Quando l’arte si fa esperienza: la percezione come strumento d’indagine

Qualche giorno fa l’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte ha ospitato il collettivo [I] Experience, con la sua performance artistica a 360 gradi. Un progetto complesso e ben strutturato che consiste nell’ascolto attraverso cuffie in modalità binaurale di una sinfonia rock, eseguita live da quattro musicisti e una cantante. Nelle pause tra un brano e l’altro, immerso nel silenzio ovattato delle cuffie, lo spettatore ha la possibilità di seguire sul proprio smartphone o tablet un testo che scorre. La musica è inoltre accompagnata da una visual dai toni psichedelici ed evocativi.

Un’esperienza completa, che invita all’osservazione, all’ascolto e alla rielaborazione degli input narrativi offerti dalla storia che si svolge sullo schermo. Il ritmo della performance è quindi dettato dal respiro della protagonista del racconto: una ragazza con problemi di dipendenza, solitudine e paranoia.the-experience-2_tra_la-chiave-di-sophia

Lo spettacolo ci offre, dunque, uno sguardo sul fenomeno sociale dei giovani hikikomori, particolarmente grave in Giappone, che consiste nella progressiva alienazione volontaria dalla realtà e spesso si conclude con suicidi collettivi.

Emerge un’intenzione di indagine che definirei quasi scientifica e sociologica. Le modalità proprie della fruizione ci trasportano nella dimensione emozionale di un hikikomori: l’interiorità di cui la musica si fa espressione, non coincide infatti con gli input esterni.

Un concerto che dovrebbe essere vissuto collettivamente diventa così una sinfonia intima e privata. Ci troviamo a vivere un’esperienza in solitudine, anche se all’interno di uno spazio pubblico e seduti tra la moltitudine: al di fuori di noi c’è solo silenzio e persone riparate dalle cuffie.

Parole quindi che riflettono la musica, che a sua volta restituisce le emozioni del racconto, o almeno quelle che ognuno può elaborare secondo la sua personale lettura. La propria emotività si trasforma in uno scudo, un rifugio nel quale è dolce ripararsi e ad un certo punto conveniente.

Un circolo vizioso e ipnotico, uno stato che tra l’altro si riflette nelle proiezioni psichedeliche ed oniriche.the-experience-1_tra_la-chiave-di-sophia

L’esperienza artistica forse non può dare delle risposte certe, perché è soggettiva, ma d’altra parte aiuta ad elaborare domande. Chiedersi perché un ragazzo arrivi a diventare hikikomori non ci permette però di adottare la giusta prospettiva sul fenomeno. Le ragioni di questa patologia sono così profondamente radicate nel subconscio che risultano difficili da comprendere; inoltre questo tipo di sofferenza ha una natura totalmente personale ed è impossibile da condividere. Non a caso l’unica condivisione accettata dagli hikikomori è attraverso amicizie virtuali, scambi di parole mediate da una rigida tastiera e semmai addolcite con qualche emoticon.

Bisogna invece cambiare punto di vista e fermarsi a pensare come sia possibile percepire con i sensi strettamente canalizzati, o addirittura oscurati.

Credo sia questa la sfumatura più interessante sulla quale il progetto di [I] Experience ci porta a riflettere: d’altronde si tratta di partecipare ad un concerto ma ascoltando esclusivamente attraverso delle cuffie, che non permettono al suono esterno di entrare, e con lo sguardo concentrato su uno schermo, per cui le altre persone diventano invisibili.

La performance ci invita a sperimentare una sorta di isolamento percettivo, capace di creare universi fittizi, e, senza esprimere alcun giudizio, ad entrare in empatia con la protagonista. Per poi dimostrare, invece, che questa empatia per certi versi è illusoria, poiché ognuno è solo con se stesso. Emerge come il problema sia un’errata canalizzazione degli organi sensoriali: lo sguardo rivolto verso la propria interiorità resta così intrappolato in una paura da cui è difficile uscire e contro cui è impossibile opporsi.

Essenzialmente [I] Experience − che già nel logotipo del nome ci presenta una I (un io quindi) imprigionato tra parentesi − ci invita così a riappropriarci della nostra esperienza del mondo, di sentire al di fuori di noi, come reazione all’isolamento imposto durante il concerto.

Claudia Carbonari

Il contratto sociale: Rousseau e la contemporaneità

<p>defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis</p>

È indubbio che l’Occidente stia vivendo un momento molto interessante della sua storia politica: anche grazie al concretizzarsi di alcuni scenari socio-politici che si credevano impossibili, assurdi, si ha un risveglio – forse lento, forse ancora iniziale – della coscienza politica dei cittadini occidentali. C’è voglia di occuparsi di politica e si è tornati a parlarne quotidianamente: quel che manca, a volte, son le categorie con cui interpretare alcuni fenomeni politici e la discussione pubblica diventa chiacchiericcio. In un sistema di mondi possibili ve n’è uno in cui ogni cittadino è adeguatamente informato a proposito di ciò di cui parla, in cui il discorso pubblico si colloca opportunamente rispetto ai fenomeni di cui si fa interprete. Questo mondo è ben lungi dall’essere identificabile con il nostro, in cui viviamo una tensione, un conflitto tra la voglia di partecipare al discorso pubblico e l’inadeguatezza della formazione generale dei cittadini: tra gli esiti di questo conflitto, vi sono alcune forme insane di partecipazione politica. Diciamo insane per intendere quelle forme di partecipazione alla cosa pubblica che mancano l’obiettivo, che illudono il cittadino di avere una qualche influenza sulla dimensione politica del mondo in cui vive.

Come si può risolvere questo conflitto e rendere possibile per tutti, cioè per chiunque abbia voglia di formarsi adeguatamente, la partecipazione al discorso pubblico?

Bisogna tornare a riflettere sulle origini della comunità politica in cui il cittadino si propone di agire, tentare di comprendere le ragioni di questa estraneità che la generalità delle persone vive rispetto ad essa, per poi ricalibrare adeguatamente le forme di partecipazione: la politica – intesa qui in senso ampio – va evolvendosi a ritmi serrati e non è pensabile che i cittadini non elaborino forme di azione e discorso politico altrettanto evolute, a meno che non si voglia rinunciare del tutto a questa dimensione. La qual cosa significherebbe accettare tacitamente una qualsiasi forma di dispotismo, poiché verrebbe meno la forza politica del cittadino e, con essa, il principale limite di ogni limite costituito.

Per riflettere circa la formazione della comunità politica, è opportuno farsi guidare da quei pensatori che hanno dedicato a questo tema il meglio della loro riflessione filosofica.

Uno tra questi è senza dubbio Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che ha riflettuto a proposito dei momenti costitutivi della comunità politica, quelli in cui gli esseri umani entrano a far parte di un grande e unico corpo politico, attraverso la stipulazione di un contratto sociale. Quanto v’è di peculiare nella riflessione di Rousseau, a ben vedere, è il fatto che il cittadino debba rinunciare del tutto alla propria sovranità, di cui godeva in stato di natura, senza con ciò subire alcuna diminuzione: la cittadinanza riconsidera tutti e sana ogni deficit di potere. È nella partecipazione alla vita della comunità che l’essere umano è pienamente autonomo e libero: e ciò è possibile per il fatto che il cittadino partecipa alla nascita della comunità di cui sarà parte, esercitando in prima persona il proprio potere.

Ciò che sembra mancare alla nostra contemporaneità è la disponibilità ad assumersi, da parte di troppi singoli, porzioni seppur ridotte di responsabilità: a tale resistenza fa da contraltare, ad ogni modo, la richiesta sempre più forte di spazi d’azione critica rispetto alla vita politica. Sembra, cioè, che alcuni cittadini vivano una relazione posticcia con la propria comunità, alla cui ideale fondazione non prendono parte, restando inevitabilmente in una situazione conflittuale tra i propri desideri e le condizioni di attuabilità degli stessi.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]

Brexit: il Leviatano capovolto

Al di là della valutazione sull’esito del referendum, abbiamo assistito a una pagina di storia importante per l’Unione Europea e per la storia in generale: il Regno Unito entrato nel mercato unito nel 1973 ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. La Filosofia e il pensiero hanno l’obbligo di provare a interpretare la contemporaneità e le vicende che ci riguardano tutti, qualcosa è cambiato.
Le mutazioni derivanti dall’innovazione e la svolta digitale stanno modificando in maniera indelebile le democrazie contemporanee, assistiamo sempre di più alla richiesta di partecipazione, alla disintermediazione che sembra minare in profondità l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La democrazia rappresentativa sorge da esigenze palesi, non tutti possono decidere tutto o essere informati su tutto, servono luoghi preposti alla decisione, infrastrutture precise e la decisione non può essere sempre estesa a tutti, eppure il modello democratico che vede nel Regno Unito un esempio a partire dal 1700 sembra entrare in crisi in una nuova richiesta di partecipazione.

Il Regno Unito è la patria di Thomas Hobbes, teorico della turborappresentatività: tutti i cittadini devono stringersi intorno a un despota illuminato e dar così vita al Leviatano; oggi quel Leviatano sembra essersi capovolto, le classi dirigenti sembrano sempre più in balìa di una smodata richiesta di partecipazione che non riescono a canalizzare. Del resto una delle lamentele ricorrenti relative all’Unione Europea è proprio la sua distanza, il sembrare scarsamente rappresentativa della volontà del popolo o di una nuova categoria che serpeggia sempre più nel dibattito pubblico quotidiano “la gente”.

«Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…»
Thomas Hobbes, Leviatano

Hobbes oggi ci sembra un autore estremo, dispotico, conservatore e accentratore, ma nel contempo appare altrettanto rischioso far esprimere tutti su tutto se non correttamente informati. Studi recenti mostrano come l’analfabetismo funzionale sia in fase dilagante mentre l’istruzione di base delle persone è complessivamente migliorata, ma se è vero che ormai quasi tutti sanno leggere pare che non tutti siano in grado di interpretare correttamente un testo. La rete, internet e la digitalizzazione sono strumenti potentissimi per l’informazione, ma diventano anche veicolo di disinformazione: quante volte abbiamo visto amiche e amici cadere tranello in qualche bufala? Perché la tentazione di leggere superficialmente e condividere alle volte è forte, l’approfondimento o il controllo delle fonti risulta faticoso e complesso – anche chi vi scrive adesso un paio di volte è cascato in qualche idiozia per pigrizia. L’editoria così come l’abbiamo conosciuta è in crisi e il controllo delle fonti sembra sempre più superato, la comunicazione si è velocizzata a discapito della profondità; e non lo scrivo con nostalgia, non si torna indietro, ma bisogna farci i conti perché la circolazione di informazioni fallaci comporta anche la costruzione di opinioni meno consapevoli o per nulla consapevoli, irrazionali e dettate spesso da rabbia o rivendicazione.

Guardando la BBC stupisce vedere certi intervistati dire:
«I’m shocked e worried. I voted Leave but didn’t think my vote would count. I never thought it would actually happen». Oppure: «What I have done? I actually didn’t expect the UK to leave».
Persone che in fondo non pensavano che il loro voto avrebbe contato, che lo hanno fatto superficialmente o per esprimere un malessere. Persone che magari lo hanno fatto nella convinzione, anche questo è un mito ricorrente nel dibattito contemporaneo, al motto “tanto i poteri forti non ce lo faranno mai fare!”. Ecco, questa vicenda ha dimostrato che si può uscire dall’Europa, che la democrazia diretta può esprimersi liberamente; non ci sono limiti e proprio per questo dovrebbe renderci tutti più responsabili, perché tutti andiamo a determinare quel Leviatano molto strano di cui ci parla Canetti nel libro Massa e Potere. L’autore impiegò 38 anni a scrivere questo libro, ci tengo a segnalarlo per far capire quanto è complessa questa bestia strana che chiamiamo “Massa”, che è formata da tutti e nel contempo è anche “altro” dalla mera somma di tutti noi.
L’Europa, per le generazioni che l’hanno voluta, era l’orizzonte per sentirsi di giorno in giorno in una “casa”, in un posto più sicuro dopo che la divisione intestina degli Stati Nazione aveva portato a quella deriva culminate nelle due guerre mondiali; oggi ci avventuriamo in acque inesplorate dove ci si chiede fino a che punto si sfogherà questa spinta centripeta che potrebbe vedere la disarticolazione del Regno Unito con la separazione di Irlanda del Nord e Scozia. Ma non è solo questo: in Spagna si inizia a chiedere che Gibilterra, dove ha ampiamente vinto al 96% il Remain, possa tornare spagnola.

Hobbes afferma che il suo Stato assoluto può degenerare in una tirannide, tuttavia ripete a più riprese che questa situazione sarà sempre migliore e più sopportabile della guerra civile. Estremo? Decisamente sì. Però bisogna anche far attenzione ad invocare la democrazia diretta attraverso il referendum in maniera poco accorta, perché il paese si può anche spaccare generando fortissime tensioni sociali tra le parti.

C’è chi ha ridotto questo voto alla disuguaglianza derivante dall’Unione Europea e il declino della classe media, ma è interessante notare invece che i giovani britannici, i quali certamente sono il gruppo sociale che soffre più di tutti delle accresciute disuguaglianze economiche, hanno votato in massa per restare, mentre chi soffriva meno, ovvero gli anziani, ha deciso di lasciare. C’è da aggiungere che molti anziani hanno fondi pensione integrative molto sensibili alla fluttuazione della sterlina e che quindi subiranno maggiormente la sofferenza della moneta.

Non esprimo giudizi, ma pare che l’epoca contemporanea sia sempre più in balìa di un Leviatano capovolto: non un monarca al potere, ma l’egemonia della massa nell’epoca della rete e della democrazia diretta, dove ognuno vale uno, ma non sempre si può garantire che ognuno sia informato correttamente.

La Filosofia e i saperi umanistici forse possono essere d’aiuto nella acquisizione di una maggior consapevolezza, perché senza consapevolezza non può essere fatta una scelta davvero genuina: possiamo scegliere nell’ignoranza, ma restiamo pur sempre responsabili della nostre azioni – come dice Aristotele -, quindi meglio assicurarci di aver capito bene cosa stiamo scegliendo prima di impugnare la matita e fare una X su un foglio elettorale.

Matteo Montagner

Conformismo democratico: un dialogo tra A. Tocqueville e H. Arendt

Hannah Arendt, nella sua lunga riflessione, è sempre tornata sulle pagine di Alexis Tocqueville, tanto che potrebbe essere considerata vera erede del pensatore normanno. Pur potendo parlare di continuità di pensiero, visti i continui rimandi ai testi di Tocqueville da parte della Arendt, è utile quanto necessario un autentico confronto non solo tra i punti di contatto ma anche tra le differenze delle due prospettive. Dobbiamo tener conto infatti, che tra i due Autori vi è un contesto storico, sociale e intellettuale molto diverso.

Tocqueville aveva ben intuito quei dilemmi interni della società moderna, che secondo la Arendt, hanno poi trovato la loro massima espressione nel fenomeno totalitario. Se consideriamo poi le riflessioni circa la civiltà di massa che la Arendt delinea in Vita Activa, il richiamo a Tocqueville è evidente: egli aveva messo in evidenza infatti le trasformazioni antropologiche del cittadino democratico verso un universale livellamento dell’assetto egualitario e di conseguenza, l’inabissarsi del singolo verso una folla piatta. Siamo di fronte a un processo di de-individualizzazione che tocca sia l’uomo-eguale quanto l’uomo-massa arendtiano.

Hannah Arendt riconosce a Tocqueville il merito di aver individuato nell’uguaglianza dei moderni l’origine del conformismo della società moderna. Se per Tocqueville la massificazione, cui è sottoposto il cittadino americano, si realizza nel momento in cui l’uomo-eguale si abbandona al potere della maggioranza, per Hannah Arendt il livellamento dell’uomo-massa è rintracciabile all’interno di quel processo omologante che è emerso a partire da un individuo che non è più in grado di distinguere l’oikos dall’agorà e concentra tutta la propria esistenza attorno al labor, dove ciascun individuo altro non è che un semplice ingranaggio nella grande macchina produttiva. Un conformismo comportamentale nato da un agire strumentale standardizzato, che sfocia nella totale spersonalizzazione dell’individuo, il quale, spogliato di ogni tratto distintivo, è privato di quella dimensione intersoggettiva dell’in-fra in cui poter comunicare e relazionarsi. In Vita Activa così scrive Hannah Arendt:

«ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare, non è, almeno non lo è principalmente, il numero delle persone implicate, ma il fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di separarle»1.

I due pensatori concordano sul delinearsi di un nuovo ordine sociale composto da individui eguali ma isolati l’uno dall’altro, individui interessati solamente al perseguimento di una felicità privata e non più interessati a quella felicità pubblica di cui parlava la Arendt, ovvero di quella felicità coincidente con la partecipazione alla vita politica, una partecipazione che però va intesa come azione diretta al potere politico. Leggiamo così:

«perché felicità pubblica significava una partecipazione al governo degli affari, cioè al potere pubblico, in quanto distinto dal diritto, generalmente riconosciuto, di essere protetti dal governo persino contro il potere pubblico»2.

Visione comune è questo graduale inabissarsi dell’agire politico in epoca moderna. Ciò che è andato perso è quella capacità umana di agire e dialogare in uno spazio condiviso da una pluralità di individui diversi3. Solamente all’interno di uno spazio pubblico l’individuo può mostrare la propria unicità; così «la politica – ripensata e ri-immaginata a partire dalla suggestioni antiche, ma non esclusivamente aderente a esse – non è altro che lo spazio/tempo in cui la pluralità può mostrarsi»4. La ricerca di uno spazio politico nuovo dove il pluralismo possa dar vita a una nuova libertà degli antichi5, è ciò che lega il pensiero di Hannah Arendt al liberalismo di Tocqueville.

 

Elena Casagrande

 

NOTE
1. H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1964, p. 59.
2. H. Arendt, L’azione e «la ricerca della felicità», p. 345
3. O. Guaraldo, Hannah Arendt: la politica come libertà, in Quaderni laici, n.7, 2012, p.99
4. Ivi, p.103
5. Rifierimento a B. Costant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Einaudi, Torino, 2005.

Che fine ha fatto la giustizia?

Ogni giorno sentiamo parlare del bisogno di ricomporre i tasselli per una giustizia sociale, senza che alcun cambiamento prenda concretamente forma, lasciandoci in mano la speranza di un domani che sembra non arrivare mai.

Con ciò non voglio sostenere che la speranza sia sbagliata, tutt’altro.

Talvolta è proprio questa a tenerci psichicamente in vita quando le sabbie mobili sembrano risucchiarci.

A differenza dell’illusione, basata su una costruzione della mente che non potrà mai trovare realizzazione, la speranza ci spinge ad agire e ad attivarci in modo tale che tutti i progetti che ci siamo prefissati e le rispettive aspettative non vengano delusi.

L’attesa che sta alla base della speranza quindi, è volta alla costruzione, mattone dopo mattone, della nostra vita, tanto da darci quello slancio vitale che, dalle sabbie mobili, ci può far risalire, senza più cadere.

Se in fondo, ancora oggi, sentiamo parlare di speranza è perché ognuno ha preso consapevolezza delle fratture sociali esistenti e del bisogno di ripararle. Ma anche delle contraddizioni e delle ingiustizie che lo scorrere del tempo non ha fatto altro che intensificare, per non parlare poi delle disuguaglianze che stanno spaccando il mondo in due sfere che si oppongono: da un lato abbiamo il Nord, tecnologicamente avanzato e più ricco, dall’altro il Sud, sempre più terreno di sfruttamento e perciò, d’impoverimento.

Ma di quale sfruttamento stiamo parlando?

Non più unicamente materie prime, risorse materiali. O meglio, non solo.

Quello che si sta verificando ed intensificando è un vero e proprio sfruttamento umano, le cui risorse fisiche ed intellettuali non sono solo diventate oggetto di dominio da parte di quei paesi che, in quanto avanzati, riescono ad esercitare in loco la loro influenza facendo leva sulla debolezza dei paesi sotto-sviluppati. Ciò cui siamo diventati ormai spettatori impassibili è la nascita di un vero e proprio commercio umano che, attraverso l’intensificazione del fenomeno migratorio, sta contribuendo ad aumentare la distanza tra questi due mondi contrapposti.

Come poter fare in modo che quella speranza di cambiamento possa davvero raggiungere l’attualizzazione?

Come attivare un progetto volto a costruire una società giusta, basata su dei criteri di giustizia e di uguaglianza sociale e un mondo la cui ricchezza possa essere equamente distribuita, ponendo fine alla frattura tra Nord e Sud?

John Rawls, nella sua opera Una teoria della giustizia[1] sostenne che due avrebbero dovuto essere i principi alla base di una teoria della giustizia che fosse in grado di garantire libertà ed uguaglianza.

Il primo principio è quello, per l’appunto, di uguaglianza con il quale egli esprime l’importanza di dare a tutti la medesima possibilità di accedere ai beni sociali primali, applicando quello che anche Rawls definì con il termine di “velo dell’ignoranza”, che consiste nel fare astrazione di ogni tipo di criterio di discriminazione sociale, quale la razza, il sesso, la ricchezza, allo scopo di porre fine a tutte le disuguaglianze immeritate.

Il secondo, invece, è un principio di differenza rispetto il quale è possibile ammettere la presenza di alcune forme di disuguaglianza, a patto che i più avvantaggiati contribuiscano, con la loro ricchezza, a migliorare la situazione di chi si trova in maggiore difficoltà.

Tra i vari criteri secondo i quali una politica di questo tipo potrebbe contribuire a risanare le fratture sociali esistenti, vi è infatti il principio di mutuo soccorso, secondo il quale pertanto, a partire dal riconoscimento delle debolezze dei paesi meno sviluppati, l’aiuto reciproco ed un intervento solidale tra gli stati può fare in modo che questa voragine che separa paesi “ricchi” e paesi “poveri”, possa dissolversi.

Ma di quale riconoscimento stiamo parlando?

Secondo Axel Hotteth[2], si verifica un oblio del riconoscimento nel momento in cui il processo di mercificazione invade ogni aspetto e dimensione della vita. Ci si dimentica dell’altro quando la reificazione prende il sopravvento.

Tuttavia, quanto più l’essere umano è stato in grado di applicare la sua capacità raziocinante in funzione del profitto che da essa poteva trarre, tanto più, così facendo, ha perduto l’importanza del valore e del rispetto dell’altrui dignità, così anche della propria, dimenticandosi che cosa effettivamente vorrebbe dire quella “tonalità affettiva”[3] di cui Martin Heidegger parlava riferendosi al rapporto partecipativo, inglobante et qualitativo che l’esser umano stabilisce con le cose, le alterità e il mondo in cui è immerso.

 Sara Roggi

[Immagini gratte da Google Images]

[1] J.RAWLS, Una teoria della giustizia; cura e revisione di Sebastiano Maffettone ; traduzione di Ugo Santini; I ed. riv., Milano : Feltrinelli, 2008,

[2] A. HONNETH, Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento (2005), trad. it. di C. Sandrelli, Roma, Meltemi 2007

[3] Ibidem