Falsità cosciente e sincerità incosciente

La filosofia e l’indagine filosofica ad essa collegata si prefiggono di giungere, mediante dialogo, ragionamento e logica, ad aletheia, ovverosia verità. Si può pensare a ciò come un traguardo oltre le nostre umane capacità, magari neanche possibile poiché una verità epistemica ultima capace di racchiuderne ogni altra si potrebbe non dare a noi.

Per verità si richiama inevitabilmente al concetto di indubitabilità, ad una dimensione ontologicamente completa e quindi al massimo grado di perfezione, non mancando di nessun attributo. Se fosse manchevole di anche solo una particolarità verrebbe a mancare la pienezza del tutto, si toglierebbe il tutto perché non più fedele al suo nome e sarebbe un tutto senza davvero tutto, privo di qualcosa. Quel qualcosa è un dato non da poco che fa acquisire indeterminatezza e imprecisione all’analisi filosofica volta ad una conoscenza epistemica, dunque rigorosa e incontrovertibile. In tale logica probabilistica ci si può avvicinare con un variabile grado d’approssimazione ad una conclusione, ad una tesi convincente ma falsificabile in futuro. Popper diceva che una teoria scientifica per essere tale deve correre il rischio di essere falsificata. Anche la filosofia, a mio modesto parere, compie questo processo in una successione di tesi approssimative che indagano l’animo umano, inseguendo un senso rappresentato come una continua tendenza alla verità senza mai raggiungerla. Più accurata sarà l’argomentazione più la tesi sarà solida, o meglio tenderà alla solidità e convincerà nel tempo. La convinzione, la persuasione sono elementi che contraddistinguono il dialogo umano, lo scambio di opinioni e tesi tra interlocutori che vogliono giungere ad un risultato dialettico. Cercare la verità mediante il confronto, dire la verità potrebbe essere il mezzo eppure un dialogo non sempre è composto dalla veridicità delle proposizioni degli interlocutori. Il presupposto, spesso, è già permeato da falsità, da intenti diversi da quelli che potrebbero essere quelli della ricerca di cui stiamo parlando.

I sofisti tanto condannati da Socrate sono ancora tra noi e nel loro argomentare per ottenere ragione ad ogni costo sacrificano una base veritativa fondamentale per la ricerca stessa. Viviamo in una società in cui l’inganno è una base piacevole e favorevole per il singolo che vuole emergere, avere la meglio su altre soggettività – magari annientandole – per potersi garantire il proprio benessere. L’inganno è sui volti illusori che abitano il mondo, un fiume di maschere pirandelliane che inonda le strade, le scuole, i ristoranti, le banche, gli uffici. La menzogna parte dal singolo a beneficio del singolo ma contemporaneamente preclude il benessere dei molti. Il paradosso di siffatta società consiste nell’essere composta da individui che pensano a loro stessi e la decostruiscono togliendosi, togliendo la loro funzionalità sociale, annichilendo la forma complessiva che il castello di sabbia dovrebbe avere nel suo essere realizzato dagli svariati granellini.

Se ne conviene che forse Pirandello aveva ragione quando scriveva «imparerai a tue spese che nella vita incontrerai tante maschere e pochi volti»1. Ebbene è in un volto che si può insediare la verità, o almeno il presupposto sincero per favorire il dialogo. Far cadere la maschera svela il vero volto di un individuo, ne mostra gli occhi, lo sguardo che attua già una comunicazione, fa trasparire emozioni e pensieri. La falsità cosciente della maschera può essere combattuta e abolita anche solo da uno scambio di sguardi, un’azione di riconoscimento tra soggettività che non si ignorano, bensì si scoprono, si cercano senza cedere a piegarsi all’altro. L’occhio umano è sottovalutato, è uno specchio che riflette l’interiorità dell’osservatore e svela, anzi disvela l’aletheia personale, quasi inconsciamente. Proprio l’inconscio, come ampiamente studiato e teorizzato dalla psicoanalisi da Freud in poi, pare proporsi come unica via veritativa, come espressione ed esplosione irrazionale di ciò che durante il giorno è velato da un super-io capace di diffondere e incentivare la menzogna.

In tal senso il sogno, la dimensione onirica si fa maestra ed ente esplicito dell’interiorità celata, di quello sguardo che ogni tanto desidera porsi una maschera per la vergogna, per l’imbarazzo e il conformismo sociale o adeguamento alla massa. Solo in quel momento, in quella vita notturna troviamo conforto e libera espressione, riscoprendo l’inconsistenza della libertà che tanto professiamo d’avere nella vita diurna. Anche in questo caso siamo i coscienti fautori della menzogna che in tal dimensione diviene una bugia riguardo la libertà, un’autonegazione posta da noi stessi e con altrettanta ed ingenua maestria puntiamo l’indice accusatorio verso altro da noi, verso un ente che dovrà essere colpevole di un nostro e solo nostro atto…

…quello di avere mentito.

 

Alvise Gasparini

NOTE:
1. L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Einaudi 2005

 

 

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La contraddizione come condizione dell’esistenza

<p>La Trahison des images (Ceci n'est pas une pipe). 1929. Oil on canvas, Overall: 25 3/8 x 37 in. (64.45 x 93.98 cm). Unframed canvas: 23 11/16 x 31 7/7 inches, 1 1/2 inches deep, 39 5/8 inches diagonal. Purchased with funds provided by the Mr. and Mrs. William Preston Harrison Collection (78.7).</p>

Sembra quasi un ossimoro, un’affermazione paradossale.
E proprio un paradosso può essere l’inizio della nostra indagine. È uno dei più famosi nella storia dell’uomo: il paradosso del mentitore, articolato tramite una proposizione auto-negante del tipo “questa frase è falsa”. Nessuno potrà dimostrare se essa sia vera o falsa dato che se fosse vera allora non sarebbe falsa; mentre se fosse falsa si capovolgerebbe in “questa frase è vera”, quando si è appena affermato il contrario.

Contraddizione. Questo concetto attraversa tutta la storia della filosofia occidentale. Ai suoi albori, Aristotele formulò il famoso principio di non contraddizione, che è diventato la base più solida della nostra logica e del nostro linguaggio, una città amica dove sappiamo di poterci sempre rifugiare insieme ad un alleato pronto a sostenerci. E con un alleato come il “principium firmissimum” – come è stato più volte chiamato – la vittoria sembra certa.
Ma come dovremmo comportarci di fronte ad una situazione paradossale? Una soluzione può esserci suggerita attraverso il principio del terzo escluso, ovvero che non è possibile una terza via tra due proposizioni tra loro contraddittorie: “tertium non datur”. È necessario però fare una precisazione: questo principio non scandisce che non può esserci una terza possibilità tra vero e falso – che sono contrari –, il che aprirebbe la strada all’indeterminato, come spesso è stato interpretato, ma tra vero e non-vero (o falso e non-falso), che sono appunto contradditori. Sembra quindi che all’interno del non-vero possa essere posto sì il falso ma, ad esempio, anche l’indeterminato.
Un’altra soluzione può essere quella – condivisa anche da Aristotele – che tramite i paradossi non si stia dicendo propriamente nulla, e quindi la (non-)proposizione va tralasciata senza nessun problema.

Facciamo ora un passo oltre ai paradossi e concentriamoci sulle contraddizioni vere e proprie, quali i paradossi non sono.
Il significato di una contraddizione è molto semplice: essa si presenta quando si considera una proposizione logica attualmente identica al suo opposto (ad esempio “in questo momento piove e non-piove”).
Possiamo quindi tranquillamente soprassedere alle contraddizioni logiche e ampliamo lo sguardo alla nostra vita.
È un dato di fatto che nel corso della nostra esistenza compieremo qualche scelta e/o azione irrazionale. L’uomo infatti è sì – per dirla con Aristotele – animale razionale, ma la nostra “umanità” non si esaurisce in questo.
L’azione di andare contro il buon senso può essere considerata una contraddizione? Ed il suicidio? Perseverare in una scelta pur sapendo che non ci condannerà ad altro che all’infelicità e a ripetute delusioni è una contraddizione?
A mio modo di vedere – e con qualche necessaria precisazione – la risposta può essere positiva e negativa insieme, ed ecco che si ripropone una contraddizione.
Se consideriamo l’uomo come entità calcolante, alla stregua di un computer, la risposta è certamente affermativa: queste azioni – potremmo dire – sarebbero espressione di un malfunzionamento.
La risposta è negativa (ma ora vedremo che in realtà sarà comunque positiva) se aggiungiamo all’uomo la sfera emotiva. Seguire le emozioni, gli istinti, le pulsioni: ecco cosa ci differenzia dalle macchine, ed ecco i grandi problemi con cui ha a che vedere la robotica e lo sviluppo delle intelligenze artificiali.
Ma possiamo ipotizzare vari gradi di irrazionalità? Può esserci un’irrazionalità sempre maggiore che al suo estremo sconfini comunque nella contraddizione? Può cioè essere l’irrazionalità essa stessa irrazionale non per definizione ma per comportamento? E non stiamo parlando di due negativi che moltiplicati fanno un positivo: una irrazionalità irrazionale non diventa ragionevole, bensì si riproduce ed amplifica, sconfinando – appunto – nella contraddizione.
E ciò – a mio modo di vedere – succede ogni giorno.
Accade quando sappiamo che dobbiamo andare al lavoro ma restiamo a letto.
Capita quando vogliamo esplodere di rabbia ma ci imponiamo di stare calmi.
Succede quando siamo consapevoli che amare qualcuno potrebbe destinarci al dolore ma lo facciamo comunque.
Ciò – in sostanza – si realizza quando, nel conflitto tra ragione e passioni, una delle due prevale sull’altra. Perché entrambe le possibilità sono me.
Entrambe potrebbero, singolarmente, esprimere la mia individualità. Entrambe, isolate, sono una parte che esaurisce il tutto. Ma l’uomo non è questo Tutto, esso va oltre, ha bisogno anche di quello che circonda la Totalità, che per definizione non esiste e che la logica non riesce nemmeno ad immaginare. Eppure è proprio questa sovrabbondanza di esistenza inesistente che ci permette di domandarci cosa c’è oltre l’Universo, cos’è veramente una singolarità avvolta da un buco nero e se il tempo possa essere aggirato.
È come se fossimo inconsapevolmente consapevoli di essere altro rispetto a quello che siamo.
È una contraddizione che spiega la vita.
È La Contraddizione: vivere senza sapere il perché ma sapendo che c’è.
Vivere perché si vive. Vivere perché sono vivo.

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Dentro il paradosso: quando il barbiere si rade da sé

Se è vero che per natura – come ci dice Aristotele – l’ uomo ama conoscere, ama anche – e ciò è confermato dai quiz televisivi come dalle riviste di enigmistica – che lo si provochi nella conoscenza. Questo fanno enigmi e paradossi che l’uomo per secoli si è divertito a costruire e a cercare di risolvere. Ma, al di là della nostra contingente soddisfazione nel risolverlo o della frustrazione nel non riuscirci, qual è il valore conoscitivo del paradosso, cosa ci dice cioè sul modo di pensare dell’uomo e sulla scienza che egli elabora?

La storia dei paradossi corre parallela alla storia dell’uomo che si ingegna nel superarli: la sfida che essi gettano all’uomo costituisce l’altra faccia della loro debolezza. Per essere più espliciti: una contraddizione indica di cambiare strada – di lì proprio non si passa –, il paradosso invece invita a cambiare modo di percorrere la stessa per evitare un ostacolo imprevisto, magari essendo più consapevoli dei propri mezzi e di certi limiti. Così ad esempio il paradosso del barbiere, che ci chiede: chi rade il barbiere, posto che il barbiere rade solo chi non si rade da sé? Esso ha portato a riflettere sui limiti dell’autoriferimento in logica e in matematica spingendoci ad elaborare soluzioni che evitino questo tipo di difficoltà.

In generale il paradosso così inteso è il sintomo che dobbiamo fare un check-up tecnico, cioè tornare ad analizzare gli strumenti base che utilizziamo nel pensiero, per assicurarci che non li stiamo usando in modo scorretto. Se il paradosso, fatte queste verifiche, regge, allora ciò è indice che stiamo sfiorando il limite del pensiero o del linguaggio.

Quanto detto vale per i cosiddetti paradossi logici o sintattici, esistono però anche i paradossi semantici o pragmatici, come quello celebre e antichissimo del mentitore, che nella formulazione più breve recita: «Questa proposizione è falsa», oppure la battuta di Georg Carlin che si chiede: «Se uno cerca di fallire e ci riesce, cosa ha fatto?». Questo tipo di paradossalità è legata al rapporto parola-mondo e richiede per funzionare di essere inserita almeno con la fantasia in un contesto concreto. Sicché i paradossi del primo caso nascono in forma logico-matematica e vengono poi tradotti, quando è possibile, in forma narrativa, questi secondi invece nascono dal concreto e non è possibile, salvo forzature, trasporli in un contesto logico.

Con il paradosso pragmatico si fa evidente un altro lato di quella fascinazione umana verso il paradosso che cercavamo di indicare all’inizio dell’articolo, e non per nulla esso è usato da maestri della comunicazione, comici e letterati: Wilde, Nietzsche, Chesterton – e la lista potrebbe indefinitamente estendersi –p furono tutti amanti e grandi frequentatori dell’uso retorico del paradosso.

Elegante e spiritoso, problematico e sfuggente il paradosso ha conquistato tanto i letterati quanto i matematici. Alcuni ne spiegano il successo sostenendo che è la struttura stessa della realtà ad essere paradossale, secondo altri invece esso si riduce a nulla più che ad un uso errato del linguaggio, un gioco di parole. Rimane nondimeno del tutto intatto il mistero del suo fascino sull’animale razionale che è l’uomo.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google immagini]

intervista a Gli uffici di Oberdan

gli uffici

L’intervista agli Uffici di Oberdan, continua il percorso iniziato con l’intervista a Sisma ed apre ufficialmente la mia nuova rubrica: Traffici d’idee, una rubrica che è un pretesto per parlare delle persone che incontro e per incontrane di nuove. Fino a qui si è parlato con dei musicisti, in futuro ce ne saranno degli altri ma ci sarà spazio per altre storie di individui o di gruppi di esseri umani impegnati nel ricercare qualcosa di personale. A me la scelta di cosa valga la pena di essere raccontato.

Perché parlare con gli altri, parlare degli altri di altro è parlare con se stessi di sé. A me diverte e quindi…

Intervista a GLI UFFICI DI OBERDAN

Incontro Davide Cadoni (chitarra e voce) e Pasquale Rao (Basso). Con Davide Amadio (batteria) compongono Gli uffici di Oberdan. Inizia a fare buio.

Spiegatemi il vostro nome, posso capire perché Oberdan, ma gli uffici?

Oberdan, e la sua storia, incarnano l’animo rivoluzionario e sovversivo che in fondo spinge tutti noi a cercare di eludere lo stato “non naturale” delle cose, quel fuoco che arde contro tutto ciò che ci tiene all’oscuro della verità. Si parla di rivoluzioni sociali che possono aver luogo solo dopo quelle personali. Come lui, ognuno di noi dedica la vita ad una personale e continua rivoluzione. Ogni giorno scopriamo nuove sfumature e decidiamo se esse fanno parte indelebilmente del nostro essere o se invece lasciano margine al miglioramento, permettendoci così di plasmare in meglio la sostanza densa in cui immergiamo le nostre giornate. Oberdan offre la sua vita con lo scopo di riunificare l’Italia, annettendo territori posti per altrui volontà oltre il confine. Come lui vogliamo esplorare quegli orizzonti sconosciuti che sentiamo potrebbero arricchirci, che sentiamo ci debbano appartenere. Egli diventò martire per dare vita ad un’Italia unificata, metafora del nostro tutto. Mettere in gioco la propria vita per completarci come persone, per raggiungere il proprio senso, a costo anche della morte. Gli uffici mi chiedi? Sono stanze immaginate dentro le quali ci piace pensare si preparasse la rivolta “Si suona come si vive, per scoprire, costruire e conquistare quella parte di noi che sentiamo debba in qualche modo appartenerci, per accendere la luce in quegli uffici in cui progettiamo ogni giorno le nostre rivoluzioni.”

Come vedrebbe il presente O.?

La vedrebbe male, perché l’Italia è di fatto ancora divisa, non c’è senso di fratellanza , non c’è ascolto ne dialogo tra le persone. La speranza è che la musica possa continuare ad aprire gli occhi e i cuori delle persone, annullando le distanze che portano a sentirci soli in mezzo alle nostre trincee.

parto con le domande filosofiche della redazione:

Nelle vostre canzoni si scorge il paradosso tra l’evoluzione dell’uomo attraverso lo sviluppo tecnologico e l’involuzione della sua etica: secondo voi è impossibile che tecnica ed etica possano percorrere insieme la stessa strada? Perché?

Mi dicono che la tecnica non è un male, il problema è l’utilizzo che se ne fa. Mi dicono anzi che la tecnica è meravigliosa. Anche fare un cd richiede un sapere tecnico notevole, occorre saper suonare, saperlo produrre e poi saperlo distribuire al pubblico. È il profitto che poi crea i problemi. Il profitto quando questo diventa l’unico obiettivo.

Ecco si il problema tra etica e tecnica è proprio questo. Andrebbero benissimo le due cose se puntassero entrambe ad un obiettivo giusto. Chiedo cosa vuol dire giusto? Giusto è ciò che può servire a nutrire e a perseguire il bene comune, e personale. Giusto è quel qualcosa che veramente è utile all’uomo, un’utilità che si avvicina al naturale. Alla natura animale dell’uomo, non intesa come irrazionale, o non solo, ma come stato di natura non condizionato dal contesto sociale. Quella cosa tanto ricercata da Hobbes e Locke. Si aggancia subito la seconda domanda.

2 Nella vostra canzone “Contronatura” mi hanno stupito questi due versi:

“Non cercare di andare contro natura

non cercare di andare contro quello che sai”

Cosa vuol dire per voi ‘andare contro natura’? Essere ‘secondo natura’ o meno, è, secondo voi, qualcosa che dipende dal soggetto singolo o dalla società?

I versi citati sono un gioco voluto, possono essere intesi come le parole della società, che eleva il suo giudizio a verità naturale, inattaccabile. Non andare contro natura, contro quello che sai, quindi contro quello che ti è stato detto. Allo stesso tempo queste parole possono essere un mantra da ripetersi. Un ricordarsi quello che sai dalla nascita, prima che i dogmi sociali imprigionino il tuo pensiero, quei desideri puri e quei bisogni reali che tutti possediamo.

Cerchiamo poi di definire cosa sia naturale. Ma non ci riesce alla perfezione, e siamo contenti di questo. Si ci sono dei bisogni comuni, ma non siamo omini di pongo fatti con lo stampino, il senso di questo esistere è proprio scegliere quali sono le vie che più ci piacciono, quelle che ci fanno correre senza mollare.

3- Leggendo il testo di “Perdo tempo” mi viene da pensare che ci sia paura nei confronti del tempo. Secondo voi il tempo è soggettivo, quindi è una costruzione mentale che il singolo plasma a seconda delle sue esigenze o esiste davvero un tempo oggettivo pertanto menefreghista nei confronti dell’uomo?

Preciso che tra una domanda seria e l’altra ci perdiamo in cazzate esistenziali senza capo ne coda, ma estremamente fondamentali. Ma di questo parlerò dopo.

Rispondono alla mia domanda ed ammetto che sono costretto a richiedere più volte la risposta, alla fine arrivo a capirci qualcosa. Per limiti miei ovviamente. Riassumo come posso. Il tempo oggettivo come quarta dimensione fisica lo scartiamo proprio. Non ci interessa ciò che non passa attraverso l’uomo. C’è nel tempo umano, un tempo considerato semi-oggettivo. La classica linea della vita, che ci dovrebbe spiegare quando è il momento di fare cosa. Ma agli Uffici non piace avere obblighi e preferiscono cancellare le tacche da questo metro. Perché? Perché anche questo tempo è un’invenzione. Si finge oggettivo quando in realtà è una costruzione altrui. La risposta è: “non è che non esita proprio, ma chissenefrega!”. La soluzione non è misurare il tempo. È caricarlo di valore. Quando una vita è ben spesa anche l’angoscia del tempo sparisce. I Baustelle dicono: “credi di morire, non è niente se l’angoscia se ne va”.  Pasquale mi racconta di come sia cambiata la sua vita da quando suona: “Prima tornavo a casa da lavoro, guardavo la tv, andavo a letto e poi di nuovo a lavoro. Adesso ci troviamo a suonare. Creiamo qualcosa di nostro. Sono sempre stanco morto. Ma sono felice.” E mi dice anche che ogni cosa dovrebbe essere fatta come fosse l’ultima volta. Non credere a quello che si fa. Quello è perdere tempo! E non, come si sentono dire tutti quelli che fanno qualcosa che gli piace: fai qualcosa di utile, fai qualcosa che serva, non fare il perdi tempo.

E ci troviamo a perdere tempo a chiacchierare, a scoprirci, a scrivere articoli, a scrivere poesie, ad ascoltare musica buona e schifosa. A fare progetti che magari non fanno successo. Ma come mi dicono Gli Uffici di Oberdan, l’importante è non voltarsi indietro e vedere una vita di rimpianti, l’importante è averci provato.

Ok prima vi parlavo di tutte quelle altre cose non propriamente attinenti alle domande, provo a raccontarle unendole alle sensazioni dell’ascolto del loro disco:

Parte svarione, solo per chi ha tempo da guadagnare.

Ascolto gli Uffici di Oberdan su Spotify, quello per computer che quello sul telefono fa schifo. La velocità degli anni “perché il tempo ci sfugge ma il segno del tempo rimane[1]”. E con il passare del tempo, nei miei attimi recenti, la gente scema mi pare sempre meno interessante e mi trovo ad essere meglio di loro senza presunzione. Ok uno due tre, schiaccio play:

“Puntiamo solo a salire, puntiamo solo ad impazzire” puntiamo pesante  sui nostri sogni, puntiamo a scendere dal letto con felicità. Che poi è donna e quindi per averla non va rincorsa.  Ma stiamo parlando di rivoluzione e di bombe in tasca. “pronte ad esplodereee” e forse bastano due bombe in tasca come coperta di Linus per fare la rivoluzione, Oberdan non si nasce si diventa, si diventa morendo, ma vabbè.

“ Non cercare di andare contro quello che sai” “la chiave della felicità è la disobbedienza in sé a quello che non c’è[2]”. Non cercare di imparare dagli altri quello che non sai, meglio stare incompleti che vivere altre vite “so che hai sogni non tuoi”. Cosa vuol dire contro natura  chiedo agli Uffici? contro natura gioca sulla natura naturale e su quel che ti dicono sia naturale. Ma cos’è naturale? “com’è spoglia la città da quando soffre solo il freddo”, naturale è ciò che appartiene all’animale umano, il naturale ce l’hai nel sangue, non è naturale l’imposizione della società che crea bisogni indotti intrappolando l’individuo. a casa mia si parla di mangiare e di proteggersi da varie cose: dal disordine, da futuro, da stare da soli, da far soffrire gli altri e dal non farli soffrire proprio. Proteggersi è naturale, ma imprigionarsi non lo è. Per gli Oberdan è una ricerca non finita, il loro album è un invito a ricercare la propria via, nel rispetto degli altri, della bellezza naturale e di quella umana. È un tentativo di slegare le catene ai tizi nella caverna, consapevoli che i molti se ne resteranno comodi al buio, ma qualcuno uscirà alla luce. “sarebbe stato più semplice non aver mai aperto gli occhi, sarebbe stato più facile, non averli chiusi mai”

Dopo averli intervistati è più chiaro questo cd, dovrebbe essere obbligatorio ed illegale un colloquio con l’artista. Continuiamo parlando della comunicazione, degli effetti di parlare solo di sesso e violenza

Venerdì sono andato a vedere Jovanotti. Che gioca al rock n’ roll. Anche Ligabue dice qualcosa di simile, aspetta come dice? Apro Youtube e trovo questo: Andrea comunica il suo suicidio con un video, poco dopo si toglie la vita. E forse gli Oberdan avevano ragione, tira più un morto ammazzato che un carro di buoi. Sulla fica non saprei.

“Mi vedi bene; mi vedi bene; mi vedi bene; mi vedi bene ma io — non ci riesco!!” e subito penso alle ragazze e dimentico Andrea “Andrea si è perso, ma non sa tornare, Andrea ha in bocca un dolore, la perla più scura[3]”. Ha ragione Andrea, che i miei articoli vanno letti cagando. E mi rende felice avere un posto nel mondo, un posto di pace e meditazione. “Che bello che era averti attorno/ come aver trovato un posto al mondo/ dove alla fine fare ritorno/ quando non c’è un posto dove andare[4]” “Non essere noioso Non sentirmi più solo/ Stare bene così/ Senza un posto nel mondo[5]

In sostanza se non srotolo una morale, se non estraggo pathos dal concetto dell’album, vuol dire che  PERDO TEMPO? Di questo parliamo al secondo spritz metà Aperol e metà Campari, di quello che ti dicono, del non naturale che diventa fondamentale, ti dicono che se non si fanno le cose come vanno fatte, si perde tempo. Se non si fanno le cose che vanno fatte si perde tempo. E così il tempo non si vince mai, si asseconda. E il tempo poi vince sempre sulla lunghezza, si può batterlo solo in intensità. E gli Oberdan mi dicono: meglio bruciare rapidi e intensamente piuttosto che spegnersi lentamente senza aver mai prodotto alcun calore. “Non tutto quel che brucia si consuma” “e lo ripeto ancora, fino a impararlo a memoria, finché siamo qui, noi siamo gli immortali[i].”

Finisco l’intervista, ci penso qualche giorno, che la vita non è facile, la vita non è male se scegli come spenderti, scegliere da gusto all’esperienza, dà peso all’esistenza.  E la scelta viene dal desiderio e dalla ragione, la scelta è l’espressione dell’individuo. E che parlare con la gente è sempre una scusa per scoprirsi

parlare di qualcuno

È parlare di tutto il resto

dei pochi sconosciuti

tra i sette miliardi

e dei soliti sette gatti

 

cose dalle cose.

parlare del tale, dell’ernia iatale

sempre parlare di tutto

il resto

lasciare o non lasciare il resto di mancia

lasciare o lasciare una manciata di affetto

in prestito, in franchising

la propria personalità, francamente

Franca, dovresti smetterla di essere così brava

 

parlando di qualcuno

parlare di tutto il resto

e dei pochi sconosciuti

tra i sette miliardi

tra i soliti sette gatti

che ci si sente sparlati

ed è fastidioso non sentirsi nominati.

e non posso fare a meno di infastidire

di infastidirmi, di evitare

di essere schiacciato, di schiantarmi sul gelato

E di scegliere sopra quale merda ronzare

di proclamare la mia indifferenza

nell’attesa della tua venuta.

Bzzz

amen

 

Gianluca Cappellazzo

 

[1]Baustelle, Le rane

[2]Afterhours, Quello che non c’è

[3]Fabrizio De André, Andrea

[4]Ministri, Comunque

[5]Marracash, Senza un posto nel mondo

[i]Jovanotti, Mezzogiorno. Jovanotti, gli immortali.