Humboldt e il rapporto dell’essere umano con la natura

Che cos’è la natura per gli esseri umani? Uno sfondo di appartenenza co-originaria di tutto ciò che appare, noi inclusi, o un’antagonista da domare? Uno scenario di contemplazione a cui ricorrere appena possibile o un enorme contenitore di beni da prelevare bramosamente? Potremmo dire che l’umanità nella storia ha formulato e messo in atto un po’ tutte le risposte, ma le problematiche ecosistemiche che ci troviamo a fronteggiare rendono evidente che il secondo tipo di risposta sia stato il più gettonato.

All’origine del nostro rapporto con la natura, predatorio o ecologico, sta una scelta filosofica. Domandarsi che posto abbiamo nel mondo naturale, quali diritti di usufruirne e, soprattutto, quali limiti, è indubbiamente un ragionamento di tipo esistenziale-filosofico. Dunque, ricercare i fondamenti dei diversi modi di pensare la natura significa visitare la storia della scienza e della filosofia per scoprire i pensatori che hanno fatto della loro visione della natura un riferimento culturale epocale. Prendiamo, ad esempio, Cartesio: scienziato e filosofo, fu un attento osservatore di fenomeni, ma il suo approccio era di tipo meccanicistico e riduzionista. Ciò significa che ogni elemento naturale andava studiato scomponendolo, come si farebbe come una macchina. La sua propensione alla frammentazione fu tale che con lui la materia (res extensa) e l’immateriale (res cogitans) si separarono drasticamente. La visione meccanicistica della natura ebbe molta fortuna tra vari scienziati che succedettero a Cartesio.

Un importante oppositore di questa visione, invece, fu Goethe: la sua propensione al tutto e alla fusione tra arte e scienza fece di lui un importante sostenitore del primato dell’unità sulle parti. L’organismo è più della sua scomposizione in pezzi. Questo pensiero fu determinante nell’influenzare un importantissimo scienziato dell’800, un altro tedesco, sfortunatamente poco conosciuto in Italia: Alexander von Humboldt (una sua preziosa biografia è L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, di Andrea Wulf, Luiss, 2017). Assiduo frequentatore della natura, viaggiatore temerario e fine scienziato, Humboldt fece delle sue ricerche un capolavoro di visione filosofica della natura come “tutto armonioso” in cui niente è slegato dal resto. Teoria ed osservazione in prima persona erano per lui inscindibili. Riuscì per primo al mondo a scalare la vetta di 6310 metri del Chimborazo, vulcano dell’Ecuador (allora considerato il monte più alto del mondo). Un record sancito senza alcuna attrezzatura tecnica e rischiando la vita. Ma l’esperienza fu totalizzante per Humboldt, che lì ebbe la sua folgorazione: tutto è connesso e la natura è un organismo vivente.
Humboldt era anche un vero maniaco dei dettagli: annotava tutto e i suoi vari libri pubblicati segnarono per sempre la carriera di altri studiosi. Tanto per fare un esempio, Darwin si imbarcò sul Beagle perché conosceva Humboldt a memoria ed era desideroso di solcare le sue orme. Thoreau fu un grande ammiratore delle opere di Humboldt e ancora oggi, fortunatamente, rimane un autore molto letto.

Lo sguardo di Humboldt fu prezioso anche come antesignano dell’ecologia. Già a inizio ‘800 fu in grado di scorgere i segni del degrado ambientale provocato dall’azione umana. La sua attenzione alle dettagliate relazioni tra le parti lo portò a vedere come la deforestazione avesse effetti enormi sull’ambiente. Aveva capito che tutto il delicato equilibrio della vita si erge sulla diversità, i cui più acerrimi nemici siamo noi. Aveva addirittura colto i problemi globali legati alle monoculture, notando come le coltivazioni imposte dai colonialisti europei impoverivano le popolazioni locali del Sud America. La sua visione influenzò personalità come il rivoluzionario Bolivar o il secondo presidente degli USA, Jefferson, che furono suoi personali amici. Conobbe bene anche Napoleone, che invece lo detestava per la sua caratteristica di rifuggire qualunque possibilità di manipolazione. Per Humboldt la scienza era al servizio della natura e non della politica, come era invece per Napoleone. Humboldt arrivò a influenzare anche il filosofo Schelling nella formulazione della sua visione filosofica di unità tra Io e natura. Suggestionò i poeti Romantici e, ad esempio, Coleridge e Wordsworth furono suoi grandi ammiratori. Un intenso filone filosofico e letterario fece propria la lezione di Humboldt, ma non bastò a salvare il mondo.

L’impennata scientifica esordita a fine ‘800 diede un impulso così forte all’industrializzazione che la natura ancora di più diventò giacimento di risorse da spremere senza senno. Popolazione in aumento, relativi bisogni di sostentamento e possibilità tecnologiche sempre crescenti hanno decretato la vittoria dei fautori della dominazione della natura. Adesso siamo convinti che doveva per forza andare così, come se il progresso sia inevitabilmente legato al consumo sfrenato. La cecità con cui proseguiamo in quest’opera dissennata non ci fa nemmeno intravedere quell’altra visione, quella di una scienza rispettosa che si unisce alla poetica contemplazione del Tutto, così come ce l’hanno lasciata in eredità personalità quali Humboldt. Una visione che, se avesse prevalso, forse ci avrebbe portato a un’idea di progresso maggiormente ecocompatibile.

L’umanità ha oramai scisso se stessa dalla natura e, poco filosoficamente, continua a pensare che il suo destino sia slegato dal Tutto.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit David Marcu via Unsplash]

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L’incompresa importanza del suolo e la sua complessità

Non c’è cosa più calpestata al mondo, in tutti i sensi. Il suolo non soltanto è la superficie sulla quale costruiamo tutta la realtà che ci circonda ma è anche la risorsa naturale più maltrattata e meno conosciuta. Troppo spesso il suolo è visto come una risorsa da cementificare o da sfruttare per massimizzare la produzione di cibo. Viene sottovalutata la sua fragilità e la sua imprescindibile necessità per tutta la vita sulla terra. A lanciare un ennesimo allarme è il professore Paolo Pileri, ingegnere urbanista del Politecnico di Milano; il suo libro L’intelligenza del suolo. Piccolo atlante per salvare dal cemento l’ecosistema più fragile (ed. Altreconomia, 2022) è un richiamo a comprendere la preziosità del suolo per il panorama di complessità in cui si incastonano anche le nostre vite di umani, accanto a tutte le altre. Ancora una volta, l’appello è ad aprire gli occhi a questa complessità e all’urgenza di capire come i nostri interventi incontrino sempre meno la resilienza della natura.

Che il suolo sia prezioso per tutti non è una novità; Platone scrisse:

«Io dunque, nella mia qualità di legislatore, dichiaro che né voi appartenete a voi stessi, né codesti beni appartengono a voi, ma alla vostra famiglia in tutto il suo complesso, a coloro che furono prima di voi, e a coloro che verranno dopo, come a sua volta e tanto più, l’intera vostra famiglia e le sue sostanze appartengono alla polis» (Platone, Leggi, II. 923 A-B).

«Chiunque riceva in sorte un lotto di terra lo deve considerare possesso comune» (Platone, Leggi, V. 740A).

Il suolo è un bene collettivo, però è complesso e delicato in quanto la sua vitalità è legata a tempi lunghissimi di evoluzione: ci vogliono 500 anni perché se ne formino 2,5 cm. Basta un giorno, invece, per asfaltare e sopprimere quella complessità che silenziosamente si è costruita nel tempo. Il suolo, con caratteristiche variabili in base ai nostri interventi (che lo impoveriscono), è un condominio fitto fitto di inquilini che lavorano in simbiosi. Vi siete mai chiesti che parte hanno i lombrichi? Darwin se lo chiese e  scoprì che con il loro lavoro di scavo e trasporto di materiale organico consentono al suolo di arearsi meglio e facilitano i processi di decomposizione, cioè un lavoro quasi invisibile che fa sì che non veniamo sommersi da tutto ciò che non è più utile per noi. Non solo, quello che il suolo riesce a decomporre (soprattutto materia organica, chiaramente fa più fatica con la plastica) diventa fonte di fertilità e dunque futuro cibo per tutti i viventi. Non è abbastanza? No, infatti, il suolo ha anche un altro importantissimo compito, sempre più essenziale per noi: lo stoccaggio di carbonio; se questo viene liberato forma nuova anidride carbonica, risorsa di cui siamo già tristemente ricchi. Perdere suolo e vegetazione in cambio di infrastrutture non è uno scambio equo perché quello che viene meno è difficilmente rimpiazzabile, non nei tempi di una vita umana almeno. Il mondo del suolo è veramente denso di meraviglie, molte altre sono le risorse che ci fornisce e che il libro di Pileri mostra.

Un’altra considerazione è fondamentale: il suolo serve a produrre cibo. Dove coltiviamo le piante necessarie alla nostra alimentazione e a quella degli animali che mangiamo quando da noi il suolo scarseggia? In luoghi lontani, come Russia e Ucraina ad esempio, dove ci sono zone di grandi coltivazioni capaci di supplire in grossa parte al fabbisogno di Europa e Africa. Ma la terra non basta più e noi siamo tanti. Il rapporto FAO (con Unicef, OMS, WFP e IFAD) dice che a fine del 2021 erano circa 800 milioni di persone a patire gravemente la fame nel mondo, in aumento rispetto all’anno precedente e le attese per il 2022 sono addirittura peggiori. A causa dell’invasione Russa con la conseguente guerra e non solo, è divenuta incerta una preziosa fonte di sostentamento per una parte considerevole di mondo. Si pensi che la Somalia, che vive una terribile lunga crisi di siccità, dipende al 100% dalla fornitura del grano russo e ucraino. É già uno dei paesi più poveri al mondo e le cose ora vanno solo peggio.

Siccome il nostro suolo ci attira molto quando è fruttuoso in termini economici, cioè quando è edificabile, da incoscienti quali siamo non ci accorgiamo che rendiamo la questione della fame un problema sempre più grande. Suolo ce n’è sempre meno e se volessimo recuperarne di perso ci occorrerebbero centinaia di anni: insomma, non è difficile immaginare che la fame potrebbe un giorno arrivare sempre più vicino a noi. Se poi aggiungiamo le questioni legate all’inquinamento e ai cambiamenti climatici, dovremmo veramente preoccuparci.

Tutti possiamo fare qualcosa. Pileri spiega bene nel suo libro come le nostre abitudini alimentari determinano il consumo di suolo. Ci vuole molto più suolo nel processo che porta a produrre una bistecca di bovino rispetto a una pasta al sugo. Inoltre, nei paesi occidentali tantissimo cibo viene sprecato e buttato!
Abbiamo tutti delle colpe, ma ciò significa anche che tutti possiamo fare la nostra parte. É importante che le persone capiscano la preziosità delle risorse naturali, come funzionano e come siano imprescindibili. Dovremmo non solo mantenere i piedi per terra, ma chinarci e guardare da vicino, con più curiosità e rispetto, questo incredibile mondo che ci nutre quotidianamente.

Pamela Boldrin

[Photo credit Ochir-Erdene Oyunmedeg via Unsplash]

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I marshmallow, il governo di sé e la filosofia

Chi non conosce le famose caramelle americane, soffici, rosa e bianche, chiamate marshmallow?
Ma forse non tutti sanno che sono associate a un test neuropsicologico, detto appunto “Marshmallow Test”, che fu somministrato a molti bambini fin dagli anni ’60 negli Stati Uniti, ideato dallo psicologo Walter Mischel1. Lo scopo era testare nei bambini la capacità di resistere a una tentazione in funzione di una gratifica maggiore, ma da ricevere in un secondo momento. Un po’ come: meglio un uovo oggi o una gallina domani? La cosa interessante è che questo test si rivelò poi essere predittivo di “successo nella vita” in chi lo superava, anche a distanza di molti anni. In poche parole, un/a bambino/a che riusciva, in un rapporto di fiducia con chi eseguiva l’esperimento, a rinunciare alla gratifica immediata di pochi marshmallow in cambio di una gratifica più cospicua ma da attendere in un secondo tempo, aveva ottime probabilità di realizzarsi con successo in età adulta. Quello che emerse dall’esperimento, replicato poi in molti modi, è che la forza di resistere a una tentazione in vista di qualcosa di più è una capacità che predice il diventare degli adulti capaci dell’autogoverno utile a fare bene molte cose importanti della vita. Che si tratti di relazioni sociali o di perfomance professionali, il superamento del test del marshmallow risulta più importante del livello del quoziente intellettivo, ai fini di capire come qualcuno deciderà la propria vita, piuttosto che subirla. Dal punto di vista delle capacità cognitive, la capacità di controllo che in età infantile si esplica procrastinando la tentazione per dei dolci, in età adolescenziale e adulta si traduce in: migliore gestione delle frustrazioni e dei conflitti, maggiore capacità di concentrazione, buona fiducia in se stessi e minor tendenza a cadere in tentazioni o dipendenze. Addirittura il successo del test correla con un buon livello economico, maggior durata delle relazioni matrimoniali e forma fisica (meno obesità). È una capacità a cui ci si può allenare fin da piccoli, dunque bisogna pensarci nei contesti educativi perché poi sarà preziosa in futuro, ma anche gli adulti, con più sforzo, possono ancora lavorarci su. 

Guarda un po’, tutto questo ha a che fare con la filosofia perché molti filosofi, nel corso dei millenni, hanno riflettuto, con parole diverse, su questa abilità del governo di sé. 

Quando Socrate diceva “conosci te stesso” intendeva  invitare a quella capacità di introspezione e conoscenza di sé che si attua quando si riesce a focalizzarsi su se stessi con sguardo critico. Oppure, quando Seneca, in linea con tutta la filosofia ellenistica, invitava a praticare la moderazione, la ricerca della giusta misura e la fuga dagli eccessi, rifletteva proprio su come queste capacità siano fondamentali a costruirsi un buon stile di vita, filosofico ma etico in primis

Oggi la nostra capacità di governare gli input che riceviamo, considerata la smisurata quantità di stimoli che ci bombardano continuamente, diventa sempre più ardua. La nostra concentrazione è continuamente minata dal richiamo del multitasking, che altro non è che un invito a disperdere l’attenzione in mille cose, per farle tutte male. La concentrazione è un bene prezioso, che va tenuto in costante allenamento. La tecnologia del mondo digitale in cui tutti siamo continuamente immersi, come ci disse Luciano Floridi in un’intervista per la Chiave di Sophia2, «comporta un rischio per l’autonomia umana, per la possibilità di essere padroni del proprio tempo». Ecco, l’essere padroni di sé, esercitare controllo, cioè governo della propria vita, è una capacità imprescindibile per la filosofia, ma per quella filosofia che vuole essere un’ispirazione di vita per tutti, non solo per i filosofi. 

Che cosa possiamo fare, allora, a parte stuzzicare i bambini con caramelle e ricompense alternative a lungo termine? Il lavoro su di sé richiede uno sforzo importante, un interesse multidisciplinare e tempo da investire, ma la filosofia può offrire molti spunti a partire dai filosofi antichi prima citati e non solo. 

In un’ottica di sguardo alla contemporaneità, invece, potremmo iniziare a scrutare quali minacce quotidiane dovremmo prendere in gestione per non disperdere le capacità che abbiamo. Trovare momenti in cui tagliare via stimoli e distrazioni per focalizzarsi su di sé, fare una cosa alla volta, silenziare la tecnologia e connettersi magari di più alla natura, darsi obiettivi di miglioramento dei propri limiti, che siano gli sprechi quotidiani o il superare ostacoli di natura relazionale. In sostanza, sfidare se stessi è sempre un ottimo esercizio per conoscersi meglio ed espandere i propri orizzonti, impratichendosi, così, nel  buon governo di sé.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. Cfr. Il test del marshmallow. Padroneggiare l’autocontrollo, Carbonio ed., 2019.
2. Filosofo intervistato nella rivista cartacea La chiave di Sophia n. 14/2021 – Esplorare la complessità.

 

[Immagine tratta da Pexels.com]

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Tutte le donne dell’antica Grecia. Intervista a Eva Cantarella

Quando si pensa alla parola amore, il primo pensiero forse va all’amore passionale, di coppia in primis. Eva Cantarella, storica, studiosa di diritto greco-romano e prolifica autrice, ha scritto molto sull’amore presso gli antichi Greci e Romani e intervistandola abbiamo pensato di esplorare questo argomento con lei. Approdando al legame di coppia abbiamo scoperchiato un mondo in cui l’amore è tutt’altro che scontato, finendo, così, per esplorare le imponenti differenze di genere presso gli antichi Greci e le ripercussioni che queste hanno avuto sulle dinamiche sociali dell’epoca e nei secoli successivi. Questo viaggio esplorativo ci ha consentito, assieme a Eva Cantarella, di fare anche interessanti riflessioni sul nostro presente.

 

Pamela Boldrin – Cosa ne pensa delle discussioni sempre più accese su un linguaggio inclusivo e politicamente corretto per la sessualità, ma anche sulla censura di eventi storici o personaggi che ad oggi sono considerati incompatibili con le battaglie culturali che stanno avendo luogo?

Eva Cantarella – Nella stessa domanda ci sono due problemi enormi. Il primo riguarda il linguaggio: io sono per un linguaggio inclusivo che consenta la libertà, che in campo sessuale vuol dire riconoscere a tutti la possibilità di esprimere la propria sessualità che non è solo quella biologica ma anche il proprio modo di viverla. Sono dunque per un linguaggio che lasci assoluta libertà e non distingua tra le varie forme di sessualità biologica o percepita: però senza una specificazione lessicale che pretenda di individuare e dettagliare tutte le possibili, infinite percezioni individuali. Una pretesa di questo genere rischia di diventare una trappola. Quello che conta è che tutte le forme e i modi di vivere la sessualità possano essere vissuti liberamente, senza alcuna discriminazione.

Il secondo problema è molto più semplice: distruggere le statue o rimuovere i nomi delle strade è semplicemente ridicolo. Cancellare la storia non è possibile: noi siamo la nostra storia, senza di essa non saremmo quello che siamo. Un’umanità che cercasse di cancellarla sarebbe un’umanità colpita da un Alzheimer collettivo. Quanto all’abbattimento delle statue: ma che senso ha, che senso può avere? Quello che mi sembra avrebbe un senso invece, e che dovrebbe sempre essere fatto, sarebbe dare sinteticamente a chi guarda una statua, un monumento o qualunque immagine le  informazioni necessarie a sapere chi è stata quella persona: invece di cancellare la storia, l’immagine servirebbe così a farla conoscere.

 

Pamela Boldrin – Non solo la medicina è stata influenzata dalla visione maschilista greca, ma anche l’autopercezione delle donne nella società e nei confronti della propria fisicità. Questa visione ha contribuito a creare nelle donne di tutte le epoche successive una interiorizzazione e, addirittura, somatizzazione di tali concezioni?

Eva Cantarella – Lei ha ragione. Questa concezione ha influenzato le donne in un modo incredibile fino ad oggi, facendo sì che esse si identificassero nel duplice ruolo assegnato loro dai nostri più lontani antenati: in primo luogo quello materno, inteso come compito di riprodurre i futuri cittadini, e in secondo luogo quello che oggi viene chiamato la “cura”. E anche se in misura minore di un tempo, questa identificazione continua a sopravvivere non solo nel campo che riguarda la funzione riproduttiva. A me capita spesso di parlare in pubblico della condizione femminile nell’antichità a un pubblico di regola composto prevaletemene da donne, e quando questo accade, accade non di rado che alcune di queste mi parlino della loro disperazione per non essere riuscite ad avere dei figli. Che, come spesso dicono, fa sì che non si sentano più delle donne. È una cosa che ogni volta che accade mi colpisce e mi sconforta:  l’identificazione donna-madre è la maggior causa delle discriminazioni di genere, ed è incredibile che, anche se per fortuna in casi sempre più limitati, continui a esserlo ancora oggi, nel terzo millennio.

 

Pamela Boldrin – Nel suo ultimo libro, “Sparta, Atene” l’analisi mette in luce le diversità tra queste due potenti città dell’antichità, soprattutto in merito alla questione della paideia. Grazie al suo punto di vista possiamo finalmente valorizzare le peculiarità anche alla luce delle differenze di genere, argomento molto trascurato dagli storici e invece da lei valorizzato. Ci vuole raccontare qualcosa delle donne ateniesi e di quelle spartane?

Eva Cantarella – Per le donne ateniesi la risposta è molto facile. Atene è la città alla quale va ricondotta la nascita di tutte le discriminazioni di genere delle quali (in misura e in modi diversi) sono state vittime nei millenni le esponenti del genere femminile. A dare un’idea di quali e quante fossero quelle discriminazioni basterà ricordare che ad Atene – come leggiamo in un’orazione attribuita a Demostene – gli uomini potevano avere tre donne: una moglie, per avere da questa dei figli legittimi; una concubina “per la cura del corpo”, vale a dire per avere rapporti sessuali stabili; e un’etera, vale a dire una delle prostitute di alto livello che li accompagnavano nelle occasioni sociali (alle quali le mogli, in quanto donne oneste, non potevano partecipare) e con le quali i clienti si accompagnavano “per il piacere”. E a questo dobbiamo aggiungere che il marito aveva abitualmente un rapporto pederastico con un giovane uomo. Le mogli invece, se avevano un rapporto extraconiugale, venivano espulse di casa, e dato che nessun padre avrebbe mai riaccolto in casa una simile figlia, se volevano sopravvivere erano di fatto destinate alla prostituzione. E ancora: secondo il diritto ateniese il patrimonio paterno andava diviso in parti uguali tra i figli, sia naturali sia adottivi, ma solo se maschi. Le donne avevano già ricevuto la loro parte come dote al momento del matrimonio, e alla morte del padre, se non avevano fratelli maschi, erano il tramite per cui il patrimonio paterno veniva trasmesso ai loro figli maschi: con la conseguenza che – perché questo non finisse in mani estranee – erano obbligate a sposare il parente più stretto in linea maschile (di regola lo zio paterno). Infine, un’ultima constatazione: una delle conseguenze, forse la più grave tra quelle che discendevano dalle discriminazioni fin qui descritte, era la mancanza di ogni considerazione per il ruolo materno, ridotto in pratica all’accudimento dei figli in età infantile; superata la prima infanzia, l’educazione e la socializzazione dei figli erano affidate in parte ai padri e in parte, come sappiamo, agli amanti adulti.

E a questo punto passiamo alle donne spartane, per rendersi conto della cui condizione bisogna partire dal fatto che, data l’organizzazione comunitaria della vita maschile, dedicata alle armi e alla guerra, e non avendo una vita comunitaria organizzata come quella dei maschi, esse avevano una notevole libertà di movimento e si dedicavano a una serie di attività altrove abitualmente riservate ai maschi, per svolgere le quali uscivano liberamente, abbigliate in modo che per essere comodo era spesso succinto, soprattutto rispetto all’abbigliamento delle ateniesi. In aggiunta a questo, a differenza delle ateniesi, durante il giorno uscivano liberamente di casa, partecipando anche ai pubblici eventi. E se è vero che il loro primo compito era dare figli alla patria, avevano sulle ateniesi il vantaggio di vedere il loro ruolo materno socialmente riconosciuto e onorato. La loro vita era così diversa da quella delle ateniesi, insomma, che inevitabilmente la loro reputazione in quella città non era delle migliori: secondo gli ateniesi erano dissolute, si abbigliavano in modo sconveniente, addirittura si diceva comandassero sugli uomini. In poche parole erano donne disoneste e pericolose. Un modo di rappresentarle (al quale ha contribuito non poco Aristotele) che ha influenzato per molto tempo anche la letteratura moderna in materia, inducendo parte di essa a pensare che la loro libertà si traducesse, nei fatti, in una incontrollata licenziosità, che gli studi più recenti hanno peraltro negato. Indiscutibilmente, per concludere, essere donna a Sparta era più gratificante che esserlo ad Atene

 

Pamela Boldrin – Atene deve il nome alla sua beniamina, la dea Atena, figura ambigua dal punto di vista della rappresentazione del genere, potremmo dire la “meno donna” di tutto l’Olimpo. Qual è il carico simbolico di tale dea?

Eva Cantarella – Certamente Atena è la meno donna dell’Olimpo: “sono tutta d’un padre” disse, e non a caso, essendo nata dalla testa di Zeus. Io credo che per capire l’enorme carico simbolico di Atena si debba tornare al mito della fondazione della città di Atene. Come accade che Atena nascesse dalla testa di Zeus? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, tornando al momento in cui Zeus  aveva mangiato una donna chiamata Metis. Quando questa gli aveva rivelato di essere incinta, infatti, Zeus si era terrorizzato: gli era stato detto che se avesse avuto un figlio questo l’avrebbe detronizzato. Zeus, per risolvere il problema, inghiottì Metis, tutta intera, feto compreso, e così avvenne che il feto si sviluppasse in lui, che al nono mese (ammesso che si contassero i mesi)  cominciò a sentire un grande mal di testa, tanto forte da chiedere che questa gli fosse spaccata. Fu così che nacque Atena: una vera e propria appropriazione della maternità. Il segno dell’invidia maschile della capacità delle donne di generare, confermata da un altro, simile episodio, analogamente, Zeus riesce a partorire al posto di una sua amante: la povera Semele, anche lei incinta di Zeus, che in questo caso peraltro non la mangia. Quello che accadde quella volta fu che Era, la gelosissima moglie di Zeus, convinse malvagiamente la rivale a chiedere a Zeus di apparirle in tutto il suo splendore divino: e Zeus la accontentò. Ma quando Semele lo vide al centro del suo corteo di tuoni e di fulmini  ne rimase letteralmente folgorata: e Zeus, a quel punto, dopo aver raccolto il feto se lo cucì nella coscia, dalla quale sarebbe nato Dioniso. Per ben due volte, dunque, Zeus si appropria della capacità delle donne della capacità di generare. Invece che di invidia del pene, in questo caso si potrebbe parlare di invidia dell’utero. Il carico simbolico della nascita di Atena dalla testa di Zeus non è certo da sottovalutare).

 

Pamela Boldrin – Grazie davvero a Eva Cantarella per questa chiacchierata e per gli spunti di riflessione da conservare con noi nella vita di oggi.

 

Pamela Boldrin

 

[Immagine di copertina fornita da Eva Cantarella]

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Esperimenti pratici di filosofia in vivo

Può la filosofia tornare a essere uno stile di vita praticato in modo collettivo? Noi come Chiave di Sophia abbiamo voluto provare a rispondere a questa domanda con una chiamata. 

Oikos è il nostro progetto sperimentale di circolo filosofico e i preziosi ingredienti sono innanzitutto le persone che hanno risposto a questo appello: le adesioni hanno superato le aspettative così abbiamo inaugurato il circolo con due gruppi divisi in due sessioni. Questo ci fa pensare che abbiamo realmente preso in carico un bisogno sentito da molti in questo momento storico. Il minimo comun denominatore: il desiderio di trovare nuove persone con cui condividere la voglia di riscoprire la filosofia proprio come momento di ricerca e confronto. Quello che è emerso già dal primo incontro è il bisogno di un tempo dedicato alla riflessione, da contrapporre a uno stile di vita troppo frenetico, che non lascia il tempo di pensare e metabolizzare la vita. 

Il secondo elemento prezioso del circolo è la diversità delle persone che lo compongono. I partecipanti si distinguono per studi scolastici diversi, professionalità variegate ed età differenti, segno che la filosofia può essere veramente trasversale. Tutti elementi che incrementano la ricchezza dello scambio. Scambio che nasce di volta in volta dal pretesto di un libro letto, stabilito in anticipo, come nel caso del De Brevitate Vitae di Seneca. Un libro che ci ha riportato indietro di duemila anni, in un tempo in cui la filosofia non era una pratica accademica e particolarmente teorica, al contrario, uno stile di vita da ricreare in momenti di comunità alternati a momenti di ricerca individuale. Abbiamo scoperto che tra di noi c’è ancora chi sente il bisogno di riflettere sulla brevità della vita proprio perché il tempo è tiranno e ci sottrae possibilità di stare con noi stessi; accadeva al tempo di Seneca e oggi ancora di più. La filosofia come pratica di comunità si rivela un potente innesco per anime che cercano altre anime, indipendentemente dalle conoscenze teoriche in materia, proprio perché la filosofia prima di tutto è un’attitudine, un modo di approcciarsi alla vita.

Il desiderio di conoscenza, l’inclinazione alla ricerca e la voglia di condivisione sono gli ulteriori ingredienti fondamentali per diventare filosofi e filosofe. Il bello è che si tratta di una possibilità che aspetta, da qualche parte, tutti noi, basta fermarsi e ascoltarsi. La filosofia antica era soprattutto una pratica orale e forse la filosofia scolastica odierna, incentrata sulla storia del pensiero filosofico, non riesce a restituire questa dimensione. Quando Seneca, così come tutti gli altri, scriveva, lo faceva per fare un esercizio prima di tutto su sé stesso in attesa di condividerlo con gli altri, spesso mediante lo stratagemma di un destinatario menzionato all’inizio del testo. Così emerge che la filosofia era basata sullo scambio, sulla discussione viva tra frequentanti di un circolo, più che su studio di testi e manuali. L’obiettivo di ogni scuola filosofica antica, pur con i propri dogmi, era sempre la ricerca spirituale, il miglioramento di sé, nella consapevolezza che la peculiarità umana dell’essere animali razionali poteva trovare pace solo nell’esercizio di questa facoltà. Se la ragione umana ci distingue da tutti gli altri viventi, non per questo diventa pretesto di isolamento dalla natura e dal cosmo, che rimangono per gli antichi lo scenario imprescindibile in cui collocarsi e trarre ispirazione. L’idea di essere parte di un Tutto rimane uno dei precetti fondamentali della filosofia antica, forse quello di cui abbiamo più bisogno oggi, viste le gravi conseguenze del nostro sentirci distaccati dalla natura, come se essa fosse perlopiù il nostro supermercato dove rifornirci sconsideratamente.

Altro precetto comune alle varie scuole filosofiche antiche, prezioso ancor oggi, è l’idea della moderazione: vizi, vanità, passioni che sfuggono alla ragione, smanie di ricchezza e potere e attaccamento ai beni materiali sono tutte forme di allontanamento dalla spiritualità, sono pericolosi inganni a cui la mente cede quando non sa cosa è bene per gli umani. Ci sarebbe molto da discutere sull’idea di bene oggi, forse su questo tema la filosofia antica aveva meno dubbi di noi. Il crescente individualismo che permea le nostre società attuali non ci consente di comprendere come lo spirito di collettività tipico di molte società del passato fosse lo sfondo originario a cui la saggezza mirava. L’idea che una parte non può dimenticarsi del suo Tutto è forse per noi la più difficile da recuperare, ma il lavoro filosofico e comunitario del nostro circolo Oikos ci fa sperare che ci siano umani desiderosi di mettersi su questo cammino.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credits La chiave di Sophia]

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Viaggio a Kos, alle origini della medicina ippocratica

Visitare delle rovine antiche richiede un certo slancio di immaginazione quando i millenni passati le hanno messe a dura prova. Molti siti, tuttavia, hanno una caratteristica che difficilmente può subire l’oltraggio del tempo: la vista panoramica. I Greci, in particolare quando edificavano siti pubblici, sceglievano spesso di collocarli in cima a un promontorio e rivolti verso il mare. L’Asklepieion di Kos non fa eccezione, solo che questo non era un luogo di intrattenimento, ma di cura, anzi, potremmo dire il luogo in cui la medicina occidentale è stata inaugurata e consolidata. Kos, infatti, è l’isola dove nacque e visse Ippocrate (circa 460-370 a.C.), considerato il fondatore della medicina. Approcci terapeutici ne esistevano già molti all’epoca, così come medici, ma a Ippocrate si deve certamente il merito di aver reso la professione della cura qualcosa di più scientifico e di più umano in un colpo solo. Innanzitutto, grazie all’utilizzo sistematico della scrittura, le conoscenze di Ippocrate e dei suoi allievi sono conservate nel Corpus Hippocraticum, un cospicuo trattato su diversi temi di medicina redatto probabilmente da diversi autori. Possiamo così sapere che fu allora che si iniziò ad annotare tutti i sintomi riportati dai malati, intervistati (ecco l’anamnesi) per poter creare dei database su cui confrontare le conoscenze. La raccolta dati mediante osservazione è alla base del metodo scientifico, messo a punto molti secoli dopo da Galileo. Allo stesso tempo, Ippocrate rivolgeva le sue attenzioni a tutti i bisognosi, indipendentemente dalle loro condizioni economiche o politiche (come non pensare a Gino Strada, recentemente scomparso, e alla sua inestimabile opera di carità medica). Soprattutto, l’approccio ippocratico fu rivoluzionario perché mise in discussione tutte le superstizioni che inquinavano un approccio terapeutico razionale condannando molti malati a purgare le proprie malattie mediante pratiche insensate, spesso nocive e dolorose. Ippocrate predicava di avvalersi della ragione perché le malattie non erano punizioni divine, ma rotture di equilibri nelle dinamiche naturali dei corpi. La ricerca delle cause poteva aiutare a ristabilire certi equilibri, in continua negoziazione con la natura, che molto dà, ma che poi tutto si riprende. 

La sua intuizione più celebre riguarda la natura dell’epilessia, nota allora come morbo sacro, proprio perché era vista, data la sua forma, come una manifestazione di possessione malevola e punitiva. Ippocrate, pur in assenza di prove anatomiche, ha invece intuito il coinvolgimento del cervello nello scatenamento di tali fenomeni. 

Ippocrate ha sì esercitato l’arte medica in modo innovativo, ma pur sempre nei limiti della sua cultura e del suo tempo. Per quanto riguarda la questione della cura al femminile, data la visione maschilista del tempo, Ippocrate ha consegnato alla medicina una pesante eredità anche per i secoli a venire. La visione delle femmine come esseri deficitariamente razionali ed esclusivamente votati alla riproduzione ha fatto sì che tutti i loro disturbi fossero catalogati come conseguenza dell’organo che dava loro ragione di esistere: l’utero, in greco hystera, da cui il termine isteria con cui, appunto, si è spesso proceduto a etichettare svariate manifestazioni sintomatiche nelle donne. 

Fino a noi è arrivato anche il giuramento di Ippocrate, con cui i medici hanno giurato sul loro codice deontologico, anche se oggi non è più d’obbligo la recitazione delle parole testuali, che trovano alcune difficoltà con questioni ardue del nostro tempo, in particolare in merito alla possibilità di interrompere la vita, che si tratti di aborti o malati terminali.

Ma torniamo all’Asklepieion di Kos, il luogo dove persone malate si recavano in cerca di cure e conforto. Questo luogo, edificato tra il IV e II secolo a.C., nacque prima come altare, perché rifiutare la superstizione non significava trascurare la preghiera, nel rispetto delle divinità e nella consapevolezza che devozione e raccoglimento potevano solo giovare ai malati. Successivamente fu costruito anche un imponente tempio dedicato ad Asclepio, il semidio per eccellenza della medicina, abile guaritore che scelse di dedicarsi alla cura dei mortali. Il tempio svettava in cima al promontorio, sotto c’era la parte dedicata all’ospedale, dove i malati venivano visitati, con le stanze di degenza e i luoghi in cui gli studenti venivano addestrati all’arte medica. Successivamente, i Romani vi costruirono anche le terme. 

Sostanzialmente, questo luogo contiene la miscela di complessità che la medicina ippocratica era riuscita a immaginare per la cura. Un luogo dove i malati venivano ascoltati, visitati, curati, cullati da un magnifico panorama verso il mare azzurro e la vicina costa (oggi Turchia), confortati da un magnificente luogo di devozione, rassicurati da una moltitudine di medici che erigevano assieme le basi di un sapere sempre più forte. 

 

Pamela Boldrin

 

[immagine dell’autrice]

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Squid Game, la spietatezza e la morale

Chi non ne ha ancora sentito parlare? Squid Game, serie sud coreana vietata ai minori di 14 anni in onda su Netflix, sta portando un po’ di scompiglio ovunque. Infatti, le notizie di bambini che replicano durante i loro giochi scene provenienti dalla serie in questione, si stanno facendo sentire in vari luoghi del mondo. Dalla California al Belgio, da Londra a Parigi. Ne parlano svariate fonti di notizie, dal Guardian al Le Point. Insomma, ci sono tutti gli elementi per fantasticare su una nuova serie distopica: bambini di tutto il mondo abbandonati davanti agli schermi si allenano a diventare dei potenziali violenti pronti a sconvolgere gli adulti. Adulti troppo indaffarati per controllare cosa guardano i propri figli sui dispositivi tecnologici. Ecco il vero allarme.

La serie ha avuto un successo strepitoso, battendo il record di visualizzazioni di Netflix. Non porta nulla di totalmente originale: scenari distopici, violenza gratuita, apparenza giocosa in contrasto con il contenuto, disagio sociale ed economico, approfondimento dei personaggi e del loro mondo. La combinazione di questi elementi, tuttavia, ha creato un prodotto che è piaciuto immediatamente, il cui successo ha creato quella bolla di notorietà per la quale molte altre persone si sono messe a guardare la serie. Cosa si trova in questa storia? In realtà si possono fare delle considerazioni interessanti. Oltre alla denuncia della situazione sociale della Corea del Sud, dove l’indebitamento ha accentuato il divario sociale tra ricchi e poveri, c’è altro di interessante, se valutato da un pubblico adulto. Il fatto, ad esempio, che quasi tutti i personaggi, una volta capita la pericolosità del gioco, siano disposti a giocare perché la loro vita non ha di meglio da offrire. Non per tutti e non in ogni circostanza la vita è un valore assoluto.

Altro elemento degno di nota in Squid Game è il fatto che, il manager iper-istruito tanto quanto il criminale navigato, di fronte ai giochi diventano uguali. Indossano una tuta con un numero progressivo, che ricorda molto le procedure naziste di registrazione dei prigionieri. Omologazione, ma anche depersonalizzazione: a nessuno interessa più il tuo nome o chi sei veramente. Prigionieri volontari insomma, il che appare un ossimoro, peggio della servitù volontaria di Etienne de La Boetie1.

Ancora, interessante è il fatto che, una volta omologati, i giocatori-prigionieri possono differenziarsi mettendo in luce la loro vera natura morale, quella che la sociologia e la filosofia discutono da secoli. Siamo esseri più votati a costruire legami sociali o a ingaggiarci in relazioni competitive? Soci o rivali? Un quesito che ci eravamo già posti in questo articolo. La storia si dispiega allora mostrandoci le diverse scelte dei protagonisti, la loro libertà di scegliere il comportamento secondo i loro valori e anche le conseguenze. Il punto più toccante raggiunto in Squid Game è quando durante una sfida a due, dove uno vince e l’altro muore, due donne scelgono di dedicare il tempo a disposizione al conoscersi, al raccontarsi le loro drammatiche storie e solo nell’ultimo minuto decidere chi sopravvivrà, regalando alla sfida una tonalità morale inattesa, diversamente da tutti gli altri giocatori. Senza rivelare il finale, anche chi vince porta con sé un messaggio morale di un certo tipo. Il gioco è spietato al punto che giungere alla fine, passando sopra a centinaia di cadaveri, arriva persino a perdere senso, per gli ultimissimi giocatori in gara. E nella sfida finale ancora una volta si scopre che è in gioco l’eterna contrapposizione: alleati o nemici? È evidente che chi vince i soldi perde tutto il resto, perché sopravvivere a questo gioco significa accettare di aver messo il denaro al di sopra delle vite di tutti i giocatori e le giocatrici, compreso chi era stato alleato/a durante le dinamiche di rivalità tali da tentare di farsi fuori alla prima occasione (anche fuori dal gioco). Chi controlla il gioco e perché lo fa viene in parte svelato alla fine, ma rimangono ancora degli interrogativi, che aprono la strada alla seconda serie.

Tutte queste considerazioni mettono in discussione la morale umana anche in una storia dove la violenza e la spietatezza del gioco sono le prime caratteristiche che spiccano, e forse le uniche che possono cogliere gli spettatori più piccoli che, purtroppo, non vengono protetti da questi contenuti. È dimostrato che nelle menti ancora in formazione l’esposizione a contenuti violenti è dannosa, sia perché predispone a replicare la violenza, sia perché crea ansia.

A noi adulti, invece, la spietatezza del gioco di Squid Game (che tra l’altro si svolge su uno scenario colorato e giocoso che crea un contrasto immenso tra forma e contenuto) ricorda che il male può prendere forme impreviste, ingannarci con la sua parvenza, ma celare sotto le sue sembianze la crudeltà e disumanità di altri esseri umani, pronti a giocare e fare spettacolo con le vite di chi è caduto in miseria ed è disponibile a tutto.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. Il discorso sulla servitù volontaria (1576) è l’opera più famosa di La Boetie, filosofo cinquecentesco amico di Montagne. Analizza le condizioni mentali che portano le persone a cedere le loro libertà ai tiranni, che per numero sono sempre molto inferiori alla massa.

[In copertina un fermo immagine dalla serie tv]

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Fenomeni estatici, sciamanesimo e riti collettivi. Intervista a Paolo Pecere

<p>Pecere Paolo, filosofo, occhiali © 2021 Giliola CHISTE</p>

Paolo Pecere è ricercatore e docente universitario presso Università Roma Tre, autore di saggi e romanzi, insegna storia della filosofia. Il suo ultimo libro è Il dio che danza, edito da Nottetempo nel 2021. Lo abbiamo intervistato per esplorare un mondo che sta mutando rapidamente, quello dei fenomeni collettivi legati a ritualità molto antiche; i motivi che tenevano questi fenomeni vivi e il loro potere terapeutico nonché aggregante.

 

Pamela Boldrin Il suo ultimo libro è un articolato racconto di diversi viaggi, in diversi anni, con un approccio antropologico di ricerca che si confronta con altri autori del passato mentre si immerge in alcune pratiche culturali tipiche delle diverse popolazioni che visita e che racconta, da un capo all’altro del mondo. Tra i fenomeni più interessanti emerge la trance da possessione, indotta grazie a cornici rituali peculiari, ben guarnite da musiche e danze. Si tratta di rituali collettivi con molteplici scopi e caratteristiche, che vedremo emergere nel corso dell’intervista. Quali sono i presupposti che le hanno ispirato questo lavoro?

Paolo Pecere – Molti anni fa, da studente, lessi un libro magnifico, La terra del rimorso di Ernesto de Martino. Ci trovai la prova che stati di trance, danze e riti di origine popolare e pagana erano esistiti in Puglia fino a qualche decennio prima, dove aiutavano i contadini a superare momenti critici e donavano momenti di liberazione, sfogo, esplorazione delle proprie parti oscure. La cosa mi colpì molto – anche perché in Puglia, dove avevo i nonni, trascorrevo ogni estate – e iniziai a domandarmi cosa restasse nel mondo di oggi di quelle pratiche scomparse che rispondevano a bisogni ancora vivi. Due anni fa mi sono reso conto che avevo fatto molti viaggi e studi cercando di rispondere a questa domanda, e ho avuto l’idea di scrivere il libro.

 

Pamela Boldrin – Definiamo alcuni elementi cruciali nelle esplorazioni del libro. Che cos’è la trance da possessione? Quali sono i suoi poteri sulla psiche umana?

Paolo Pecere – La trance da possessione si definisce come uno stato alterato della coscienza, in cui viene modificata transitoriamente la stessa identità dell’individuo, e che è considerata il risultato di un essere estraneo che anima il corpo del posseduto. Si tratta di una pratica ritualizzata in moltissime culture del mondo, che era comune anche nell’Antica Grecia. Il raggiungimento di un simile stato può condurre a un’agitazione terapeutica, alla disinibizione di comportamenti anomali o proibiti, i cui moventi sono spesso inconsci, a visioni e ispirazioni poetiche, in genere, quindi, corrisponde a una esplorazione di sé subliminale e drammatizzata. Tuttavia, nell’Italia di oggi si tratta di qualcosa di estraneo. Il cristianesimo concepisce la possessione come orribile invasione demoniaca, un’aberrazione patologica, escludendone il lato attivo e positivo che in culture come quelle indiane o amazzoniche è comune. Solo in cornici eccezionali, come alcune performance artistiche o feste clandestine, si è visto e teorizzato qualcosa di simile negli ultimi decenni.

 

Pamela Boldrin – In questo mondo di fenomeni che potrebbero suonare a noi distanti per tempi e cultura abbiamo un magnifico esempio in Italia: il tarantismo in Puglia. Chi erano le tarantate e i tarantati?

Paolo Pecere – Il tarantismo pugliese riguardava persone di origine umile, solitamente braccianti, che ogni anno accusavano un profondo e prostrante malessere, dichiarando di essere stati punti da un ragno, e venivano curati con un rituale di musica in cui si agitavano e danzavano. Questa condizione di marginalità era essenziale, poiché si trattava di una tradizione che rispondeva a condizioni di malessere vario, dalla durezza della vita dei campi a lutti e malattie non curate, oltre a matrimoni infelici e altre forme di oppressione che più spesso riguardavano le donne. Si trattava di situazioni tipiche di membri di classi subalterne. Bisogna ricordare che il tarantismo è stato diffuso anche al di fuori della Puglia, altrove in Italia e nel Mediterraneo. Esistono del resto pratiche simili in culture africane e nel mondo islamico, il che indica verosimilmente un passato di contatti culturali tra popoli.

 

Pamela Boldrin – Nelle prime pagine del libro compare una figura cardine che poi si ripresenterà nuovamente, un dio dai mille volti, incline alla possessione e alla connessione, capace di turbare e sconvolgere, fino alla temporanea perdita di sé: Dioniso. Chi era e da dove era giunto in Grecia?

Paolo Pecere – Dioniso era percepito dai Greci come un dio straniero, le cui origini leggendarie sarebbero risalite all’Asia (Alessandro Magno, come racconto nel libro, credette di ritrovarne le tracce in India, nell’attuale territorio pakistano). Si trattava di un dio dai vari attributi, variabili a seconda delle regioni e delle epoche, che Euripide cercò di riassumere nella sua tragedia Le Baccanti, ma che rimase presente fino alla Roma imperiale: inventore del vino, donatore di ebrezza e invasamento tra baccanti, un dio che “scioglie”, che “libera”, che fa danzare, e che nella Grecia classica fu anche legato all’origine del teatro. Era anche una manifestazione della natura selvaggia, in quanto tale anche minaccioso e sconvolgente, spesso dotato di parvenze di animali come il toro. Per lungo tempo si è ritenuto che il culto provenisse dalla Tracia, più di recente se ne sono trovate tracce nella civiltà minoica, dove pure esistevano fenomeni di possessione divina.

 

Pamela Boldrin – La figura di Dioniso è rilevante perché racconta un pezzo della storia dell’Occidente nel momento in cui il seme della sua ascesa si interrava nelle fertili congiunture dei popoli mediterranei che hanno dato inizio alla nostra storia e forgiato la nostra società, diversa da quella di altri popoli. Come si colloca il mondo del dionisiaco nella società greca, nella filosofia, con la sua nascita e con la nostra cultura?

Paolo Pecere – Il dionisiaco era al tempo stesso accettato e inquietante. L’arrivo del dio nella città, “l’epidemia”, era percepito come uno sconvolgimento della norma, e Euripide infatti presenta un conflitto profondo tra le istanze di Dioniso e quelle del re Penteo. Ancora nella Roma repubblicana i baccanali erano occasione di raduno e scatenamento di una comunità spesso marginale, come attesta Tito Livio a proposito del divieto dei baccanali promulgato dal Senato di Roma nel II secolo a.C. Non si trattava quindi al tempo stesso di una sfida ai costumi, realizzata dalla liberazione del corpo e dalla componente erotica del dionisiaco, e di una sfida politica, in cui si reclamava un benessere diffuso. Nietzsche riscoprì e esaltò l’importanza del dionisiaco in un mondo moderno borghese, interpretandolo alla luce della filosofia di Schopenhauer, come momento di “annientamento” dell’io e fusione gioiosa con un’energia primigenia. Questa lettura non coglieva alcuni aspetti empirici delle trance da possessione, in cui l’io non scompare del tutto ma si trasforma e porta alla luce contenuti oscuri. Giorgio Colli, in Italia, rilanciò l’idea del dionisiaco come sapienza arcaica, prefilosofica. Si trattava di ipotesi azzardate e non pienamente documentate. Ma è vero che la religione dionisiaca ha un valore anche dal punto di vista filosofico, come mostra ancora un episodio delle Baccanti di Euripide, quando il dio dice al re: «Tu non sai cos’è la tua vita, non sai chi sei e cosa fai». Domande del tipo di quelle che anche Socrate poneva agli Ateniesi in quegli anni.

 

Pamela Boldrin – I fenomeni di trance avvengono sempre in una cornice rituale o festosa collettiva e possiedono un potere che noi stentiamo a capire, forse ci siamo rinchiusi in una dimensione razionale-scientifica che tende a essere scettica e “boriosa” verso tutto ciò che appare sfuggente e irrazionale. Al limite, adottiamo gli approcci cataloganti delle categorie psichiatriche. Potrebbe definire meglio il nostro limite di comprensione di fronte a questi fenomeni che si sono a lungo diffusi in tutte le culture e manifestati con alcuni eloquenti elementi costanti nonostante le differenze?

Paolo Pecere – La psichiatria, nel DSM, riconosce la trance da possessione anche nel suo aspetto culturalmente codificato. Proprio per questo, tuttavia, riconosce l’esigenza di un allargamento della prospettiva rispetto al campo psichiatrico e medico ordinario, come hanno sottolineato molti etnopsichiatri. Non credo che i nostri limiti di comprensione dipendano tanto da un prevalere della razionalità scientifica, che non sembra godere di buona salute nella nostra società, quanto dall’assenza di istituti culturali paragonabili a quelli antichi e a quelli esistenti in altre culture. D’altra parte domina una concezione della persona come entità unitaria e responsabile, e pesa ancora la prospettiva cristiana per cui la possessione è aberrante. Il problema sta nel ricomprendere questi fenomeni e i bisogni ancora vivi che li producevano, e che tendono a ripristinare in altre forme, non ritualizzate, una mentalità magica. De Martino lo aveva capito bene, la sua ricerca era mossa da questo interrogativo, che io ho ripreso.

 

Pamela Boldrin – A questo punto possiamo introdurre una figura potente di alcuni fenomeni estatici: lo sciamano. Chi era? Verso la fine del libro lei ne accenna anche una versione moderna, urbana. Ci racconti un po’ dello sciamanismo nel suo sviluppo temporale.

Paolo Pecere – Lo sciamanismo era originariamente tipico della cultura siberiana – da cui proviene la parola – ma a partire dal ‘700 la categoria è stata diffusa dagli Europei e applicata a contesti di tutto il mondo. Si tratta di un personaggio che controlla il proprio accesso agli stati di trance, diversamente dai posseduti, e che pertanto ha una funzione di guida in processi di conoscenza, regolazione della vita quotidiana, cura e così via. Ancora oggi gli sciamani, per esempio in Amazzonia dove sono andato a cercarli, sono portatori di valori fondamentali di intere civiltà, come il rispetto di un limite in quanto gli umani possono togliere alla natura per il proprio nutrimento e benessere. Tuttavia, come ogni tradizione, anche lo sciamanismo si trasforma, e lo fa un modo profondo nel contatto con i modelli della nostra moderna civiltà. Lo sciamano che va in città è sradicato dal suo contesto di origine e trova bisogni e condizioni del tutto nuove in chi si rivolge a lui. Ritorna, con buone ragioni, un sospetto che fin dall’inizio ha accompagnato l’incontro con questa figura, cioè che alcuni sciamani siano ciarlatani. Nella società di massa lo sciamano può essere un manipolatore, un presunto visionario che in realtà è mosso da interessi mondani, o una personalità morbosa. In ogni caso, il ritorno incondizionato a miti e riti arcaici, non mediato da un atteggiamento critico, può essere deleterio invece che benefico, come aveva intuito, di nuovo, de Martino, quando parlava di Hitler come “atroce sciamano”. Questa ambivalenza è molto importante per me: bisogna ripensare l’importanza e il valore dello sciamanismo, sapendone vedere in filigrana il rischio, aprire il nostro orizzonte culturale senza abdicare alla razionalità.

 

Pamela Boldrin – La nostra idea attuale di integrità, unicità della persona, la sua identità che non tollera di essere un composto dinamico di differenze (pensiamo alla solidità del principio di non contraddizione) ci rende incapaci di elaborare la sofferenza quando ad animarci sono istanze di frammentarietà, conflitto, scomposizione? Questi spiriti che un tempo animavano le menti umane dando voce a un certo pluralismo, e di cui i suoi racconti ci illustrano la portata e la diffusione, dove sono finiti?

Paolo Pecere – Come racconto nel libro, in molte culture la molteplicità e spesso l’interna scissione della psiche individuale sono considerate comuni. L’identità non è un profilo rigido, ma il risultato di una continua negoziazione tra istanze diverse, associate a dei, spiriti, antenati, al corpo, e così via. Si può dire che, in certa misura, questo scenario è stato tradotto e introiettato nella psicologia moderna, dove si parla di personalità multiple, istinti, istanze della psiche (nella tripartizione freudiana di Io, Es e Superio), archetipi e modelli dell’io. Questo per un verso esclude che l’io sia diviso da vere e proprie persone eterogenee, come gli spiriti dei morti, riportando conflitti e alternative a una dinamica interna all’individuo. Tuttavia questa trascrizione cancella la dimensione rituale, corporea, drammatizzata delle crisi e delle danze di possessione, modificando profondamente l’orizzonte terapeutico e non solo della nostra consapevolezza.

 

Pamela Boldrin – Abbiamo, secondo lei, perso irrimediabilmente la conoscenza del fatto che c’è una quota di lavoro su noi stessi che possiamo fare solo mediante operazioni collettive? E che per questo lavoro servono delle “cornici rituali e comunitarie” che abbiamo trascurato?

Paolo Pecere – Penso che il nostro linguaggio psicologico mette in ombra la dimensione sociale dei conflitti, agita e teatralizzata nei rituali di possessione, cancellando il fatto che l’individuo include realmente come parti di sé ruoli, comportamenti e voci che ha ricevuto dall’esterno. Questo rispecchia in generale una rappresentazione della società in cui l’appartenenza a gruppi, classi e alla collettività in genere è di solito sfumata o negata, in nome di un linguaggio individualista. Questo non vuol dire le “cornici rituali e comunitarie” siano del tutto sparite – dall’arte alla religione, dalla società alla politica – né soprattutto che non si debba cercare di ripensarle e rivitalizzarle. Bisogna però rendersi conto prima di tutto di appartenere inseparabilmente a una comunità, e ancora di più, a un ecosistema. Allo stesso tempo, nella ricostruzione o nella invenzione di cornici rituali e comunitarie, non si deve gettare via un bene irrinunciabile che è stato prodotto dalla cultura moderna, cioè la capacità critica e razionale.

 

Pamela Boldrin – Le pulsioni irrazionali si condensano in energia oscura che preme dentro di noi e alimenta potenziali deflagrazioni, ma possiamo dare loro voce nel tentativo di non sconfinare in zone ombrose della psiche da cui è difficile fare ritorno. Il digiuno di collettività e possibilità di condivisione si è certamente acuito nell’ultimo anno e mezzo per tutti noi e quell’energia oscura prima menzionata potrebbe essersi ingrossata. Secondo lei, può un approccio filosofico capace di mediare tra razionalità e irrazionalità essere fonte di ispirazione per imparare nuove strade di terapeutica condivisione umana?

Paolo Pecere – Lo spero. Non a caso ho scritto il libro nel primo anno della pandemia. Mi pare necessario confrontarsi con un diffuso bisogno di rinnovamento culturale (e anche filosofico), che rispecchia un dato di fatto: il mondo in cui siamo vissuti per decenni è ecologicamente insostenibile e iniquo, e ci avviamo a un nuovo disordine globale. Di fronte a questo bisogno di rinnovamento, la filosofia ha proprio il compito di mediare tra razionalità e irrazionalità, tra universalismo e bisogni dell’individuo concreto, un compito per il quale non bastano vecchi paradigmi filosofico-politici, c’è bisogno di ampliare la propria conoscenza (anche scientifica e antropologica) e i propri orizzonti. Considero il mio libro un piccolo passo in questa direzione, e continuo a lavorare in tal senso con nuovi progetti.

 

Pamela Boldrin

 

[Ritratto fornito da Paolo Pecere]

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Filosofia del mangiare: consumare consapevolmente

Abbiamo veramente bisogno di fare filosofia anche sul cibo e sul mangiare?
Proviamo a iniziare da questa affermazione:

«La nostra cultura è arrivata a un punto in cui ogni antica forma di saggezza riguardo al modo di nutrirsi sembra svanita, rimpiazzata da incertezze e ansie di vario genere. La più naturale delle attività umane, scegliere cosa mangiare, è diventata in qualche modo un’impresa che richiede un notevole aiuto da parte degli esperti» (M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, 2008).

Pare che nutrirsi sia diventata una questione di cultura personale, vediamo se vale la pena fare anche della filosofia.
Gran parte di quanto finisce nel piatto subisce un percorso di cui sappiamo poco. Grazie a questa ignoranza, la lunga catena di produzione alimentare gode di una certa opacità, limitata soltanto dalle leggi in vigore. E l’etica? I consumatori desiderano conoscere l’impatto di ciò che mangiano sulla propria salute, sull’ambiente e sulle stesse materie prime? Mediamente, le etichette che i consumatori più desiderano conoscere sono quelle del prezzo. La diffusione dei negozi bio è certamente segnale di una aumentata attenzione verso qualità ed eticità dei prodotti, ma rimane il fatto che qualunque mercato a grande distribuzione richiede dei compromessi. L’alternativa alla grande distribuzione è la piccola distribuzione, dal produttore direttamente al consumatore, laddove l’occhio di chi acquista ha più accesso alla storia produttiva della merce. Tuttavia, anche il piccolo produttore potrebbe non essere così attento a un approccio ecosostenibile. 

La differenza, allora, può farla solo un consumatore saggio, che voglia sapere il vero prezzo da pagare di ciò che mangia: quello sull’intero ecosistema. Sostanzialmente, mangiare bene è questione di riguardo della complessità. È affinare non soltanto il palato, ma anche la mente, verso i requisiti necessari a gustare buon cibo con la coscienza pulita.
Ci sono molte cose da conoscere, è vero, ma niente di difficile comprensione. A parte la (grande) questione del vegetarianismo, veganismo o dieta onnivora, dobbiamo realizzare che ogni cibo ha un costo per il pianeta e a mangiare siamo sempre di più.

Partiamo dall’agricoltura, ad esempio. Per produrre grandi quantità di cereali si ricorre alle monoculture, ignorando che in natura la ricetta vincente è la diversità (quindi complessità), unica fonte di ricchezza. I terreni sfruttati dalle monoculture possono iper-produrre solo con l’aiuto dell’industria: quella petrolchimica fornisce fertilizzanti e pesticidi necessari a sostenere piante che sono state deprivate delle loro relazioni ambientali di mutuo sostegno (incredibile, anche le erbacce servono!). L’industria meccanica, invece, prepara strumenti sempre più efficienti per accelerare le operazioni nei grandi campi (altro petrolio): bastano pochi umani e tanto spazio, per cui via la vegetazione inutile e relativi abitanti animali. A ben vedere, a queste condizioni, agricoltura non fa più rima con natura.

La questione degli allevamenti solleva ulteriori problemi. Gli animali negli allevamenti intensivi devono ingrassare velocemente perché la produzione sia competitiva. Scopriamo che gli erbivori si “possono convertire” ai cereali e infatti nel mangime c’è molto mais; non importa se i loro apparati digerenti faticano e si ammalano, per questo c’è l’industria farmaceutica. Se non occorre brucare l’erba, si risparmia anche sui pascoli, quindi lo spazio si restringe e diventa affollato. La seccatura sono le malattie infettive, ma ancora una volta la farmacologia aiuta. Con tutte queste variazioni gli escrementi non sono più valido concime ma scorie inquinanti.

Il mais, tra l’altro, è il primo cereale coltivato al mondo. Oltre alla sua magnifica adattabilità, che significa alta resa, è anche estremamente versatile nell’industria alimentare perché non solo si mangia come mais in scatola, pop corn o nei cereali soffiati, ma si trasforma anche in: acido citrico e lattico, glucosio, fruttosio, maltodestrine, etanolo, sorbitolo, mannitolo, gomma xantana, amidi modificati e non, destrine, ciclodestrine e glutammato monosodico. Praticamente, se leggiamo gli ingredienti di molti prodotti confezionati realizziamo che mangiamo parecchio mais! Considerate le colpe delle grandi monoculture, è utile saperlo. Tra l’altro, gli additivi servono a migliorare e conservare un cibo che deve durare a lungo, se assembliamo noi elementi freschi non ne occorrono.

Che sia agricoltura o allevamento, se il metodo è intensivo significa che il prodotto è stato creato riducendo la complessità della natura, modificando nella materia prima delle necessità fisiologiche allo scopo di aumentare la sua resa quantitativa a scapito di quella qualitativa (meno visibile). L’aumento produttivo consente la diminuzione del prezzo.
La domanda filosofica è: il consumatore, in primis quello che si accontenta di spendere poco, è interessato a conoscere ciò che sta dietro il cibo che compra? La risposta ha a che fare con la conoscenza e con la complessità, dunque, sì, mangiare è una questione filosofica.

Dobbiamo diventare consumatori più filosofici: facciamoci domande e, magari, lasciamo sugli scaffali del supermercato qualche prodotto che non ci convince più. Quest’ultimo fatto potrebbe essere cruciale.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit Dan Gold via Unsplash]

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Filosofia, pensiero critico e verità. Una disciplina antica per uno sguardo sempre attuale

La filosofia in Francia è considerata una materia fondamentale, al pari del francese o della matematica, e viene insegnata in tutti i licei (più o meno come in Italia). La novità è che, sempre in Francia, a breve potranno aderire a un progetto di inserimento esteso della filosofia anche gli istituti professionali. La motivazione? Per chi nutre stima e passione per la filosofia non sarebbe nemmeno necessario dare una spiegazione, ma la riposta di Fréderic Le Plaine è eloquente. In qualità di presidente dell’associazione di promozione dell’insegnamento della filosofia Acireph ha dichiarato su Le Monde: «Tenere gli alunni dei professionali a distanza da una disciplina come questa, che ha in sé una vocazione universalista ed emancipatrice, è ingiustificabile. A meno che non li si consideri meno capaci degli altri»1.

La filosofia è dunque un sapere che abilita gli esseri umani a pensare in modo razionale, fornendo strumenti per provare a pilotare le proprie esistenze, piuttosto che subirle. A molti può suonare incomprensibile il fatto che la filosofia abbia questo potere, infatti molto dipende anche da come viene insegnata. La storia della filosofia, come di solito si configura questa materia nei licei, può essere un trampolino di lancio verso un vasto mondo di conoscenza oppure, se insegnata senza passione, una mera sequela di “chi ha detto cosa quanti anni fa”. In ogni caso, rimane pur sempre una possibilità di aprire un sentiero verso la forma di sapere più dignitosa, come la definiva Aristotele2, in virtù del fatto di non servire a niente. E qui il gioco di parole è illuminante, perché Aristotele ci dice che non serve a niente perché la filosofia non è serva di nessuno, semmai regina e quindi siamo noi a doverla servire. Il primo servizio che dovremmo tributarle è quello di tramandarla e quindi non allontanarla dal mondo dell’istruzione. I filosofi greci hanno fondato questa disciplina come territorio della ragione contro altre forme di sapere, in primis l’opinione, che ancora oggi ci tormenta come falso simulacro della verità. Quanti ancora di noi oggi hanno problemi a distinguere le opinioni dai dati oggettivi?

La realtà in cui viviamo si è fatta estremamente complicata perché già viviamo da sempre immersi in un sistema di reti intrecciate la cui portata non siamo in grado di cogliere fino in fondo, ma a questo intreccio abbiamo aggiunto complessità noi stessi, con le nostre pratiche. Il mondo dell’informazione e della comunicazione sono ormai, per quanto artificiali, altamente complessi, perché numerosissimi individui possono perturbare il sistema globale dell’informazione. Questo diventa chiaro se pensiamo il potere che le tecnologie digitali consegnano a ciascuno in termini di comunicazione. Si tratta di un potere che può essere speso bene, per creare reti di cooperazione basate su fiducia, onestà e ricerca della verità. Tuttavia, questo potere oggi è troppo spesso usato con conseguenze nefaste. Un uso sbagliato della comunicazione confonde opinioni con fatti di verità, mescola scienza con giudizi personali, diffonde idee che allontanano dalla ricerca delle vere cause degli accadimenti. È pericoloso non avere idea di come funziona la ragione che prova a farsi strada nell’intricata rete della vita depurando la verità dalle menzogne, oggi note anche come fake news.

La filosofia insegna a discriminare le forme della conoscenza, perché non tutto può accedere al soglio della verità. Laddove la conoscenza si fa oggettiva, fattuale o empirica sappiamo che la scienza possiede preziosi strumenti per svelare la verità. È importante anche sapere dove questa disciplina si ferma per lasciare spazio ad altre forme di conoscenza. La scienza procede con un metodo rigoroso; tutti, in teoria, potremmo darle un contributo se accettiamo il suo metodo e le sue regole, che prevedono anche che la verità dei suoi contenuti possa non essere definitiva, infatti la scienza è un sapere dinamico. Potremmo dire che la scienza, in qualche modo, ha implicitamente fatto proprio il motto socratico “so di non sapere” proprio mettendo in conto che qualcosa di ignoto potrebbe emergere in futuro e smentire una teoria. Questa è una grande verità, perché la nostra capacità umana sarà, sì, sempre limitata di fronte alla potenza dell’universo, ma anche potentemente migliorabile. L’idea insita di progresso in questa possibilità di rivedere i contenuti di verità alla luce di nuove scoperte è un invito che dovrebbe condizionare tutti noi nei confronti del nostro approccio al sapere. Questa non è un’esaltazione del relativismo assoluto, ma un’esortazione al pensiero critico, che valuta continuamente di chi fidarsi. La filosofia può ancora fare molto in questo senso e insegnarla può essere una questione di giustizia, proprio come sostiene Fréderic Le Plaine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. Versione online del 2 marzo 2021.

2. cfr. Aristotele, Metafisica.

[Photo credit Michael Carruth via Unsplash]

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