Territorio e paesaggio. Uno sguardo filosofico per una geografia profonda

Che differenza c’è tra territorio e paesaggio? Chiederci come scegliamo di usare un termine piuttosto che l’altro può spingerci a fare interessanti considerazioni sul nostro rapporto con l’ambiente e sulle sottese visioni filosofiche. 

Il significato di territorio ha a che fare con spazi racchiusi in confini, delimitazioni, suddivisione in porzioni; inoltre, il concetto include sempre anche varie operazioni di calcolo: grandezza, produttività, proprietà, redditività. In genere il territorio appartiene a uno o più proprietari e si presta a un certo tipo di sfruttamento.
Il termine paesaggio, invece, richiama in noi un’idea un po’ diversa, innanzitutto connotata esteticamente: è di solito qualcosa di bello da ammirare e questa bellezza si fa garante della sua richiesta di salvaguardia. Un paesaggio è un insieme di elementi naturali e, volendo, anche antropici, che hanno trovato una loro coesistenza armonica e la cui visione si traduce in una fruizione preziosa per gli sguardi umani che lo possono contemplare. Questa armonia si ammira, se ne fruisce attenti a non esaurirla, a non fare dell’utilizzo un consumo, perché il consumo, appunto, consuma, e non rimane granché per chi arriva dopo. La fruizione, diversamente, è un concetto che sottende un approccio meno consumistico e più slegato dalla materia. 

Nei discorsi di politica ed economia la parola territorio risuona insistentemente, molto più di rado si sente parlare di paesaggio. È difficile giustificare lo sfruttamento del paesaggio, sappiamo che la nostra bramosia manipolativa è pericolosa e difficilmente lascia intatto quello su cui mette le grinfie; esso ha bisogno di noi solo come garanti della sua incolumità. Laddove l’urbanizzazione è intensa, però, è difficile trovare paesaggi a cui affezionarsi e per i quali fremere in mozioni di difesa. Il territorio, caratterizzato dalle sue manifestazioni di intensa antropizzazione, si configura come un manto coprente dell’originale geografia dei nostri luoghi di vita. Chi ricorda come erano gli scorci di bellezza nei luoghi del proprio passato, se ha fatto in tempo a conoscerli, quando in quel preciso luogo fisico, conservato oramai solo nella propria memoria, l’intervento urbanizzante non oscurava ancora definitivamente il paesaggio?

Siamo sempre meno propensi a focalizzarci sui significati dei cambiamenti dei nostri luoghi. Il paesaggio ha bisogno di essere guardato e vissuto con sguardo profondo, per sedimentarsi della nostra memoria, affinché noi capiamo la nostra terra in un senso non superficiale, non cancellabile da un momento all’altro. Ma la conoscenza profonda del proprio ambiente richiede tempo e saggezza, mentre l’antropizzazione è veloce, ci promette benessere, ci garantisce di tutto e di più prendendolo da ogni angolo del pianeta. Ad esempio, non ho più bisogno di conoscere la mia terra per sapere come trarre da lei i frutti per il mio sostentamento, capire come adattare i miei bisogni ai cambiamenti stagionali, cogliere lo stato di salute dei suoli, quello delle creature che la abitano, se tanto posso interamente demandare ai processi industriali l’approvvigionamento di cibo. Posso scegliere di non capire niente di tutto ciò e continuare comunque a nutrirmi. Infatti, nella totale distrazione della routine urbana, trascuriamo i mutamenti della geografia dei nostri luoghi e poi accade che, come scrive Barry Lopez: «Se una società si dimentica o non si preoccupa più di dove vive, chiunque abbia il potere politico e la voglia di farlo potrà manipolare il paesaggio per conformarlo a determinati ideali sociali o visioni nostalgiche»; e ancora: «Più una società ha una conoscenza superficiale delle reali dimensioni della terra che occupa, più quella terra sarà vulnerabile allo sfruttamento e alla manipolazione per il guadagno a breve termine» (B. Lopez, Una geografia profonda, 2018). Il problema è che la conoscenza profonda, fatta in prima persona, quella in cui si incorpora il paesaggio in una geografia personale consolidata, richiede tanto tempo e attenzione, risorse di cui siamo sempre più carenti.

Si tratta di un processo di costruzione dei propri luoghi che incalzava anche il filosofo norvegese Arne Næss, con la sua ecosofia, consapevole che l’urbanizzazione, la dipendenza da beni e tecnologie che arrivano da luoghi che non ci appartengono, nonché l’aumento della complicazione strutturale della vita, sono tutti fattori che indeboliscono l’appartenenza a un luogo. 

L’invito, allora, è quello di trovare i nostri paesaggi, esercitarci a creare con essi connessioni intime, costruire una geografia, che è la scienza dei luoghi della terra e delle loro caratteristiche di interrelazione, che sia personale e profonda. Una conoscenza che si connota di una versione fotografica interiore e di tipo estetico del nostro paesaggio, che sia punto di riferimento capace di trasformarsi in campanello d’allarme alla prima minaccia di deturpazione.  Una geografia della fisicità dei nostri ambienti che, una volta consolidata, potrebbe trasformarsi in visione etica e azione politica non appena ve ne fosse urgenza.

 

Pamela Boldrin

 

[Photo credit pine watt via Unsplash]

 

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Alla ricerca dei confini del paesaggio attraverso Wittgenstein

Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein pone la tautologia e la contraddizione come situazioni-limite del discorso sensato, ossia come confini non valicabili dell’espressione linguistica del pensiero, perché al di là di essi vi sarebbe semplicemente non-senso. Esse rappresentano quindi i casi marginali della dicibilità; mentre nello spazio tra questi due termini è concepibile una descrizione articolata del mondo.

La tautologia ripete sempre l’identico (piove o non piove) e si dice che è incondizionatamente vera, perché non ha alcuna condizione di verità. Invece, la contraddizione pone e toglie contemporaneamente qualcosa, sotto il medesimo rispetto (piove e non piove) e per questo si dice che non è vera sotto nessuna condizione. Né tautologia né contraddizione sottostanno a delle condizioni, come invece accade alle proposizioni sensate, impedendo di istituire relazioni determinate ad altro. Secondo Wittgenstein questa posizione di confine conferisce ai due termini il carattere di essere privi di senso e tuttavia non insensati, poiché essi continuano ad appartenere al linguaggio, essendo il modo in cui esso dà segno del proprio estinguersi. Nella tautologia e nella contraddizione il dissolversi di ciò che può essere detto, e di come può essere detto, delinea la funzione ambivalente di queste due situazioni: da un lato delimita il dicibile e dall’altro lato si rivolge a ciò che non può essere detto perché semplicemente si mostra. I confini possono significare non solo le frontiere di sensatezza del mondo, ma anche luoghi di indagine, in cui esplorare, oltre il dicibile, quello che non può essere comunicato ma solo mostrato.

Senza approfondire ulteriormente le questioni del Tractatus, tautologia e contraddizione, in quanto limiti del discorso sensato ma non insensate, portano a riflettere e ad insistere sui margini di senso del nostro modo di esprimerci per comprendere il mondo, muovendosi nelle periferie dove forse la sensatezza viene meno ma si intravedono nuove opportunità di ricerca. In questa prospettiva, parallelamente alla funzione-limite di tautologia e contraddizione nel linguaggio, si potrebbe domandare quali sono i confini del paesaggio e quali sono le condizioni di possibilità dei nostri spazi di vita in quanto strutture di senso di una medietà equamente distante dal difetto e dall’eccesso. Se il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni che lo vivono, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni, si può provare a delineare i poli di una zona temperata, entro la quale si esprimono i contesti di vita delle persone, manifestazione della varietà dei patrimoni culturali e naturali e fondamento delle loro specificità.

Come la tautologia, a un livello generale, si associa all’idea di ripetizione della stessa cosa o del medesimo segnale che ha come effetto la realizzazione del massimo ordine, perché in essa non c’è posto per l’irrompere di eventi casuali o disturbanti, nell’ambito del paesaggio l’identità, portata alla sua estrema declinazione, richiama la pretesa di immutabilità di un territorio e della comunità che lo abita. Si parla, ad esempio, di società tradizionali che tramandano pratiche e comportamenti culturali definitivamente codificati. Si parla anche di purezza e incontaminatezza di ambienti naturali e sociali da preservare, che presuppongono un modello archetipo ed edenico. Si pensi, infine, al concetto di tipicità, utilizzato oggi in diversi ambiti tra cui il cibo e l’architettura, come espressione e garanzia di persistente autenticità.

Dall’altra parte dell’identità sta la contraddizione, dove qualcosa è posto e tolto contemporaneamente: tutto pretende di comunicare con tutto e il risultato è il massimo della casualità e del movimento. Le relazioni con ciò che è diverso proliferano incontrollate e le connessioni che è possibile istituire sono tutte equivalenti, spegnendo sul nascere l’emergere di un senso. All’interno del discorso sul paesaggio, la contraddizione viene rappresentata da luoghi che sono non-luoghi, come quegli spazi della provvisorietà descritti da Marc Augé (aeroporti, parchi-divertimento, centri commerciali…), attraverso cui non si possono decifrare relazioni sociali, storie condivise o segni di appartenenza collettiva. I non-luoghi sono incentrati soltanto sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata da impermanenza, transitorietà e individualismo.

Tra la monotonia dell’identità e la cacofonia della diversità assoluta, risuona la polifonia del paesaggio. In mezzo a questi due poli risiedono dunque le zone temperate dove si creano le condizioni di possibilità per la costituzione di paesaggi vivibili. Eppure, come la tautologia e la contraddizione fanno parte del discorso sensato, in quanto segni limitanei del suo estinguersi, anche identità e non-luoghi appartengono al paesaggio. Questa posizione di confine conferisce ai due termini di essere le frontiere della vivibilità dei luoghi e tuttavia non invivibili. Essi allora ci invitano a insistere sugli spazi di senso marginali, ma non per questo insensati, e sul senso degli spazi marginali, ma non per questo emarginati.

Umberto Anesi

[Photo credit Qingbao Meng via Unsplash]

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Guardare il paesaggio, vivere lo spazio alpino: intervista ad Annibale Salsa

Abbiamo incontrato Annibale Salsa a fine luglio durante una sua breve sosta a Trento, prima che ripartisse verso una nuova tappa alpina, e gli abbiamo chiesto di condividere con noi alcuni pensieri sul paesaggio e sulla montagna da un punto di vista filosofico.
Profondo conoscitore e instancabile camminatore delle terre alte e delle vallate alpine, Annibale Salsa è uno dei massimi esperti della cultura e dell’ambiente montano. Alla base delle sue riflessioni si trova un pensiero ermeneutico e fenomenologico, all’interno di un approccio multidisciplinare al paesaggio che spazia dalla filosofia alla storia e dall’antropologia allo studio delle società delle Alpi. Ha insegnato Antropologia filosofica all’Università di Genova ed è stato Presidente del CAI (Club Alpino Italiano). È Presidente del Comitato scientifico di tsm|step Scuola per il Governo del Territorio e del Paesaggio di Trento e componente della Fondazione Dolomiti-UNESCO. Ha recentemente pubblicato il breve saggio I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia (Donzelli Editore 2019).

Di fronte a un paesaggio alpino si è tentati spesso, come nel dipinto Viandante sul mare di nebbia di Friedrich (1818), di rimanere assorti in contemplazione, in una posizione sopraelevata, seguendo l’ondulazione dei prati fino alle foreste che, risalendo i pendii, cedono il posto alle cime rocciose. Tuttavia, questo atteggiamento contemplativo, che tende a rimirare la natura, alla stregua di un dipinto all’interno di una cornice, non avviene in modo neutro e ingenuo, ma è frutto di una visione estetica, che si è diffusa nella cultura occidentale, legata a un modo particolare di intendere il rapporto tra uomo e ambiente naturale.

Il nostro colloquio ha avuto inizio rilevando che il termine paesaggio ha una genesi storica ben precisa, connessa allo sviluppo della disciplina estetica tra ‘700 e ‘800. Annibale Salsa, quale influenza ha esercitato l’estetica del bello e la tendenza a ridurre l’estetico all’artistico sul nostro modo di intendere e vedere il paesaggio, in particolare quello alpino?

Il filosofo tedesco Gottlieb Baumgarten, esponente di spicco del pensiero settecentesco, ha impresso una svolta epocale alla nozione di estetica. Muovendo infatti dalla sua riflessione, la parola estetica incomincerà a riferirsi alla nozione di “bello”, modificando sensibilmente il significato d’uso del termine greco aísthēsis (αἴσθησις), il quale indicava la “sensazione” tout court, a prescindere dal giudizio di valore. La tradizione successiva, da Immanuel Kant e dalla sua opera Critica del Giudizio al neo-idealismo italiano, che ha in Benedetto Croce uno dei suoi principali esponenti, condizionerà tutta la cultura e si riverserà anche nella legislazione italiana attraverso la Legge Bottai del 1939 in materia di paesaggio che, non a caso, viene interpretato in senso artistico-monumentale. Per quanto riguarda l’ambito del paesaggio alpino, la rappresentazione iconografica in senso kantiano (“bello e sublime”) riceverà apporti sensibili attraverso la pittura e la poesia del Romanticismo ottocentesco.

Questa interpretazione in senso artistico-monumentale, che separa soggetto attivo e oggetto passivo, ha come effetto rilevante la tendenza a idealizzare il paesaggio, come avviene per l’immagine di una cartolina, e a trascurare gli aspetti del vissuto e dell’interazione tra uomo e ambiente. Come si supera un modello che vede l’uomo come colui che vive con “intorno” la natura e che “guarda” frontalmente il paesaggio? Come oltrepassare l’idea di un paesaggio da un lato e la percezione di un soggetto dall’altro?

Nella tradizione filosofica occidentale, da Platone a Cartesio, la relazione soggetto-oggetto è stata impostata dualisticamente ossia, oltre che in senso gnoseologico, anche in senso ontologico. Pertanto la distinzione non viene posta soltanto come diversificazione di funzioni (osservatore/osservato), ma, soprattutto, sulla base di una separazione sostanziale ipostatizzata. Il superamento della distinzione ontologicosostanzialistica è possibile mediante l’attivazione di una relazione intenzionale noetico-noematica (secondo l’insegnamento della fenomenologia di Edmund Husserl), ricorrendo altresì, in chiave psicologico-fenomenologica, all’empatia (in tedesco Einfühlung), ovvero a quella immedesimazione empatica in cui la separazione soggetto-oggetto si annulla. Per questo parlo di paesaggio quale spazio-di-vita, recuperando la nozione husserliana di “mondo-della-vita” (Lebenswelt).

Questa tua espressione mi sembra cruciale, perché richiama una accezione di paesaggio inclusiva delle persone che lo vivono, dell’ambiente naturale e delle sedimentazioni storico-culturali. Che cosa intendi con l’espressione “il paesaggio è spazio di vita”? Quale significato assume questa espressione, ad esempio, per l’ambiente montano?

Come accennavo prima, riprendo la nozione fenomenologica di “mondo-della-vita”, che, da Husserl (in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale del 1936) a Merleau-Ponty (in Fenomenologia della Percezione del 1945), ha individuato nell’a-priori materiale del mondo della vita il Welt – il mondo naturale, sociale, personale – in cui l’uomo è immerso in forma originaria (quindi, spazio-di-vita). L’ambiente montano, pertanto, non può essere lo stesso, se chi lo vive è un montanaro o un cittadino, in quanto cambia la relazione empatica del vissuto di esperienza. Anche questa è una distinzione funzionale più che ontologica, in quanto, se il cittadino vive la quotidianità del mondo della vita in una “full immersion” con il paesaggio e il mondo dell’alpe, modifica le sue percezioni e le sue rappresentazioni e cambia il paradigma mental-culturale passando dalla “montagna ideale” alla “montagna reale”.

Prendendo spunto dal tuo ultimo lavoro I paesaggi delle Alpi. Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia, anche il binomio natura/cultura, nel senso di distinzione tra paesaggio naturale e paesaggio culturale, abbisogna di una chiarificazione…

La distinzione tra paesaggio naturale e paesaggio culturale, più che una distinzione è una re-interpretazione o, se vuoi, una correzione. La parola paesaggio richiama etimologicamente la parola paese, dunque consorzio umano, comunità, costruzione socio-culturale. Ritengo più corretta, sia semanticamente che epistemologicamente, la distinzione fra ambiente naturale e paesaggio culturale.

Se il paesaggio è sempre culturale, siamo nello stesso tempo produttori e prodotti del paesaggio. Appare quindi fondamentale saper mettere in campo azioni che mirino a promuovere e sviluppare la sua conoscenza come componente essenziale dell’identità e come riferimento al senso del vivere i luoghi. Che ruolo può avere l’educazione nel sapere interpretare il paesaggio?

L’educazione al paesaggio mi porta a riflettere sul significato etimologico di educazione come operazione maieutica dell’e-ducere, ossia dell’uscire fuori dalla dimensione dell’ovvio (di ciò che ci si para di fronte ob viam senza venir problematizzato), per incontrare la dimensione dell’autentico. Interpretare il paesaggio significa dunque, fenomenologicamente, compiere un’analisi radicale delle ovvietà, per superare gli stereotipi della cosiddetta “fallacia naturalistica”, aporia di cui è imbevuta una certa vulgata ambientalistico-naturalistica (selvatichezza e deserto verde…).

Seguendo questa tua ultima riflessione, aggiungerei che, per intendere in modo corretto il paesaggio, un’analisi radicale delle apparenti ovvietà e degli stereotipi ideologici non può che essere basata su un dialogo costante tra i diversi saperi teorici e pratici. A questo proposito ti pongo la domanda: quale potrebbe essere il ruolo della filosofia all’interno di un approccio interdisciplinare al paesaggio?

L’approccio interdisciplinare al paesaggio è fondamentale e ineludibile, ma è anche impegnativo e contrastato, in quanto incrina rendite di posizione e monopoli accademici iper-settorialistici. La filosofia, in tal senso, dovrebbe riprendere la sua insuperabile funzione di un “sapere dell’Intero”, capace, attraverso una trasversalità rigorosamente epistemologica, di contrastare le derive scientistiche e tecnicistiche che hanno abdicato ad ogni forma di criticità della scienza e della tecnica (sottoporre a critica, dal greco krino κρίνω, giudico). Ogni “dato” è, in ultima analisi, un qualcosa di “preso” attraverso l’atto dell’interpretare e del rappresentare. Compito della filosofia è proprio quello di fornire una cornice ai saperi particolari e di raccordarli nell’ottica di un sapere universale.

Grazie, Annibale, per questo illuminante colloquio sul paesaggio!

 

Umberto Anesi

 

[Photo credit Pixabay]

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