Il peso delle parole e il loro uso

Ciascuno di noi usa mediamente tra le 2.000 e le 7.000 parole al giorno, un numero davvero elevato e influenzato da fattori come età, personalità e sesso. Questo dato ci fa capire quanto siano importanti i vocaboli nella vita di tutti i giorni e come influenzino, direttamente e non, le nostre giornate. Le parole che possiamo usare sono davvero tante: ci basta pensare che 2.000 sono solamente quelle di uso molto frequente che maneggiamo sin dall’infanzia. Scegliere con cura, tra le parole che conosciamo, quali usare è essenziale. 

Al di là degli interessanti dati numerici ciò che davvero importa è quali parole usiamo e come lo facciamo. Troppo spesso le scegliamo impulsivamente, senza curarci del loro effetto, ma non ci rendiamo conto di quanto esse influenzino, e modifichino, la realtà. George Lakoff, linguista statunitense, spiega ciò con un esempio semplicissimo: pronunciare la parola “elefante” fa sì che io pensi a quell’animale e lo visualizzi, seppure prima non ci stessi pensando. Questo ha un effetto dirompente anche sulle azioni: quello che viene detto ha impatto sulla realtà perché modifica e amplia i limiti di ciò che può essere detto e di ciò che è considerato consuetudine. Modificare i limiti di ciò che si dice equivale a modificare i limiti di ciò che si fa. 

Soprattutto in un mondo di relazioni come il nostro, le parole non sono effimere come suggerirebbe il detto “verba volant: le parole, anzi, rimangono e lasciano un segno chiarissimo. Claudia Bianchi nel libro Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio si concentra sul segno di odio e violenza che possono lasciare. Tra i modi in cui possiamo usarle troviamo, infatti, l’hate speech, ovvero l’insieme di immagini, parole ed espressioni che sono rivolte non agli altri ma contro gli altri. Basandosi su pregiudizi contro minoranze, qualcuno usa le parole per umiliare, denigrare e opprimere gli altri, proprio come George Orwell ci mostra in 1984.

La filosofia del linguaggio degli ultimi decenni si concentra proprio su questo uso della lingua. Il linguaggio non rispecchia soltanto la realtà, ma la modifica e plasma perché facciamo cose con le parole, per usare l’espressione di John Austin. Con l’hate speech facciamo, però, del male in maniera evidente e spesso associandolo alla violenza fisica. A questo si aggiunge la dimensione della propaganda: parole razziste e omofobe servono ad affermare la propria identità, politica o culturale, e ad affermare l’esistenza e l’appartenenza a un gruppo dominante che prevale, e vuole prevalere, su gruppi discriminati. In alcuni casi, e 1984 ne è un esempio, le parole d’odio sono presentate come normali, diffuse e anche “giuste”. L’hate speech è, dunque, usato non solo per ferire e posizionare gli altri in ruoli di inferiorità ma anche per far capire che è vero e giusto che essi siano subordinati. 

Come comportarsi di fronte a queste problematiche? Oltre a porre attenzione alle parole che usiamo, dobbiamo reagire a chi usa parole d’odio. L’indifferenza con cui accettiamo l’uso offensivo della parola diventa, facilmente, accettazione e consenso e contribuisce a trasporre nella realtà la posizione di inferiorità di coloro a cui si rivolge il linguaggio d’odio. Un esercizio che ci può aiutare a contrastare l’hate speech e a capire quando una parola o un’espressione sono da evitare è il seguente: “come sta la tua recezione?” è la domanda che ognuno di noi dovrebbe immaginare di porre al destinatario delle proprie parole. Quale è la recezione di colui a cui rivolgiamo le nostre parole? Corrisponde alle nostre intenzioni oppure no? Ponendoci nei panni altrui potremo capire cosa evitare di dire.

Quale la conclusione che possiamo trarre da questa breve riflessione sul linguaggio? Porre attenzione a ciascuna parola che usiamo non è un capriccio o un lusso ma un modo per fare viaggiare di pari passo realtà e linguaggio con l’obiettivo di non dare vita a odio e violenza in nessuna delle due realtà.

 

Andreea Gabara

 

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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La scrittura come “ars combinatoria”. Trinomi fantastici per situazioni insolite

I bambini di 5a E sono disposti a cerchio, seduti sui tappetini della palestra. Ognuno estrae dal quaderno un foglio bianco su cui scrive tre parole. Sono parole casuali, le prime che vengono loro in mente dopo l’ascolto di una storia filosofica. Pentola, ombra, nuvole. Lista, pensiero, cosa. Ontologo, quadri, campanello. E così via.
Giada ha scritto le tre parole in un batter d’occhio e, dopo averne ritagliata una, si alza in piedi. Le diamo un grosso gomitolo rosso che all’estremità esterna ha legato un sassolino blu. Giada posa il sassolino sul suo tappetino e, lentamente, srotola il gomitolo attraversando il cerchio, fino ad arrivare da Elisabetta, che nel frattempo si è alzata. Elisabetta riceve da Giada la parola ritagliata, lascia il suo posto a Giada e ripete l’operazione: srotola un altro po’ di gomitolo e porta una delle sue tre parole a Giacomo. Giacomo, a sua volta, porta una parola a Jamal, questo ne porta una ad Alice e così via, finché l’ultimo compagno torna al sassolino blu.

I bambini, che hanno letto la nuova parola ricevuta, sciolgono il cerchio e si disperdono ai confini della palestra, dove iniziano a pensare. Inventano una breve storia, con quelle tre parole, e la scrivono sul quaderno.
L’ombra della cosa. Una cosa gigante e terribile faceva un’ombra sul pavimento di quella stanza semibuia. Io tremavo come una foglia. Mi feci coraggio e presi la matita con la punta affilata e andai di là. Dietro quell’ombra gigante e terribile si nascondeva un’enorme… pentola.
Ma che fifone, Giacomo! Hai paura di una pentola? Senti un po’ cosa ho scritto io – prosegue Giada – Nella mia testa ho tanti pensieri, una lista di pensieri. Penso alle cose spaventose come i draghi, i serpenti, i fantasmi. Penso alle cose divertenti come le caramelle, i coriandoli, le feste di compleanno. Penso alle cose noiose come pranzare con le zie, fare i compiti, guardare i quadri alle mostre.
– Adesso tocca a me, sentite! – irrompe Alice – Quando l’ontologo suona il campanello di casa sua, nessuno gli apre. Beh certo, vive da solo! A volte ha proprio la testa sulle nuvole.

I bambini della 5a E leggono a turno e ridono insieme.

Inventare una situazione a partire da tre parole è un tipico esercizio di scrittura creativa, una sorta di “attrezzo da ginnastica per le idee” che, tra gli altri, viene proposto anche dalla giornalista e saggista Annamaria Testa nel suo Minuti scritti1, testo che la stessa autrice definisce una «guida utile a percorrere molte tracce di pensiero». Tale esercizio si basa sulla consapevolezza che la creatività sia ars combinatoria.

Quella dell’associare ed organizzare elementi separati è un’abilità che coltiviamo ogni giorno. Si pensi all’uso del linguaggio: scegliamo parole e le mettiamo in ordine, secondo certe regole. E in questo processo, l’obiettivo può cambiare: ad esempio, possiamo scegliere di suscitare curiosità oppure di annoiare.
Come si combinano parole per creare qualcosa di ordinario, così si possono combinare parole anche per creare qualcosa di insolito. Discernere, scegliere e combinare diventano così gli ingredienti per inventare.

Lo scriveva anche Gianni Rodari quando, ne La grammatica della fantasia, teorizzava il binomio fantastico, cioè un esercizio per dare vita a una storia inventata a partire da due parole casuali:

«Occorre una certa distanza tra le due parole, occorre che l’una sia sufficientemente estranea all’altra, e il loro accostamento discretamente insolito, perché l’immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire tra loro una parentela, per costruire un insieme (fantastico) in cui i due elementi estranei possono convivere. Perciò è bene scegliere il binomio fantastico con l’aiuto del caso. Le due parole siano dettate da due bambini, all’insaputa l’uno dell’altro; estratte a sorte; indicate da un dito che non sa leggere in due pagine lontane del vocabolario» (G. Rodari, La grammatica della fantasia, in G. Rodari, Opere, 2020).

 

Qualora le parole risultino semanticamente lontane, il loro accostamento apparirà insolito, strano. È proprio quando le parole si liberano dai loro significati quotidiani, dalle loro catene letterali, per estraniarsi e spaesarsi, che la storia creata susciterà interesse e curiosità, risultando straordinaria ed efficace.

La Valigia del filosofo 

NOTE
1. A. Testa, Minuti scritti. 12 esercizi di pensiero e scrittura, Rizzoli, Milano, 2013.

[Photo credit La Valigia del filosofo]

Parole, parole, parole… la filosofia ha ancora qualcosa da dire?

«La filosofia è fatta pressoché interamente in parole. Un diagramma occasionale può aiutare, e alcuni dicono (in parole!) che la musica, la danza, la pittura o la scultura senza parole possono esprimere idee filosofiche; ma per discutere propriamente il valore di quelle idee dobbiamo usare parole. Il linguaggio è il medium essenziale della filosofia»1.

Quest’affermazione suona banale: se conosci un filosofo o sei in prima persona della cricca, sai bene che il tuo lavoro consiste – fermandosi alla superficie – nel leggere e scrivere testi. Da qui sorgono le varie immagini della postura fondamentale del filosofo come uno stare “a tavolino”, “alla scrivania” o “sulla poltrona”. Andando invece più in profondità, le cose non cambiano: sin dai tempi di Platone, pensare filosoficamente significa intrattenere un dialogo mentale, ossia parlare con sé stessi, mettendo in ordine lineare e sequenziale concetti e riflessioni, come se ci si scrivesse un libro interiore. D’altronde, sin dall’infanzia insegnano: per capire che cosa ti frulla in testa, devi saper articolare sulla carta fuori dalla testa. Struttura mentale e struttura scritta fanno tutt’uno: vale per il dilettante come per il professionista del pensiero. Sembra persino scontato sottolinearlo.

Non a caso, simili idee sono condivise da filosofi di tradizioni, approcci e orientamenti assai diversi, quando non contrastanti e incompatibili: tutti si trovano comunque concordi nell’intrecciare indissolubilmente l’attività filosofica con la parola in generale e quella scritta in particolare. Anche i filosofi devono avere i propri punti fermi, no?! Eppure, se vogliamo fare i filosofi sul serio e fino in fondo, l’acqua calda non può essere una scoperta: deve diventare un problema. Dove c’è ovvietà, lì c’è dubbio: è uno dei mantra filosofici. Non può non valere anche per il rapporto monogamo tra filosofia e linguaggio verbale: perché bisogna prenderlo per buono? Forse perché si pensa soltanto a parole? O, perlomeno, perché si pensa filosoficamente solo a parole? Se è davvero così, significa allora che le persone sorde, quelle nello spettro autistico che ragionano visivamente e quelle con forme di afasia non pensano o non sono in grado di filosofare? In questo caso, servirebbe almeno il coraggio di dirselo esplicitamente: la filosofia è sotto questo riguardo radicalmente non inclusiva.

Ma non credo che debba essere questa l’ultima parola (scritta). Soprattutto se teniamo conto di un’invenzione epocale come il web. Epocale perché, tra le altre cose, ha cominciato a ristrutturare anche le nostre modalità espressive: oggi, chiunque ha tra le mani un aggeggio che permette certo di scrivere, ma anche di scattare foto, fare video, creare grafiche, ecc. Dalla penna allo smartphone: siamo nel cuore della cosiddetta cultura visuale, intrisa di multimedialità anzi transmedialità, di ibridazione tra tocchi, suoni, (video)immagini e testi – mancano soltanto gusto e olfatto, per ora. In breve, sta succedendo che atti come ideare, scriptare, girare e montare un video equivalgono a pensare, a dar forma alla propria mente. Non ti sembra un po’ strano che la filosofia resti tagliata fuori da tutto ciò? Non stride che laurearsi in filosofia voglia dire ancora soltanto (leggere testi per) scrivere una tesi? Ma dove sta scritto che si possa pensare filosoficamente soltanto per iscritto?

Fortunatamente, diversi studiosi stanno cominciando a denunciare la peculiare forma di xenofobia che attraversa il lavoro filosofico: una resistenza sistematica per tutto ciò che sconfina dai territori del concetto, ossia della parola scritta. Ma lo denunciano ancora a parole. Nel mentre, però, anche grazie al lavoro di vari content creator filosofici, dai video ai podcast, dai fumetti alle performance, qualcosa sta effettivamente cominciando a cambiare, non solo a parole – forse. Bisogna allora sperare che la scossa arrivi definitivamente anche ai piani alti delle “torri d’avorio”, perché è tempo di riconoscere che limitarsi a fare filosofia su immagini, disegni, grafiche, video, nuovi media, dispositivi di realtà aumentate e virtuali, ecc., non basta più: occorre iniziare a fare filosofia con tutto ciò – tanto “mediante” quanto “insieme”. Non è semplice, ma non è impossibile: esattamente come, all’epoca, accadde con la scoperta delle potenzialità espressive e antropologiche della scrittura. Perché oggi dovremmo fermarci di fronte ai videogame? L’alternativa alla parola (scritta) non è il silenzio; non avere più nulla da dire non significa non aver più niente da esprimere: ci sono più cose nel cielo e nella terra espressivi di quante ne abbiano finora sognate i filosofi.

(Ma questo è un testo scritto! Sì, ma funziona come un purgante: va espulso con le sostanze tossiche. Parole per (cominciare a) salutare le parole)

 

Giacomo Pezzano

 

NOTE:
1. T. Williamson, Philosophical Method: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2021, p. 103.

[immagine tratta da Pixabay]

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Parole, parole, parole soltanto parole? Intervista a Vera Gheno

La giornata internazionale contro la violenza sulle donne è il 25 novembre ma dovremmo portarne un pezzetto anche nella nostra quotidianità, quegli altri 365 o 364 giorni dell’anno. Purtroppo non si ricorda mai troppo spesso che la violenza di genere passa anche per le parole, che sono in grado di ferire, sminuire, annientare. E così abbiamo chiesto a una esperta di parole, la sociolinguista Vera Gheno, qualche delucidazione al riguardo e soprattutto qualche risposta alle domande linguistiche più mainstream. Poi come spesso succede siamo finite anche un po’ a divagare…
Buona lettura!

 

Giorgia Favero – Per iniziare vorrei farti tanti complimenti per il tuo libro “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole” (Effequ 2019, nuova edizione 2021): è chiaro, piacevole, scorrevole, convincente. Ma come spiegare alle donne che non l’hanno letto che le professioni al femminile sono un riconoscimento della loro esistenza? Perché ci sono donne (pensiamo al caso sanremese di Beatrice Venezi, orgoglioso direttore d’orchestra) che pensano di potersi dare più valore e serietà facendosi chiamare come gli uomini?

Vera Gheno – Non so; c’è sempre bisogno di spiegare alle altre donne come dovrebbero comportarsi? Io penso che questo sia uno di quei casi in cui conviene prima di tutto lavorare sulle proprie abitudini linguistiche, dando il buon esempio. Certo, si possono citare studi, libri, statistiche eccetera, ma alla fine fa molto di più l’esempio che non il resto. Per quanto riguarda Beatrice Venezi, come ebbi da commentare all’epoca, trovo che sia libera di chiamarsi come desidera. Solo, non dovrebbe giustificare la propria scelta dicendo “il nome della mia professione è direttore d’orchestra, quindi io mi definisco direttore d’orchestra, perché il fatto di usare il maschile in maniera sovraestesa in assenza di neutro non implica che poi una persona, a seconda del suo genere, non la si possa appellare in maniera diversa dal maschile. Se poi molte donne sentono il femminile della loro professione come degradante, meno onorifico del maschile, il problema non è linguistico, ma di (auto)percezione di cosa sia il femminile. 

 

GF – Professioni al femminile, uso dello schwa (nel tuo libro è presente e vorrei sottolineare per gli scettici che non disturba affatto), toponimi dedicati alle donne e così via. C’è chi dice che “ci sono cose più importanti” per cui affannarsi nella lunga strada verso la parità dei diritti. Come potremmo rispondere a questa osservazione?

VG – Che occuparsi di un’istanza non vuol dire non occuparsi delle altre. Scherzosamente, dico sempre che noi esseri umani, per fortuna, non siamo degli iPad di prima generazione e possiamo permetterci il lusso di essere multitasking. Poi, ogni persona può contribuire al dibattito secondo le sue possibilità. Io sono una sociolinguista, il mio focus è sulla lingua, ma questo non mi impedisce di vedere tutti gli altri problemi. Di solito, chi invoca il benaltrismo alla fine non fa assolutamente nulla su nessun fronte, si tratta piuttosto di una sorta di reazione istintiva e di fastidio davanti a un’istanza che in alcuni casi, magari, non si condivide, ma che più spesso non si conosce proprio.

 

GF – Sempre in “Femminili singolari” racconti come la tua posizione sulla questione del femminismo nel linguaggio sia cambiata nel corso degli anni. Oltre a dare uno spiraglio di fiducia a quanti/e si trovano accerchiati/e da sordi/e – e non solo in merito alle questioni di genere – dimostrando la pericolosità dell’arroccarsi in una posizione e buttare via la chiave, è interessante sottolineare la sua presa di coscienza sulla “necessità del femminismo”. Cosa ti ha convinta del fatto che anche la lingua può contribuire al riconoscimento delle donne?

VG – Il fatto di subire il patriarcato nella mia vita di tutti i giorni. L’aver notato che a certe persone dà fastidio la parola stessa, perché sottintende una presenza femminile che prima non c’era. Per me, usare i femminili prima di tutto per riferirmi a me stessa è un modo per mettere il dito nell’occhio di chi non solo non vuole usare i femminili, ma avrebbe pure piacere non vedere proprio le femmine. Quindi sì, la mia scelta è politica e ci sono arrivata schifata dal maschilismo insito nel mio quotidiano.

 

GF – Piccola parentesi: lo sapevi che se cerchi il tuo nome su Google, la prima ricerca correlata proposta è “Vera Gheno marito”?

VG – AHAHAHA che curiosità morbosetta! Chissà se lo fanno più per capire se sono libera o per ricostruire il mio albero genealogico!

 

Giorgia Favero – In più occasioni e in diverse pubblicazioni ha sottolineato l’importanza del dibattito in rete, anche quando lo sconforto nel notare aggressività, sordità e frustrazione si fa più difficile da sopportare. Quali consigli ti sentiresti di dare a chi fa uso dei social network per partecipare al dibattito con fiducia e in maniera costruttiva? 

Vera Gheno – Ultimamente anche io perdo più spesso di prima la pazienza. All’aumentare del mio piccolo pubblico, infatti, è anche aumentato il numero dei messaggi di odio che mi arrivano, ed effettivamente è un po’ fastidioso. Diciamo che a parte i casi in cui perdo la pazienza, preferisco cercare di spiegare, a beneficio delle persone che attorno stanno assistendo allo scambio; e poi, ricorro al metodo DRS, dubbio-riflessione-silenzio: mi accerto di aver capito bene quello di cui si parla, mi chiedo se riesco a reggere le conseguenze di ciò che sto per scrivere o dire, rimango in silenzio quando non sono competente o non ho nulla di rilevante da dire.

 

GF – Come il termine “sociolinguistica” suggerisce, la lingua, le parole e il loro uso possono offrirci molti elementi di riflessione sulla società in cui viviamo e che siamo. Un tema recentemente chiacchierato è quello della cosiddetta “cancel culture”, che va a braccetto con il politicamente corretto e con la libertà d’espressione, quest’ultima baluardo – ironicamente – di molti odiatori (soprattutto delle minoranza). Puoi aiutarci a fare un po’ d’ordine tra questi concetti?

VG – Penso che la verità, come quasi sempre, stia nel mezzo. Esiste il rischio di una cultura della cancellazione? Indubbiamente, se non si studia a sufficienza, perché si rischia di diventare fanatici, e questo è un male quale che sia l’idea propugnata. Detto questo, noto anche come chi si lamenta di non poter dire più nulla lo fa da programmi radio e tv e tramite paginate di giornale. Qualquadra non cosa, come diceva il tale. Si può dire tutto, mi sa, ma più di una volta le parole generano conseguenze. Il pubblico, nel nuovo sistema mediale, non è silente, ma risponde, protesta, fa notare le incongruenze. Questo dovrebbe essere un invito a parlare meglio, non a non parlare. Comunque, per me la prova del fuoco è chiedere a una persona che dice “Basta con questo politicamente corretto!”: “Scusa, mi spieghi cosa intendi per politicamente corretto?”. Sovente, le persone non mi sanno rispondere.

 

GF – Oltre a scendere nell’arena del dibattito pubblico contro i “difensori dell’italiano” a oltranza sei traduttrice dall’italiano all’ungherese, merito di un bilinguismo che ha a che fare con il tuo DNA visto che sei per metà italiana e metà ungherese. Pensi che si abbia una marcia in più a osservare una lingua utilizzando uno sguardo (anche solo al 50%) esterno? In altre parole, è utile fare uno sforzo di osservazione dall’alto anche della propria lingua? E come potremmo farlo se non siamo bilingui?

VG – Una marcia in più non credo. Credo che sia una marcia diversa, rispetto a chi ha accesso al patrimonio di un solo idioma. Però consoliamoci: in Italia, considerato che quasi la totalità della popolazione ha un background dialettale (o di lingua areale), siamo di fatto già bilingui. Quindi, potremmo diventare trilingui con l’inglese o con altre lingue straniere, magari coltivando e preservando quel bilinguismo che già possediamo, spesso senza accorgercene.

 

Giorgia Favero – Ogni lingua ha le sue caratteristiche distintive, il suo retaggio culturale, le sue “storie” del passato che portiamo inconsapevolmente nel presente. Proviamo a metterci per un attimo nei panni dei difensori dell’italiano, della “lingua pura”, e facciamo finta di essere totalmente incapaci di accettare il fatto che la lingua cambia continuamente e che tra l’altro è anche questo che la rende interessante e vitale. C’è qualche parola, espressione, costruzione e così via che ti dispiacerebbe veder scomparire dall’uso comune nei prossimi dieci, venti o trent’anni?

Vera Gheno – Poiché penso che la lingua sia sempre espressione dei “mondi” di chi la parla e la scrive, la “agisce”, no, non ci sono parole particolari di cui piangerei la scomparsa. Semplicemente, vorrebbe dire che la comunità dei parlanti non le ritiene più utili, e a questo parametro è difficile opporre resistenza con la malinconia o con il buonsenso. Parole escono dall’uso, altre entrano nell’uso… l’importante sarebbe ricordarci sempre di quanto sia prezioso il raffinatissimo strumento di comunicazione che abbiamo a disposizione in quanto esseri umani.

 

GF – Nel salutarti e ringraziarti per questa bella chiacchierata, non posso resistere dal chiederti: ho passato il test di italiano?

VG – Ma che domande, io mica sono grammarnazi! 😀

 

Grazie dottoressa Gheno, continua così!

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Facebook.com]

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Come Carroll a caccia di Snark

Quando una valigia si riempie di parole, l’assale una gran voglia di parlare. Questa valigia, per l’appunto, è piena di ritagli di cartoncini su cui sono impresse parecchie parole. E sta per aprirsi e parlare.

Ecco che un’onda di ritagli si infrange sul pavimento. Per terra ora c’è un mare di parole. Sono tutti sostantivi, alcuni molto lunghi, altri più corti, ognuno con un significato diverso. Le mani dei bambini come vascelli solcano in ascolto questo mare, è un’esplorazione semantica in cui ritrovano parole note e ne scoprono di ignote.

Ci sono nomi che portano significati concreti e quotidiani, ce ne sono altri più strani e lontani. E poi ci sono nomi un po’ particolari che non sembrano avere un riferimento nitido, ma che hanno un significato un po’ a metà strada tra quello di altre due parole.  Come “mandarancio”: chi è che sa dove finisce il mandarino e dove incomincia l’arancio?

Di parole un po’ sfocate ne esistono a bizzeffe, sia per un uso consueto e concreto – come “mandarancio” – sia con riferimento più strano e desueto. In francese questo tipo di parole si chiama mot-valise, che letteralmente si traduce con “parola-valigia”.

Se è vero che ne esistono in grande quantità, quelle che non esistono sono certamente la maggior parte. Le mani dei bambini esplorano questo misterioso, ignoto mare. Navigando trovano un “mandacchio”, un curioso frutto tra il mandarino e il pistacchio, un “perancio” e un “kakiwi”: avete capito di quali due frutti sono frutto questi due frutti?

Ma le parole-valigia più fantasiose arrivano col mare mosso. Quando i frutti si mescolano con le verdure e gli insetti coi mammiferi, quando i fiammiferi e le briciole si mescolano con gli astri e i pianeti, quando le possibilità del quotidiano si mescolano con l’invenzione.

Il gioco di scoprire parole-valigia affascinava Lewis Carroll talmente tanto da dedicare un poemetto epico proprio a una di queste parole: Snark. È difficile dire cosa sia uno Snark: probabilmente ha qualcosa del serpente (snake) e qualcosa dello squalo (shark), ma non è detto che non abbia anche parti lumacose (snail) e tratti ringhiosi, cortecciosi e aggrovigliati (bark, snarl). Sicuramente non è un essere innocuo.

Per amplificare la potenza immaginativa del suo Snark, oltre a questi giochi polisemici, Carroll ricorre anche ad altre strategie. Innanzitutto ne proibisce qualsiasi illustrazione ed evita descrizioni dettagliate: questo perché qualsiasi contorno, figurato o verbale che sia, che vada oltre una bozza della figura fantastica ne inchioderebbe la libertà immaginativa. Rappresentare l’indescrivibile, particolareggiare l’ineffabile disambiguando il mistero, tradisce le possibilità della fantasia e ne imprigiona il senso.

In secondo luogo Carroll impregna i personaggi e le dinamiche narrative di nonsense. I dialoghi, nel loro succedersi, non hanno senso compiuto, i legami di causa-effetto sono derisi, le abituali correlazioni cadono. L’irragionevole irrompe nel quotidiano, l’assurdo prevale sulla coerenza e lo straniamento non ha scopo, ma è legge del quotidiano. E questa è una difesa senza compromessi della potenza caleidoscopica dell’immaginazione, un elogio senza mezzi termini della fantasia che si fa regola suprema della narrazione.

Infine, il culmine del genio fantastico è raggiunto da Carroll al termine del poemetto quando uno dei membri della ciurma impegnata nella caccia allo Snark, lo incontra. E quando vede la sua forma e i suoi colori, quando il fantastico diventa ai suoi occhi reale, ecco che l’osservatore sparisce. Come a confermare, nei fatti narrati, che la fantasia muore se costretta entro troppi dettagli che ne indispongono la libertà.

Allenare l’immaginazione, oltre che un gioco, è un esercizio prefilosofico e filosofico utile ai bambini. E figurarsi uno Snark, a partire dalle parole che Carroll usa per tratteggiarne la figura e dalle situazioni narrate nel poemetto, oppure inventare altre figure fantastiche a partire da una parola-valigia, sono strade possibili per incontrare la filosofia e imparare a navigare in un nuovo, diverso, mare.

 

La valigia del filosofo

 

[Photo credit La valigia del filosofo]

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Parole che allungano la vita: la lezione di Ivano Dionigi

«Sono simili a bagliori, che s’accendono nell’oscurità e s’imprimono negli occhi della mente»1. Con queste parole Gianfranco Ravasi inizia la prefazione al libro Parole che allungano la vita di Ivano Dionigi, tra i maggiori latinisti italiani e già rettore dell’Università di Bologna. Il piccolo ma prezioso e profondo volume edito da Raffaello Cortina è la raccolta delle riflessioni – con piccole variazioni e brevi aggiunte – apparse nel primo trimestre del 2020 sulla prima pagina del quotidiano Avvenire.

Da raffinato filologo Dionigi invita a prendere sul serio le parole, a conoscerle, a comprenderne il senso, il valore, il bacino di sapienza in esse racchiuso. Per fare questo sono frequenti i suoi richiami all’etimologia dei vocaboli, al fine di porne in rilievo il significato originario invitandoci ad un uso puntuale degli stessi. «Noi parliamo male» sostiene Dionigi, quasi a certificare una vera e propria patologia del linguaggio che impoverisce e così facendo assottiglia il nostro orizzonte, il nostro mondo. Sì, perché le parole non sono flatus voci, non sono aria. Le parole hanno il potere di costruire il mondo o di distruggerlo, possono creare relazioni o possono ferire, possono edificare ponti o erigere mura, possono salvare o uccidere. Ecco che per l’autore è quanto mai necessaria una «ecologia linguistica» capace di ripulire il linguaggio, proprio a partire da una conoscenza più ampia e approfondita dello stesso.

In questo senso Dionigi mostra, con semplicità e rigore, come il ritorno alla filologia non sia affatto indifferibile. Invero, questa disciplina nata in epoca ellenistica e sviluppatasi in particolare con l’Umanesimo non è per nulla antiquata o da riservare a pochi addetti ai lavori, ma è un’arte che consente, proprio oggi, di curare la degenerazione del linguaggio e la povertà dello stesso che caratterizza il nostro tempo dominato da superficialità e banalità.

Leggendo le riflessioni lucide e profonde dell’autore scorgiamo tra le righe come lo studio e la riflessione sulle parole divenga una vera e propria filosofia, ovvero una più ampia riflessione sulla vita in generale ed in particolare sul suo senso, sul dolore, sulla morte, sull’amicizia, sul tempo, su Dio. I brevi scritti che compongono questa sorta di breviario nascono dal silenzio, custode e generatore del pensiero. In questa direzione Dionigi rileva come la parola, ridotta a chiacchiera, sia la conseguenza di una vera e propria «anoressia del pensiero». Per questo motivo, prosegue, «urge imboccare la strada del rigore, abbassare il volume e dare il nome alle cose». Ed è questa la strada da intraprendere per ritornare a interrogarsi, a porsi le domande, a chiedersi che cosa stiamo per dire, affermare e sostenere. Prima di parlare è dunque necessario rieducarsi e riprendere l’abitudine di fare silenzio in noi stessi, quindi di pensare e conoscere il significato autentico delle parole e a ponderarne l’utilizzo.

Al contempo è costante in Dionigi il richiamo al valore della conoscenza della storia – oggi sempre più bistrattata – e ai classici che ad essa si legano. Questi ultimi non sono entità museali e polverose ma sono «utili e rivolti al futuro soprattutto perché le loro lingue ci permettono di capire chi siamo e come pensiamo». Dal latino abbiamo infatti ereditato il lessico che costituisce la cultura e la formazione etica e politica. Basti pensare a parole quali civitas, virtus, res publica, religio, negotium. Il greco ci ha invece consegnato il lessico che costituisce il sostrato filosofico e intellettuale europeo. È qui sufficiente richiamare termini quali tempo (chrònos), parola, discorso, ragione (lògos), interiorità (psyché), dolore (pàthos). Questa notevole eredità è lì a rammentarci da dove proveniamo. I classici sono le radici necessarie affinché l’albero della nostra esistenza possa proiettarsi consapevolmente in avanti. Non è forse questo l’insegnamento che ereditiamo da Petrarca il quale, sulla linea di confine fra classicità e modernità e come anello di congiunzione fra le stesse, si diceva rivolto con lo sguardo «contemporaneamente avanti e indietro» (simul ante retroque prospicens)? Da un lato queste parole del poeta aretino sembrano esortarci a non recidere i fili con il nostro passato storico e culturale, senza il quale si è come alberi privi di radici. Dall’altro il Petrarca sembra sostenere, con equilibrio, l’importanza di non rimanere ancorati in maniera feticistica al passato ma di mantenere lo sguardo anche in avanti con curiosità, passione, interesse per lo sviluppo della vita e della storia. L’impegno umano e intellettuale di Dionigi è teso a mostrare proprio come i classici siano una lezione che continua ad illuminare il nostro cammino, a interpellare le nostre coscienze, invitandoci a conoscerci ogni giorno di più. L’invito a tornare in se stessi diviene per l’autore l’occasione per richiamare all’imprescindibilità dell’elemento umano: «l’unità di misura, l’alfa e l’omega, l’oggetto e il soggetto, rimane l’uomo: l’essere più stupendo e tremendo (deinòn), come l’ha definito la tragedia greca». Trapela qui il sentito invito ad una visione del mondo e della vita che riporti al centro delle proprie riflessioni l’uomo nella sua interezza. A partire da questa convinzione è possibile rileggere e interpretare anche il ruolo decisivo che per Dionigi riveste la politica, la cura del bene comune, la dimensione relazionale della solidarietà, la centralità dell’educazione. Puntuali in questo senso le considerazioni sul ruolo della scuola, il richiamo al bisogno di tornare a riconoscere il ruolo dell’insegnante e dell’insegnamento. Realistiche le amare considerazione sui talenti intellettuali che l’Italia lascia andare o spreca, non offrendo adeguate opportunità di lavoro. Si chiede Dionigi: «Può avere un futuro un Paese che sottrae ai giovani i diritti prima ancora che le speranze e i sogni?».

Questo breve volume, nell’affrontare temi di capitale importanza, si discosta radicalmente dai toni demagogici, aggressivi e violenti del discorso dominante riportando il focus dell’attenzione sulle parole e il loro uso. Attraverso un dettato sobrio e un’invidiabile chiarezza stilistica e di pensiero, l’autore fa dono al lettore delle sue riflessioni per stimolare quest’ultimo a riprendere contatto con se stesso, a fare silenzio, a meditare per poter far fiorire pensieri e parole alti e luminosi.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Questa e le seguenti citazioni sono tratte da I. DIONIGI, Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, Raffaello Cortina, Milano, 2020.

[Photo credit Raphael Schaller su unsplash.com]

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Il non-luogo del linguaggio: le parole come atto di identità

Esiste una realtà mutevole – e talvolta relativista – in cui la sovranità appartiene alle parole, uno spazio impensabile: il non-luogo del linguaggio. Il linguista-filosofo Noam Chomsky, riconosciuto come il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale1, attribuì al linguaggio una caratteristica nucleare che rende l’essere-nel-mondo, finalmente, umano. Descriviamo il mondo usufruendo di connubi lessicali. Ognuno così percorre la propria vita – a mo’ di tartaruga  – trasportandosi la casa dell’idioletto, ovvero l’intero bagaglio di strutture linguistiche che una persona possiede e adopera; e dall’incontro con l’Altro finisce per definire se stesso e ciò che lo circonda.

Nel non-luogo del linguaggio, l’essere-nel-mondo – come il demiurgo platonico – plasma se stesso; l’uso delle parole diventa un atto di identità. Si fa urgenza la capacità di destreggiarsi nel vortice delle parole e di possederne quante più possibili. La mancanza di una parola di riferimento sfocia immancabilmente in un impasse: fisico, psicologico, sociale. E dal momento in cui si rileva la mancanza che diventa urgenza, la norma necessita di essere interrogata e, in un secondo tempo, aggiornata. Perché si sa, ciò che viene nominato e “cartellinato” si vede meglio.
Ed ecco che si fa strada la posizione di alcuni gruppi di persone – settori del movimento femminista, attivisti LGBTQ+, individui che non si sentono rappresentanti nel binarismo – le cui idee si originano dal concetto secondo cui l’affermazione di un’essenza si traduce in esistenza. Mi identifico, dunque esisto.

L’onomaturgo improvvisato, colui che crea neologismi, tenta di illuminare la ristrettezza della lingua e l’inconveniente provocato. Inizia così a sperimentare un’alternativa o più: asterisco, barra, punto, schwa2. Cerca pertanto di riempire un vuoto, dando forma a un’esistenza: la propria. La sua bandiera è l’inclusione linguistica, in tutte le sue sfaccettature. E se, da un lato, vi è la possibilità di apportare una modifica alla norma linguistica, dall’altro, la lingua la costituiscono i parlanti; i quali – però – talvolta restano arenati nell’abitudine. Ed è così un circolo vizioso, per esempio, le parole: medica, avvocata, sindaca, esse trattengono una nota stonata nel pensiero di molti.

L’onomaturgo improvvisato tuttavia non si arrende. Crede al “discontinuo” – il fatto che una cultura possa cessare di pensare come aveva fatto fino a un dato momento e si mette a pensare diversamente, in altro modo. Diviene così possibile pensare a una realtà in cui la normalizzazione grammaticale e parlata di talune parole renda chiara la rappresentazione del reale e ne affermi la sua totale esistenza. Dopotutto la realtà è immersa in un eterno divenire, e così anche la lingua che la descrive si rinnova continuamente.
L’onomaturgo improvvisato non demorde nella sua impresa poiché conosce il potere delle parole. Attraverso la dinamicità di queste ultime è possibile compiere vere e proprie azioni. Le parole, infatti, non si cristallizzano nel non-luogo del linguaggio, bensì lacerano la tela immaginaria e giungono nel mondo tangibile del reale. La “medica” dichiarando il decesso rompe il silenzio, e il potenziale gatto di Schröedinger abbandona il suo limbo per abbracciare una definita condizione.
L’onomaturgo improvvisato ha così compreso che siamo i soli parlamentari nel non-luogo del linguaggio, ove le parole che scegliamo o non scegliamo di adoperare regnano sovrane.

 

Jessica Genova

 

NOTE
1. Per grammatica generativo-trasformazionale si intende la grammatica che si sviluppa seguendo la tradizione chomskiana della descrizione linguistica. Chomsky afferma che la grammatica è una competenza mentale posseduta da colui che parla che gli permette di costituire un numero illimitato di frasi.

2. Lo schwa viene definito dalla Treccani come un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono di scarsa sonorità. Cfr. Treccani

[Photo credit Brett Jordan via Unsplash]

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La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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Ogni parola è un seme, biologia e pensiero: uomo e pianta gemelli diversi

C’è un lungo filo rosso che, snodandosi, lega il nostro destino a quello del mondo vegetale. Come la pianta, anche noi siamo fatti di tessuto vascolare, di un midollo che ci permette una posizione eretta, che ci spinge, nel corso della crescita, sempre più in alto, a mirare il cielo. La nostra posizione è radicata nella terra e anelante il cosmo. È un’unità statica ma soprattutto spirituale, come tradizioni orientali suggeriscono, parlando della spina dorsale come della strada fisiologia che porta all’illuminazione e del profondo legame tra la posizione del corpo e la rettitudine dell’uomo.

Polmoni con bronchi e trachea non ricordano forme un albero dalla vegetazione compatta? Non è forse questa forma d’albero che ci permette di respirare e, così, di vivere? Noi e la flora necessitiamo di nutrimento, ci radichiamo e ci nutriamo per crescere verticalmente, l’uomo sostenendo il peso della testa tramite le vertebre cervicali, la pianta quello delle sue fronde.

Ritengo anch’io, come Susanna Tamaro, che dovremmo iniziare ad essere veramente grati, primo fra tutti, al mondo vegetale che – ora meno di un tempo – ci circonda, fulcro e colore della nostra storia, musa che ha ispirato nello scorrere dei secoli opere di poeti, pittori, e artisti di ogni talento. Soprattutto, dobbiamo ricordare che è da esso che dipende la nostra esistenza, l’ossigeno che inaliamo e il nutrimento che rende funzionale la nostra struttura biologica. Tutto inizia con la comparsa nel brodo primordiale di alcune premonere, forme di vita ancestrali, anteriori all’evoluzione del nucleo cellulare, in grado di nutrirsi di luce, grazie alla clorofilla, trasformando anidride carbonica e acqua in nutrimento. Uno dei prodotti finali della fotosintesi è l’ossigeno molecolare, un gas che si ben concilia, combinandosi, ad altre sostante. È stata proprio la sua capacità di legarsi a provocare una delle più grandi rivoluzioni della vita, quella della trasformazione dell’atmosfera densa di ammoniaca, metano e acido cianidrico in quella attuale, costituita prevalentemente da anidride carbonica azoto, vapore acqueo e, appunto, ossigeno molecolare. Attraverso la complessità di un processo evolutivo, l’energia luminosa di cui si nutrono le piante alla fine sostiene anche noi. La biosfera intera si regge proprio sulla fotosintesi.

Nell’oscurità che vive silenziosa, la flora porta il circolo delle proteine, sintetizzate nella luce del giorno, fino ai semi. Senza la necessaria riserva di nutrimento, infatti, questi ultimi non potranno aprire il tegumento e irrompere, dal sottosuolo, sulla superficie delle terra. Privo di proteine, degli amminoacidi, eterni custodi e mattoni dell’esistenza, neanche  lo stelo avrebbe la forza di svilupparsi, di affondare le radici e vestiti di manto verde, di innalzarsi verso il firmamento, divenendo pianta. Anche lui, come noi, gode della forza dell’ascolto e della comunicazione tra simili.

Nel corso della lunga lotteria evolutiva, le piante hanno compreso l’eccezionale potere che il seme, per loro, protegge, assiste e dischiude. Il seme è la grande rivoluzione silenziosa della vita: sì, proprio lui, che ha già tutto dentro di sé. I semi sono potenzialità in sapiente attesa.

Con il Devoniano, più di 400 milioni di anni fa, per le piante qualcosa muta. Prima erano vissute propagandosi esclusivamente in orizzontale poi, impercettibile, qualcosa cambia. Si formano nuove cellule, lunghe, capaci di trasportare l’acqua verso l’apice e altre in grado di riportare verso il basso la linfa elaborata. Si sviluppa così una sorta di tessuto vascolare con al centro una struttura simile al midollo. C’è aria nel mezzo, che implica il respiro. Cellule con clorofilla circondano il tessuto vascolare e la pianta si copre di piccole bocche, gli stormi. Bocche che si aprono e si chiudono per trattenere o liberare vapore. Il vapore sale al cielo e il cielo lo restituisce sotto forma di pioggia. Ed è a questo punto che la terra comincia il grande processo del respiro. Gaia gioisce nel vento che porta vita.

Ogni parola è un seme: entrambi, quando fecondi, contengono in se stessi il proprio nutrimento.

La parola e il talento di progettare sono due peculiarità dell’uomo. Nate, pare, per riuscire nella caccia, sono poi evolute in altro. Con la parola si comunicano abilità, con il progetto l’abilità viene convertita in processi sempre più complessi.

Oggi le nostre parole non riescono più a radicarsi, smarrite nel chiasso che ci avvolge, incapaci di trovare il terreno adatto ad aprirsi un varco, spiraglio di senso, verità e fondamento. Le nostre non sono parole-seme bensì parole-coriandolo, trasportate solo dal fiato, fragile e limitato per definizione. Parliamo senza sosta, esuli dal dubbio che la parola, per esistere davvero, deve vivere nell’ascolto, cullato dal silenzio. Ogni parola è infatti un seme che trova nel nostro cuore il luogo adatto a posarsi. Lì, radicandosi, spezza il tegumento dell’indifferenza, crescendo e innalzandosi. Ma noi, invece,  smarrendoci nel tempo, rimaniamo incapaci di proferire una parola in particolare: nostalgia, sì, la nostalgia dell’anima.

Per capire il tempo, per capirne il significato più profondo, invece di interpretarlo, bisognerebbe spogliarsi. Spogliarsi dell’io prima di ogni altra cosa. […] Spogliarsi e attendere. Attendere e ascoltare. […] È il tempo del mistero e della trascendenza, […] in cui verrà svelato ad ogni seme il suo progetto. È il tempo dell’umiltà , della discesa nelle radici […], dell’ascolto che si trasforma in dialogo […], dell’accoglimento e della riconoscenza. È il tempo del seme che diventa germoglio e del germoglio che diventa pianta. È il tempo della pianta che trasforma l’energia della crescita nell’inutile bellezza del fiore e che, un istante prima di appassire e lasciar cadere i semi, si accorge con stupore che ciò che fino a quell’istante aveva chiamato Luce, in realtà era Amore.

Esistere nel tempo è prima di ogni altra cosa radicarsi. E il radicamento implica acqua, sorgente di vita e campo dove il mondo conosciuto ha iniziato a mettere radici. Lì, nell’acqua del ventre materno la vita di ognuno di noi inizia il percorso di crescita. In Ogni parola è un seme, questo concetto torna, proposto, continuamente. È la spinta a ritrovarci in questa dualità uomo-pianta, una delle chiavi adatte ad aprire la serratura della comprensione di sé affinché ciò che comunichiamo torni ad essere, finalmente, un seme fecondo che, da germoglio ancorato ad un terra di pragmatico senso, si sviluppi in fronda anelante l’universo di domande.

 

Riccardo Liguori

 

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Bologna Children’s Book Fair: una lente per le immagini dell’infanzia

Anche quest’anno Bologna è stata la protagonista della Bologna Children’s Book Fair, fiera del libro per ragazzi nata negli anni Sessanta con lo scopo di creare un luogo di incontro, dialogo e scambio non solo per gli editori, ma per tutti coloro che sono interessati al settore della lettura e che vedono nell’infanzia un momento importante per la crescita e lo sviluppo dei lettori di domani.

Oltre 20 mila metri quadrati e 1300 espositori provenienti da oltre 75 Paesi del mondo per condividere e riflettere sulle ultime tendenze editoriali e partecipare alle conferenze e ai workshop proposti dalla manifestazione.

Un’edizione che ha visto la partecipazione di nuovi paesi come Albania, Andorra, Ecuador, Islanda, Costa d’Avorio, Myanmar, Nepal, Pakistan e Perù.

Le diverse declinazioni e sfumature di questa 54esima edizione sono state raccontate da un’immagine: la chimera, creata da Daniele Catellano, illustratore emergente, e dallo studio di design Chialab. Artista selezionato per la mostra Illustratori 2016, Castellano ha dato vita a “The natural habitat for children’s content”, un racconto che descrive i luoghi protagonisti della manifestazione bolognese nella loro multiformità. Un animale che nasce dall’immaginazione e che abita un mondo fantastico, fatto di storie e racconti che tra i padiglioni della Bologna Children’s Book Fair prendono vita, una guida simbolica che ha permesso al visitatore di destreggiarsi attraverso la ricchezza delle narrazioni e dei paesaggi immaginari.

Una manifestazione che ha evidenziato ancora una volta l’importanza dell’editoria per l’infanzia, dal momento che mai come oggi si sente la necessità di sottolineare come al centro della crescita del bambino non ci siano solo universi di parole, ma soprattutto quelle immagini che, lontano da stereotipi, riescano a riprodurre in modi sempre nuovi un infinito di significati ed emozioni. Secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori, nel 2016 il 63,3% dei bambini dai 2 ai 5 anni ha letto, colorato o sfogliato almeno un libro non scolastico, ma la percentulale scende al 44,2% nella fascia 6-10 e a 51,1% in quella 11-14.

Gli ospiti d’onore di questa edizione sono stati La Catalogna e le Baleari, Paesi che vantano una lunga storia nel settore della letteratura per bambini e ragazzi che risale al Quattrocento con le Publicaciones de l’Abadia de Montserrat, la casa editrice più antica d’Europa. Un programma di attività e di esposizioni che ha posto l’accento innanzitutto sul futuro. Come ha sottolineato Manuel Forcano, direttore dell’Instut ramon Llull: «La letteratura per ragazzi è il futuro della letteratura: senza nuovi lettori, la letteratura non ha futuro». Un futuro che necessita di condivisione, ecco perché la Bologna Children’s Book Fair anche quest’anno ha puntato all’internazionalità, coinvolgendo una moltitudine di realtà geograficamente lontane. Molti gli ospiti nazionali e internazionali che hanno animato questa edizione della Fiera del libro, da Rutraut Susanne Berner, illustratrice tedesca vincitrice dell’H.C. Andersen Award 2016, ad Ana Garralón, docente di letteratura per l’infanzia, critica e blogger spagnola.

Punta di diamante della Fiera è stata la Mostra degli Illustratori, nata nel 1967 e che nel 2016 ha compiuto 50 anni. Molti i talenti che, provenienti da 26 diversi Paesi, sono riusciti a rappresentare attraverso tratti e colori, le culture, gli stili e le sensibilità che contraddistinguono l’umanità nella sua diversità.

L’editoria per l’infanzia rappresenta oggi una delle possibilità che l’uomo ha per incrementare la curiosità del bambino, la voglia di fare esperienze e la necessità di creare nuove realtà e possibilità a partire dall’immaginazione. Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro a tal proposito, ma una cosa è chiara: é necessario andare oltre gli stereotipi e per farlo le parole forse non bastano più. Solo attraverso le immagini e sempre più attraverso l’uso di tutti i cinque sensi si può far breccia sul bambino. Non limitiamoci allora a leggere storie, ma creiamole insieme a loro attraverso la scoperta, accompagnandoli verso una realtà che può e deve essere migliore perché come diceva Bruno Munari «un bambino creativo è un bambino felice».

Greta Esposito

[Immagine tratta da Google Immagini]