Un robot si aggira per l’Europa: la nuova dialettica servo-padrone

Delle migliaia di concetti introdotti da Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito, la dialettica servo-padrone (Herrschaft und Knechtschaft) è tra quelle che ha avuto maggior successo tra i pensatori successivi, tanto che sono in molti a collegarla a uno dei filosofi che l’ha riutilizzato con maggiore incisività, Karl Marx. Spogliando il rapporto tra signore e schiavo di ogni aspetto morale o trascendentale, sorvolando sul ruolo della paura della morte e della coscienza religiosa nel modello originale, Marx rielabora il pensiero hegeliano in modo che definisca le origini e le dinamiche della lotta di classe, presentandola come un rapporto dialettico non solo logico ma necessario.

Riassumendo il paradigma di Marx, si hanno un Padrone e un Servo: il Padrone fornisce sostentamento al Servo, che però rinuncia alla propria libertà per compiere determinati lavori. Il ribaltamento (logico-dialettico, ma anche storico) dei ruoli avviene al momento in cui il Servo realizza che il lavoro da lui compiuto è assolutamente necessario al Padrone, che però non è in grado di compierlo in prima persona: se prima il Servo pensava di dipendere dal Padrone per la propria vita, si accorge che è invece quest’ultimo a dipendere da lui. La consapevolezza porta alla ribellione, il Servo usa le proprie competenze per spodestare il Padrone e prendere il suo posto, così che i due invertano i ruoli. Al momento in cui l’ex-Servo ora Padrone dimentica come compiere i lavori che affida all’ex-Padrone ora Servo, il processo ricomincia.

Marx aveva pensato questa alternanza dialettica come potenzialmente infinita, proprio in quanto descrivente rapporti tra classi sociali diverse nel corso delle epoche ma sostanzialmente analoghe; il primo punto fermo era comprensibilmente una relazione-scontro tra esseri umani in carne ed ossa. I progressi della tecnica e dell’informatica, invece, paiono aver aperto un terreno anche filosoficamente inesplorato nell’ambito della dialettica servo-padrone, una prospettiva introdotta dall’irrompere sulla scena della possibilità reale dello sviluppo di un’intelligenza artificiale quasi umana.

Non è certo un caso che la cultura popolare, dalla letteratura fantascientifica di Isaac Asimov alla saga cinematografica di Terminator, dagli incubi televisivi di Black Mirror agli orrori su tela di H.R. Giger, abbiano visto nell’evoluzione del rapporto tra umani creatori e macchine intelligenti ma “schiave” le premesse di un conflitto “di classe” con ingredienti al contempo antichi e inediti. Quel che accomuna i replicanti di Blade Runner a Skynet, o l’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio all’Ultron dei fumetti Marvel, o ancora i pistoleri-robot di Westworld al V’ger di Stark Trek, è proprio la prosecuzione dello scontro dialettico, che vede la bassa manovalanza cibernetica ribellarsi a un’intelligenza umana ormai percepita come inferiore e ingiustamente predominante. Appare quindi emblematico che la parola robot derivi proprio dal ceco robota, “lavoro pesante”.

Con buona pace di Asimov e delle sue tre leggi della robotica, la prospettiva di una prossima ribellione della macchina ha preso piede come ansia collettiva, che si riflette nei dilemmi etici legati ai robot usati in chirurgia, ai droni da guerra, alle auto a guida autonoma, ai software di selezione del personale. Le reali prospettive, non solo di una guerra tra uomini e macchine in stile Matrix ma semplicemente della creazione di un sistema software che possieda coscienza oltre che intelligenza, sono però fattualmente scarsissime. L’elemento più spaventoso, e più ignorato, è invece la fase preliminare al conflitto di classe all’interno del processo dialettico: la delega del lavoro.

Nella visione di Hegel e Marx, il Padrone diventa dipendente dal Servo perché non è più in grado di fare ciò che a lui delega, rinunciando a tutta la propria inventiva e alle proprie capacità per vivere di rendita sul lavoro altrui. Prima ancora che pensare a cyborg assassini o software senzienti, sarebbe forse il caso di preoccuparsi del fatto che, dati alla mano, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non sia più capace di scrivere correttamente nella propria lingua senza l’ausilio di un correttore automatico, non sappia fare anche semplici operazioni matematiche senza ricorrere a una calcolatrice, non riesca a orientarsi neanche all’interno del proprio quartiere senza un navigatore satellitare.

È più che probabile che l’intelligenza artificiale non si traduca mai in una coscienza artificiale, che le macchine non diventino mai senzienti, che le capacità di apprendimento e di adattabilità non si evolvano in autodeterminazione, che i miliardi di sinapsi sintetiche non lavorino mai tutte assieme per elaborare il pensiero “Io”. Anche in assenza di un Robot-Schiavo vero e proprio, però, l’Uomo-Padrone ha già cominciato da tempo a delegare a terzi una parte sempre più consistente delle proprie capacità, e l’assenza di una controparte reale e attiva che possa avviare lo scontro storico-dialettico non è affatto positiva: il conflitto, quantomeno, avrebbe il merito di riaffidare ora all’una, ora all’altra parte quelle capacità che, nella versione “in solitaria” della dialettica servo-padrone, rischiano di andare semplicemente perdute.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Franck V. via Unsplash]

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Immigrazione e disuguaglianze secondo la dialettica servo-padrone

Otto miliardari nel mondo hanno la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. Il rapporto Oxfam ci informa di una dato impietoso, impossibile da concepire per la portata dello squilibrio. La bilancia pende drasticamente da un lato, riempiendo le tasche di un’esigua minoranza di miliardari della moneta attuale, il potere. Le disuguaglianze sociali sono la naturale conseguenza di tale disparità economica, riconsegnando dunque determinati ruoli sociali alla varie componenti. Solo attraverso ciò si delineano le figure in gioco, si determinano le persone in base al reddito, alla propria posizione da soggettività in mezzo ad altre soggettività  immerse in una logica competitiva.

La corsa al guadagno diventa ragione di vita e ragione dei popoli imponendosi come legge globale, interiorizzando la prospettiva capitalistica nell’ideale umano. L’ideale che diventa ossessione, il guadagno utile e necessario diventa desiderio e bramosia di qualcosa di più, sempre di più, guadagnare per guadagnare. Poste tali dinamiche economiche vanno considerate anche le differenti condizioni socio-culturali nel panorama mondiale. Difatti il capitale si centralizza, si accumula nei grandi centri, risucchiato dalle zone ricche di risorse da derubare e saccheggiare fin dai tempi delle prime colonie. Decentramento e creazione di disparità diventano una realtà sempre più evidente ed è la base della disparità data dalle otto persone in rapporto ai 3,6 miliardi citati ad inizio articolo.

La differenza di condizione sociale stabilisce ruoli, scrive copioni per i vari attori in scena. Servo e Padrone e non sono più delle fantasie letterarie o figure hegeliane de La fenomenologia dello spirito. Difatti la dialettica si instaura effettivamente, la condizione di sfruttamento è da identificarsi con chi è stato derubato, con chi si è ritrovato inferiore economicamente e socialmente a quelle otto persone che detengono il potere, ovvero la componente rappresentata dal Padrone. Le due figure sono assolutamente attuali anche in virtù delle condizioni lavorative che prevedono un lavoratore assoggettato ad un datore di lavoro. Proseguendo per questa linea, infatti, il rapporto dialettico tra le due figure che sono in contatto per uno scambio di servizi e benefici, si evidenzia la dipendenza che emerge da entrambe le fazioni. La dipendenza data da un servo che è pronto a compiere quel determinato lavoro poiché potrebbe trattarsi della sua unica possibilità rimasta. La dipendenza data da un padrone che, magari, non sa svolgere un lavoro e la possibilità economica lo rende assoggettato e sostenuto dal frutto del lavoro del suo sottoposto.

Disperazione e pigrizia agiata si equilibrano, trovano realtà e non solo teoresi nel fenomeno dell’immigrazione e della condizione di disoccupazione che attanaglia i vari paesi europei. La crisi economica, in molti casi, porta ad un abbassamento delle aspettative, ad un’accettazione di condizioni di sfruttamento e di inferiorizzazione e il farsi servo di migranti in fuga da un paese in guerra o privo di condizioni favorevoli e di giovani in seria difficoltà nell’approccio al mondo del lavoro. Dunque un semplice squilibrio dato da un’ambizione umana sempre crescente riesuma personaggi che pensavamo esistessero solo all’interno delle favole e dei racconti capaci di farci volare con la fantasia quali il “buono” ed il “cattivo”.

La verità ultima è che siamo ancora immersi in logiche infantili biunivoche basate sul conflitto tra il bene ed il male e forse è quello che la gente, il popolo brama di più, ne è quasi assuefatto. Il tema dell’immigrazione come tanti altri trattati nei quotidiani e nella vita pubblica e sociale riesce a soddisfare quel bisogno di conflitto che l’uomo infelice, l’uomo insoddisfatto e magari proveniente da un ambiente subculturale richiede per potersi sentire padrone della scena, della discussione e della ormai svalorizzata “cosa pubblica”.

Il capro espiatorio è servito attraverso una comodità di accusa e scelta che si copre gli occhi davanti a discorsi più complicati preferendo la soluzione semplice, la scorciatoia mentale destinata a non risolvere le questioni, bensì accentuarle e incriminarle sempre più per scaricare odio ed insoddisfazione. Tale condizione persevera e viene tutelata dalle molte piccole coscienze che credono di essere in una condizione privilegiata, da tutti quelli che credono di essere i padroni e quindi di dover recitare tale ruolo non curandosi empaticamente della situazione di chi invece risulta essere meno agiato e fortunato, come si suol dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Eppure in un panorama del genere chiederei a chi è, o almeno si sente, padrone se egli o ella si senta sicuro/a di quella condizione, se si senta tutelato dal momento che senza un adeguato servo si ritroverebbe incapace di auto-sussistere. Chiederei se il servo rimarrà sempre servo perché, può darsi, che esso possa essere già altro da sé e se ragioniamo nella cara logica biunivoca…

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Confusione e Anarchia: due nazioni difficili da governare

<p>immagine tratta da google</p>

Dicevano di vederle sempre assieme: «Si accompagnavano non meno di tre lune fa, lo posso giurare», proprio così dicevano; «Sono amanti nascoste, abitano nella stessa casa – affermava la vecchia acquaiola – certe cose le so per esperienza!». E così il fabbro del borgo, il mastro birraio, la lavandaia, il perdigiorno di professione, persino il cieco ed il frate irriverente; anche le pecore se il buon Dio avesse dato loro la parola avrebbero cantilenato: «Non una volta, nemmeno per errore, che abbiano imboccato due diverse direzioni, ci possiamo giocare all’azzardo tutta la nostra lana».
Così erano Confusione e Anarchia, amiche, sorelle, parenti alla lontana… nessuno in cuor suo lo sapeva con certezza. Se fossero state gemelle forse un’impercettibile differenza nell’ultima ciglia dell’occhio sinistro, un passo breve come tra un carminio e un pompeiano. Il re di tanto in tanto diceva ai suoi uomini migliori: «Sarebbero nazioni dai confini indefiniti, un disastro doverle governare!».
Pochi, pochissimi sapevano andare oltre le semplici apparenze ed erano anche gli unici a non cadere nel tranello delle banalità: è vero, abitavano nella stessa casa, ma ognuna aveva le proprie stanze, ed un muro spesso un braccio tracciava confini ben definiti tagliando persino l’aria; non sempre andavano d’accordo, forse una sottile cortesia di circostanza tra un “buongiorno” e un “buonasera”, ma mai un più dolce “buonanotte”.
E le origini? Anche quelle erano diverse. Confusione nacque da Caos e Disordine, mentre Anarchia era figlia di uomini che un giorno si alzarono in piedi e decisero di non avere padroni o capi a cui rendere per obbligo parte del frutto del loro lavoro, uomini capaci di vivere assieme ad altri uomini in un tacito rispetto di confini molto più netti di quel che si possa immaginare.
È gente che sogna quella che ama Anarchia… un amore di vetro, facile da incrinare se degenerasse in oblio; ecco allora che subitamente si vedrebbe Confusione, regina senza re, bella e di facili costumi.
Ed ecco servito il rovello più cocente, quello che nessuno è riuscito a districare: vivrebbero Anarchia e Confusione l’una senza l’altra? Nel mondo degli astratti, dove tutto è fine a se stesso probabilmente ognuna basterebbe a se stessa… ma noi abitiamo solo il mondo dei normali, dove hanno ragione un po’ tutti e dove tutto è tessuto pazientemente all’insegna di un’infinita ballata di imperfezioni.

Alessandro Basso

Articolo scritto in occasione del secondo incontro ‘Confusione/anarchia’ della rassegna ‘Tra realtà e illusione’ promosso dall’Associazione Zona Franca