019_ott

Educhiamoci a pensare

E pensare che c’era il pensiero”
Giorgio Gaber

 

La filosofia è sin dalle sue origini esercizio del pensiero secondo ragione. I filosofi da sempre considerano l’uomo come l’essere per eccellenza dotato di pensiero e che, proprio questo dono ricevuto da Dio oppure dalla Natura, ha il compito e la responsabilità di adoperare.

È sufficiente scorrere celermente la galleria dei sapienti per scorgere quanta importanza venga accordata da ciascuno al bisogno di pensare. Partendo da Aristotele, per il quale la mansione propriamente umana è l’attività teoretica e la felicità stessa dell’uomo consiste nella vita di pensiero1. Passando per Severino Boezio che definisce la persona come “sostanza individuale di natura razionale”, fino a Cartesio dove il cogito è il fondamento metafisico affinché si possa affermare di non ingannarsi circa la propria esistenza, approdando all’illuminismo kantiano, stagione nella quale il pensiero riceve con decisione il più luminoso dei riconoscimenti. Scrive il filosofo di Konigsberg in un celebre articolo: «Sapere aude! Abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto! Questa è dunque la parola d’ordine dell’illuminismo»2.

Sempre più spesso l’uomo del tempo presente rinuncia invece all’esercizio del pensiero. La sua qualità precipua, ciò che per antonomasia lo distingue da piante e animali, sembra tragicamente perdersi nel vuoto. È sufficiente osservare la vita, le scelte e le modalità di esprimersi di buona parte degli esseri umani che compongono la società ipermoderna  per constatare che la centralità del pensiero razionale, attorno alla quale si è sviluppata la cultura occidentale, sembra sgretolarsi all’incedere di esistenze sempre più vuote e anonime.

È ancora una volta la parola filosofica che può venire in soccorso della crisi contemporanea, esortandoci a rieducare la nobile e quanto mai preziosa facoltà del pensiero. Nella complessità del tempo presente, che sembra travolgere freneticamente le esistenze, la soluzione non è infatti quella di abdicare il pensiero in favore di un’illusoria leggerezza (certamente, l’uomo necessita anche di quella, purché consapevole), quanto piuttosto riconoscerne il suo intrinseco bisogno. Invero, un uomo che non pensa è un uomo che lascia agli altri la possibilità di pensare per lui. È un soggetto che, secondo Kant, preferisce rimanere in uno stato di minorità, di eteronomia, senza mai raggiungere l’autonomia che consiste nell’esercizio costante e consapevole del pensiero libero. «È così comodo – asserisce Kant – essere minorenni. Se ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie la dieta per me […] Non ho bisogno di pensare […] altri già si incaricheranno per me di questa fastidiosa occupazione»3. L’uomo preferisce farsi guidare e governare dagli altri, siano essi esseri umani o istituzioni, piuttosto che accedere all’autonomia attraversando la fatica del concetto. Così facendo il soggetto diviene incapace di scegliere liberamente, di agire criticamente e anzitutto di discernere il bene dal male. Ed è questa, come ha mirabilmente intuito Hannah Arendt, la dolorosa lezione che ci giunge dal recente passato totalitario. Occupandosi del processo al gerarca nazista Otto Adolf Eichmann, la pensatrice politica tedesca ha sostenuto che, avendo completamente rinunciato a pensare autonomamente, quest’uomo aveva perduto la possibilità di agire con libertà, sottomettendosi così ad un potere superiore, in questo caso ad un potere criminale. Egli era divenuto un cieco esecutore, che avendo abdicato al lieve evento del pensiero non era più stato capace di distinguere il bene dal male. Scrive Arendt riferendosi ad Eichmann: «Per dirla in parole povere, egli non capì mai ciò che stava facendo […] non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»4. La profonda analisi di Arendt spiega che è proprio laddove si abbandona il pensiero che il male dilaga, poiché la ragion pratica si può esercitare moralmente solo se preceduta da una pratica della ragione.

La contemporaneità, non sta dunque solamente attraversando una crisi economica senza precedenti, ma forse e più precisamente sta avanzando verso il futuro senza pensiero. Ma quale futuro può darsi senza l’esercizio del pensiero? Anche il tessuto socio-economico può infatti iniziare a ripartire solo se vi è un utilizzo serio e ponderato della ragione autonoma, che guidi a scelte equilibrate e lungimiranti nell’agire. L’analisi profonda della realtà, scorge che la decadenza è prima di tutto una crisi di individui che in parte o totalmente ripudiano il pensiero, finendo per confluire in masse che pensano e agiscono al posto loro. Dove tutti fanno ciò che fanno gli altri (conformismo) e vogliono ciò che vogliono gli altri (totalitarismo). Uno sguardo antropologico e sociologico non può che confermare questa tendenza spersonalizzante, che si rivela proprio nel momento in cui si esclude il pensiero. In questo senso risuonano più attuali che mai le parole di Carlo Maria Martini, il quale ebbe a dire: «Mi angustiano, invece, le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante»5.

L’esercizio del pensiero è la condizione senza la quale non si dà libertà alcuna. Una libertà interiore che niente e nessuno ci potrà mai strappare. «Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. […] Studiamoci dunque di pensare bene»6 scriveva Pascal. Solo così potrà avanzare un mondo moralmente orientato al bene e per questo più umano, più vivibile e dove come singolo «non devo chiedere la mia dignità allo spazio ma al retto uso del mio pensiero»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Bari 2017.
2. I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari 2019, p. 45.
3. Ivi, p. 45
4. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Felrtinelli, Milano, 201423, p. 290.
5. C. M. Martini, G. Porschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, p.64.
6. B. Pascal, Pensieri, Edizioni San Paolo, Milano, 198712, p. 240.
7. Ivi, p. 241.

[Immagine tratta da unsplash.com]

copertina-abbonamento-2020-promo-primavera

Quando un computer ha confutato la dimostrazione dell’esistenza di Dio

<p>3D illustration. Artificial neuron in concept of artificial intelligence. Wall-shaped binary codes make transmission lines of pulses and/or information in an analogy to a microchip.</p>

La storia del pensiero filosofico dell’ultimo millennio può essere raccontata attraverso l’approccio dei diversi filosofi al celebre argomento ontologico. Da Anselmo fino ai giorni nostri passando per Spinoza, Leibniz, Kant e Gödel, grandi menti si sono date battaglia intorno alla sua validità.
L’argomento, tanto semplice quanto geniale, si compone di due premesse e di una conclusione.

  1. Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore (in perfezione);
  2. Ciò che esiste è maggiore (in perfezione) rispetto a ciò che non esiste;
  3. Di conseguenza Dio esiste necessariamente.

La fascinazione esercitata da questo argomento è dovuta al fatto che a differenza delle prove a posteriori come quelle di Aristotele e San Tommaso, e a differenza degli argomenti su base probabilistica come quella di Pascal, essa è deduttiva, ossia se corretta dimostra una volta per tutte in modo decisivo l’esistenza di Dio. Sarebbe così risolto l’enigma che più di tutti si è affacciato alla coscienza umana.

Nel dibattito contemporaneo senza dubbio la formulazione che ha riscosso maggior successo è dovuta a Kurt Gödel (1970), meglio noto per i due famosissimi e spesso male interpretati teoremi di incompletezza. La formulazione gödeliana ha il vantaggio di tradurre l’argomentazione in termini formali, ottenendo così maggior rigore ed eleganza ed evitando espressioni vaghe presenti nella versione originale che ne inficiavano l’esito.  

Un’altra storia – molto più recente – è invece quella degli automi capaci di computare, cioè di eseguire calcoli matematici o deduzioni logiche. Dall’ideale di Turing alla macchina di Von Neumann fino ai nostri computer, la semplice manipolazione di simboli ha permesso di trasformare in mille modi, alcuni più evidenti di altri, il nostro modo di vivere. La filosofia come qualsiasi altra dimensione della vita contemporanea non rimane esente dal confronto con le nuove tecnologie. Da un lato la filosofia fa ciò che le è proprio: riflette sui limiti di applicazione, sul buon uso, sulle implicazioni etiche; dall’altro se ne serve, come di utili strumenti che servono ad arrivare là dove la capacità umana di calcolo si scontra coi suoi limiti e ben oltre.

Queste due storie apparentemente così estranee si incrociano proprio a questo punto: qualcuno infatti ha pensato di utilizzare un calcolatore programmato allo scopo di verificare la coerenza della dimostrazione logica dell’esistenza di Dio da parte di Gödel. Talvolta infatti alcuni assiomi – le fondamenta sui cui si basano le dimostrazioni – si scoprono inconsistenti: ciò avviene quando derivano teoremi tra loro contraddittori.

Solo così nel 2013 un calcolatore ha derivato due teoremi contraddittori a partire da un assioma su cui si regge l’argomento gödeliano. Ciò lontano dall’essere la prova definitiva dell’inconcludenza dell’argomento ontologico, aperto sempre ad esser riformulato in modo da evitare contraddizioni, ci annuncia – in modo abbastanza appariscente – l’importanza che possono avere le nuove tecnologie di questo tipo applicate alla filosofia.

Questi strumenti, come protesi del pensiero nella sua forma meccanica e formale, possono essere d’aiuto nello svelare alcuni errori che l’uomo, anche il più esperto, può lasciarsi sfuggire. Tuttavia sarà di nuovo compito dell’uomo interpretare i risultati che ci fornisce il calcolatore, capirne il perché ed eventualmente trovare una soluzione se ciò è possibile.

 

Francesco Fanti Rovetta

NOTE:
Per i dettagli tecnici della scoperta cliccate qui.

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03