Tra ragione e passione. Storia culturale della differenza di genere (Parte III)

Nei miei precedenti due articoli (parte I e parte II) è stata proposta, in sintesi, una narrazione storica della differenza di genere nell’ottica di spiegare come ancora oggi siano presenti iniquità in molti aspetti della vita delle donne. Uno di questi è quello della posizione delle donne nella scienza, che, come vedremo, è nata in un contesto storico già pienamente sfavorevole a una manifestazione emancipata del femminile.
L’estrema fiducia nella ragione come strumento della conoscenza, di matrice greca, accanto alla missione di governo e disposizione di tutte le cose della natura, secondo l’idea cristiana, si amalgamano come ingredienti che confluiranno, alla fine del Medioevo, nella rivoluzione scientifica. Mentre Galileo Galilei elevava la matematica a strumento principe e determinante dell’indagine scientifica, Francesco Bacone si distingueva come quel filosofo e teorico che diede indirizzo e forma alla nascente impresa scientifica. La sua idea di scienza si esprime molto chiaramente nella metafora della mente maschile che si appropria della natura, femmina da conquistare ed esplorare a piacimento, anzi, per Bacone è la natura stessa che abbisogna di essere domata, plasmata e soggiogata dall’intelletto scientifico.

Nel 1600 l’istruzione è ancora una prerogativa dei maschi, per quelli che se la possono permettere; le donne, se riescono a studiare, comunque non possono insegnare, come ben ci dimostra Elena Cornaro Piscopia, prima
laureata al mondo, a Padova nel 1678. Se le donne non possono studiare o insegnare, chi si occupa degli interessi e delle inclinazioni del 50% dell’umanità? Quasi nessuno. Infatti, solo per fare un esempio, tutti gli argomenti della medicina al femminile sono stati molto trascurati. L’apparato riproduttivo femminile ha sofferto a lungo della visione di mero substrato, tanto che solo verso la fine del 1600 viene ipotizzata l’esistenza degli ovuli. Addirittura, la tesi viene avversata in vari modi perché per secoli si era detto che la madre era solo una specie di forno di lievitazione, e solo a metà del 1800 si capì meglio la fisiologia del concepimento. Ancora oggi disconosciamo molti aspetti della riproduzione, soprattutto femminile.
Mentre Bacone e Galilei gettano le fondamenta della nascente scienza, l’Inquisizione si occupa di mettere in atto la più grande opera di persecuzione dell’eresia, in cui verranno messe al rogo migliaia di donne accusate di essere streghe, su istruzione del Malleus malleficarum (di Sprenger e Heinrich, 1487), che spiegava come ogni stregoneria nascesse dalla lussuria insaziabile delle donne.

Nel XVII secolo le donne erano ormai state allontanate da molti lavori e occupavano esclusivamente lo spazio della casa, concretizzando sempre più l’immagine borghese della donna dedita alla vita domestica e lontana dagli spazi pubblici. Le donne sono apparse in massa sulla scena pubblica solo recentemente, e ancora troppo parzialmente. Il contributo delle donne al mondo del sapere si sta facendo sentire in molti settori, tra i quali anche l’antropologia e l’archeologia, consentendo di svelare il contributo femminile nella storia delle società, che fino a prima era stato omesso. Infatti, fintanto che in tutte le discipline gli studiosi erano uomini, il risultato delle loro ricerche non poteva essere altrimenti che imperniato di un’ottica esclusivamente maschile. Ad esempio, il paradigma del primitivo uomo cacciatore è stato così a lungo enfatizzato da venire declinato come spiegazione di molti fenomeni squisitamente umani, come le abilità di pensiero logico-simbolico o il linguaggio, non tenendo conto del fondamentale contributo femminile all’economia di sussistenza familiare e dell’imprescindibile apporto della cura delle madri nel plasmare l’educazione e la cultura umana.

A proposito di negligenza dello sguardo maschile, nel campo della medicina è particolarmente importante la questione di quanto siano state trascurate le diversità sia anatomiche che fisiologiche del corpo femminile, e questo ha avuto ovvie implicazioni di salute. Finalmente, nel corso del ‘900, la possibilità di accesso alle aule universitarie per le donne, sia come studentesse che come docenti, ha permesso di costruire i presupposti per comprendere molte questioni che si caratterizzano diversamente in base al sesso. Ma non è ancora finita con le discriminazioni, perché ancora oggi la ricerca scientifica continua a privilegiare cavie animali maschi, sia per sperimentare farmaci sia per capire le malattie, ma farmaci e malattie non si comportano ugualmente nei maschi e nelle femmine. Su questo argomento è molto apprezzabile il contributo della rivista scientifica più prestigiosa al mondo, Nature, che più volte ha dato spazio a voci di denuncia alla gender inequality.

La scienza, così come il resto delle discipline, deve fare spazio anche alle donne, sia come oggetti di studio che come soggetti della ricerca, affinché entrino in gioco, perché è ormai evidente che possono e devono dare contributi brillanti e imprescindibili. A tale proposito ricordiamo che la prima persona a vincere due Nobel nella vita fu una donna (Marie Curie). Le donne possono contribuire enormemente alla conoscenza, mettendo in luce come spesso tutto il sapere che le riguarda, che è anche quello del 50% dell’umanità, è stato trascurato o mutilato. La subordinazione della donna è una condizione storica, dunque conoscerne la storia è la precondizione per cambiare il futuro, come già abbiamo iniziato un po’ a fare. È importante anche realizzare che il sistema patriarcale è così penetrato nelle nostre menti che, per imparare a pensare più equamente, abbiamo bisogno innanzitutto di riconoscere gli errori concettuali, distruggere gli stereotipi e costruire nuove mappe di navigazione, assieme, maschi e femmine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
E. Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, 1987.

 

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Un’etica della cura per riscrivere i ruoli di genere

 


 

Viviamo nella società della trasparenza dove ogni nostra informazione diviene oggetto di scambio.

Siamo completamente immersi in quella che Bauman definirebbe una società liquida, i cui ritmi rapidi impediscono il riconoscimento reciproco delle fragilità di ognuno.

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Vivere per l’Islam

La riflessione di oggi è nata dopo aver letto una frase su Facebook condivisa da una donna di religione mussulmana.

“We are peraphs living in times when living for Islam is more difficult then dying for it”

La frase può essere così tradotta: “ Probabilmente viviamo in un’epoca in cui vivere per l’Islam è molto più difficile che morire per esso”

Se non mi stessi trovando in un mondo islamico da circa un anno, quasi sicuramente avrei letto queste parole in un modo diverso. Mi sarei basata sulle notizie che arrivano in Italia di guerre, guerriglie, lotte, stragi e rivendicazioni e avrei messo a fuoco solo la seconda parte. Morire per esso.

Ma cosa vuol dire invece (per una donna) vivere per l’Islam?

Premesso che posso fare riferimento solo alla realtà di Doha, quella che ho conosciuto fino ad oggi, alle persone incontrate e alle esperienze che mi sono state raccontate, posso affermare che la maggior parte delle donne mussulmane sono fiere di essere tali.

Indossano l’abaya e il velo con orgoglio. Rispettano usanze e preghiere. Ho addirittura conosciuto donne europee che si sono convertite alla religione mussulmana e l’hanno fatto con la piena libertà, consapevolezza e convinzione.

La maggior parte delle donne arabe in Qatar sono donne che lavorano, che guidano, che viaggiano. E sono donne che lottano. Lottano contro il pregiudizio del velo.

Perchè diciamoci la verità. Quel velo, apparentemente così sottile, è in realtà una barriera spessa e pesante. È un muro. Un ostacolo che noi (non mussulmani) preferiamo aggirare piuttosto che affrontare. Preferiamo far finta di non vedere piuttosto che cercare di capire.

Chiara Amodeo - Doha

La condizione della donna varia da Paese a Paese.

Il riconoscomento dei loro diritti dipende molto dall’interpretazione che si da alla Legge Islamica (la Shari’a).

I più conservatori interpretano i passi del Corano includendo differenze di status e diritti tra i due sessi.

I movimenti più attuali invece danno un’interpretazione più paritaria.

Detto questo, per quanto le mussulmane possano essere fiere dei loro costumi e delle loro tradizioni, non si può certo dire che essere una donna in Qatar sia semplice. Locale o espatriata, europea o asiatica, poco importa: gli ostacoli sono all’ordine del giorno. I pregiudizi sono tantissimi. I luoghi comuni non si contano nemmeno.

Chiara Amodeo Doha

Allora mi chiedo, sarà per questo che vedo sempre più donne locali trasferirsi a Londra, la meta più ambita ed amata da ogni qatarino e già in parte conquistata grazie a quella bandiera bianca e bordeaux che sventola su Harrods?

Chiara Amodeo


[Immagini tratte da: http://stylonica.com/top-20-hijab-styles/ e  https://www.flickr.com/photos/61832963@N05/5627087731/]