Una modalità per acquisire competenze filosofiche in classe

La scuola pubblica italiana prevede l’insegnamento della storia della filosofia unicamente al triennio dei licei e di alcuni istituti tecnici1. Ma fare filosofia non è soltanto studiarne la storia, né si può dire che i bambini non siano in grado di filosofare2.

Per integrare l’impronta storicistica e gentiliana di cui risente l’insegnamento della filosofia in ambito scolastico con altri approcci filosofici e per estendere le competenze filosofiche ad altri livelli di istruzione scolastica, sono state, nel tempo, proposte diverse attività extracurricolari. In quest’ottica la Philosophy for Children & Community, programma educativo ideato negli anni Settanta dal filosofo americano Matthew Lipman, risulta ancora oggi una delle proposte più interessanti, tanto che il 30 agosto 2017 il Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica, l’associazione di promozione sociale e culturale impegnata nella diffusione della P4C, ha siglato con il MIUR un Protocollo d’Intesa triennale riguardante l’educazione al pensiero critico e la didattica dell’inclusione3.

Il programma educativo della P4C si ispira alla «comunità di ricerca» deweyana4. In contrapposizione al paradigma standard della pratica educativa, che prevede una teoria dell’apprendimento lineare dove l’insegnante trasmette al discente il sapere attraverso una serie di passaggi obbligati, il modello proposto da Lipman prevede che l’educazione sia il risultato di una democratica partecipazione attiva dei membri della comunità.
Per favorire l’indagine filosofica nella comunità di ricerca, l’insegnante deve avere un ruolo direzionale, ma non direttivo: dev’essere un «facilitatore» abile nel promuovere il dialogo, stimolare l’approfondimento del lavoro di gruppo garantendone l’autonomia nel suo processo di ricerca e monitorare la validità della discussione e della ricerca5.
Il focus dell’educazione non sta, quindi, nel risultato, ma nel processo di co-costruzione della conoscenza. Ciò che è auspicabile è che la comunità di ricerca arrivi a pensare con gli stessi movimenti che rappresentano le procedure del processo stesso: il dubbio, la produzione di idee suscettibili di valutazione e la creazione di una credenza condivisa.
Va evidenziato che la conclusione dell’indagine filosofica non prescinde dal contesto, che ne garantisce validità: ogni passaggio del processo di ragionamento, infatti, non ha valutazione assoluta e la metodologia è fallibile. Una comunità di ricerca, muovendosi in un dato contesto sociale, imparerà, oltre ad apprezzare le potenzialità garantite dall’accordo intersoggettivo tra i membri, anche ad abitarne le problematicità.

Le sessioni di Philosophy for Children, che tra i loro fini hanno quello rendere la classe una comunità di ricerca, seguono questi obiettivi. La loro struttura, dunque, riflette quella dell’indagine. Come nell’indagine si parte da una situazione indeterminata di dubbio, anche la sessione di P4C incomincia da una situazione che suggerisce dubbi e domande, e che è data dalla lettura di un testo-pretesto, una pagina di un apposito testo narrativo6. Alle fasi successive della ricerca filosofica, durante le quali si circoscrive un ambito di discussione, si discute il tema e se ne valutano le conseguenze, corrispondono altrettante fasi della sessione di P4C. Sebbene il punto di arrivo non abbia la pretesa di approdare ad una credenza assoluta, la situazione, rispetto all’inizio, risulta rischiarata.

Una classe che si proporrà come obiettivo quello di diventare una comunità di ricerca, imparerà a discutere in modo rigoroso, democratico e riflessivo, coltivando le dimensioni critica, creativa e valoriale del pensiero che, per Lipman, rappresentano l’aspetto primario del processo educativo.

 

La valigia del filosofo

NOTE
1. Qui per un approfondimento delle indicazioni nazionali.
2  Cfr. J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1964.
3. Qui per la consultazione del protocollo.
4 Cfr. J. Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, Perugia, 1993.
5 Cfr. M. Lipman, Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano, 1991.

[Photo Credit: Samuel Zeller on Unsplash.com]

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Prendi una mamma e aggiungi un po’ di filosofia. Intervista a Vittoria Baruffaldi

Donna, filosofa, madre, insegnante. Quattro identificazioni che offrono le linee guida per iniziare a conoscere Vittoria Baruffaldi. Nella vita, Vittoria insegna filosofia e storia ai ragazzi del liceo e suggerisce a se stessa di fare la mamma con filosofia. Queste ultime le parole che fanno da sottotitolo al suo libro, Esercizi di meraviglia 1, un testo che dimostra il profondo legame che esiste tra quotidianità e filosofia (punto di partenza e al contempo obiettivo del nostro stesso progetto editoriale). La realtà che trapela dalle pagine del libro della Baruffaldi è la realtà quotidiana di una mamma come tutte le altre. Solo, con un pizzico di filosofia in più, la quale fa da insaporitore alle piccole-grandi osservazioni e riflessioni di ogni giorno. In questo modo, nelle pagine scritte dalla Baruffaldi, Socrate insegna alle lettrici a non usare troppo dogmatismo nei confronti dei figli; la lezione del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein offre spunti interessanti per un approccio con le prime paroline proferite dai nostri bambini; le massime eleatiche 2 fungono da interpretazione dell’egocentrismo che i bambini sviluppano attorno ai due anni; e via così dicendo. Se questi accostamenti vi incuriosiscono, vi suggeriamo la lettura del testo, e nel frattempo vi offriamo questa breve intervista all’autrice. Buona lettura!

 

Parliamo del suo libro, Esercizi di meraviglia. In questo testo lei propone una riflessione eminentemente filosofica riguardo i vari momenti che caratterizzano la vita di una donna che sta per diventare, o è diventata, madre: dall’attesa e dalle speranze tipiche della gravidanza alle gioie e alle preoccupazioni proprie dell’infanzia dei figli. Com’è nata, dunque, l’idea di accostare alcune pagine di storia della filosofia alla sua quotidianità di donna e di mamma?

esercizi-di-meraviglia-vittoria-baruffaldi-la-chiave-di-sophiaEsercizi di meraviglia è la storia di una madre e un bambino che si fanno delle domande, e provano a illuminare il senso del loro rapporto, e delle cose che accadono intorno a loro. Il bambino si meraviglia di fronte al mondo, e la madre prova a re-imparare a meravigliarsi insieme a lui, e così dà un nome nuovo alle cose, persino a se stessa. Il tratto d’unione tra la filosofia e l’essere madre è proprio la meraviglia, quel primo passo, verso le domande, i capovolgimenti, le possibilità.

La nostra società è fortemente intrisa, forse più che in passato, di stereotipi e pregiudizi, non sempre valicabili. A questo proposito vorrei chiederle: che significato ha per lei il concetto di maternità? Crede si possa andare oltre alla costruzione prettamente culturale di questo concetto?

Quello che mi interessava era proprio parlare della maternità dal punto di vista del “pensiero”. La filosofia non è un farmaco: fornisce chiavi di lettura, pone domande, sconvolge credenze cristallizzate. È una possibilità per trovare noi stessi, insomma, e abbandonare stereotipi e modelli imposti (che sulle mamme abbondano da ogni fonte). È una possibilità per essere la madre che si è, una madre complessa, fluida, in fieri.

Potremmo dire che il suo percorso di studio e di vita (da studentessa ad insegnante di filosofia) ha condizionato il suo essere madre e la sua personale riflessione riguardo questo suo nuovo “ruolo sociale”. Capovolgendo la prospettiva, ritiene che la maternità abbia altrettanto condizionato il suo modo di guardare la filosofia?

Fare la mamma con filosofia è l’opposto di fare la mamma che “la prende con filosofia”. La prima è colei che si complica la vita, a suon di domande, dubbi e capovolgimenti. Vantaggi? Imparare a sbagliare, capire; diventare la madre che si sceglie di essere. La maternità non ha cambiato il mio modo di guardare la filosofia, forse solo un maggiore interesse per il pensiero femminile, per una filosofia ben piantata dentro l’esistenza. Prediligo le strutture frammentarie, le “piccole illuminazioni”.

Solitamente questa è l’ultima domanda che rivolgiamo ai nostri interlocutori, ma con lei mi permetto di anticiparla. Che cos’è “filosofia”, che cosa ha rappresentato e cosa significa per lei ora?

Una grande passione, sin dai tempi del liceo. Un modo d’illuminare l’esistenza quotidiana, senza alcuna pretesa di riduzione a una qualche verità. Avere il coraggio di pensare – dare voce agli interrogativi che tutti ci poniamo prima o poi –, stare presso di sé e uscire fuori da sé.

Veniamo ora al suo lavoro: lei è professoressa di filosofia e storia al liceo. L’insegnamento è per lei una passione o in passato si prospettava una diversa posizione professionale?

È il mestiere che volevo fare e che mi piace fare: dopo dodici anni entro ancora in classe sorridendo. Le materie che insegno esercitano un grande fascino sugli studenti.

A proposito degli studenti, lei lavora con gli adolescenti, ragazzi al contempo fragili e determinati. Tornando con la mente a quando io stessa ero studentessa della scuola superiore, mi rendo conto che instaurare un dialogo proficuo con i ragazzi di questa fascia d’età non sia affatto semplice. Considerando il fatto che l’insegnante in questione è chiamato a parlare di storia e filosofia, materie che al giorno d’oggi sembrano collocarsi agli antipodi degli interessi dei giovani, la questione si complica. Che osservazioni ci propone a questo proposito?

Io ho una visione molto positiva dei ragazzi d’oggi: li trovo curiosi, intuitivi. Personalmente li vedo coinvolti dalle mie materie, soprattutto dalla filosofia, che dà loro gli strumenti per comprendere l’architettura, la complessità – anche di informazioni – in cui vivono. Per essere buoni insegnanti bisogna aggiornarsi, usare le tecnologie didattiche in maniera sensata, saper facilitare i processi d’apprendimento in maniera attiva. È necessario essere flessibili e creativi anche nell’insegnamento, essere in grado di adattare quest’ultimo a seconda degli studenti (si creano alchimie differenti di classe in classe, da alunno a alunno) e agganciare ciò che si spiega con la loro contemporaneità. Bene, oggi ti spiego la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ma ti spiego anche perché è importante, a cosa ti può servire, come si lega col tuo vissuto. Oppure parto da cose relative al senso comune per mostrar loro come si possa fare filosofia anche attraverso la vita.

Facciamo infine un passo indietro al periodo dell’infanzia. Sulla spinta delle influenze provenienti per lo più da altri paesi europei, anche l’Italia, negli ultimi anni, ha iniziato ad abbracciare la causa della filosofia applicata ad attività e laboratori rivolti ai bambini. Alla luce della sua esperienza di “mamma-filosofa”, cosa pensa del binomio filosofia-infanzia? Nel suo piccolo ha provato a giocare con la filosofia assieme alla sua bambina?

Ho avuto dei contatti con ragazzi e ragazze che si occupano di P4C: mi piace l’idea della filosofia come scoperta formativa, e spero che mia figlia possa partecipare a uno di questi laboratori. Per ora mia figlia va all’asilo, impara con naturalezza e gioca. Quando la vado a prendere le chiedo: ti sei divertita? “Sì”, mi risponde, e questo mi basta. A casa mi vede spesso leggere e scrivere, e quindi gioca a leggere e scrivere. Le racconto miti platonici rivisitati e storielle ambientate ai tempi di Napoleone. Le do quello che conosco. “Ti diverti?” le chiedo, e mi risponde: “Sì”. Per ora mi basta questo.

 

Federica Bonisiol

 

NOTE:
1. Vittoria Baruffaldi, Esercizi di meraviglia. Fare la mamma con filosofia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2016
2. L’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può essere. (Parmenide, Poema Sulla natura)

 

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Filosofiacoibambini versus P4C

 

Scrive Huxley ne L’arte di vedere (Adelphi, 1989):

La mobilità è la condizione normale e naturale della mente che seleziona e percepisce.

Chissà cos’avrebbe pensato Huxley della P4C. Chissà se anche lui si sarebbe annoiato terribilmente assistendo a una lezione di storia della filosofia mascherata da laboratorio più o meno divertente, durante il quale i bambini vengono invitati a problematizzare temi grandiosi quali la verità, la giustizia, l’amicizia, il valore della vita e così via. Temi che i piccoli, specialmente quelli di quattro, cinque e sei anni non si pongono ed è giusto che sia così, almeno in quei termini.

Dell’amicizia i bambini ne hanno una conoscenza empirica: “Lui è un mio amico, stiamo sempre insieme e giochiamo insieme al pomeriggio”. Della tristezza, lo stesso: “Oggi sono triste perché non ho fatto colazione; l’altro giorno ero triste perché ero rimasto a casa da solo e mi annoiavo”. È difficile capire il motivo per cui si dovrebbero portare i bambini a ragionare su questioni che in certi termini non gli appartengono, quando il lavoro da fare sarebbe ben altro e ben più efficace. Ed è altrettanto difficile capire come mai si dovrebbe andare incontro al rischio di banalizzare la filosofia, ma soprattutto di annoiare il bambino, prima ancora che egli abbia imparato a condurre il proprio pensiero acquisendo un habitus mentale filosofico.

Se, dunque, la Philosophy For Children conserva un senso nei paesi anglofoni, dove la tradizione filosofica si è andata via via costruendo su problemi, temi e grandi questioni, essa lo perde completamente in Italia, dove un approccio di quella natura risulta sterile e privo di fondamento.

L’Italia è intrisa di filosofia, di pensiero umanistico. La maggioranza degli insegnanti della Scuola dell’Infanzia e della Primaria dialoga coi propri bambini e pur non conducendo una sessione di P4C fa pressapoco lo stesso lavoro e generalmente con buonissimi risultati. Se per gli insegnanti non è una novità leggere un racconto nel quale i personaggi discutono di argomenti importanti e formativi, è invece una novità assoluta condurre un laboratorio di filosofiacoibambini. In questo caso la filosofia non è che il miglior pretesto per abituare il pensiero a ragionare, per ampliare le possibilità immaginative, per allenare la mente a farsi strada tra le cose (prima) e tra le idee (dopo). La filosofia, sì, e non la storia della filosofia. Il pensiero, non la contingenza della storia, di qualunque storia, compresa la nostra.

Filosofiacoibambini versus P4C” vuole essere una critica al metodo, agli strumenti e in parte alle finalità della P4C che se, da un lato, in Italia, ha avuto il merito di diffondere la parola filosofia anche tra i non addetti ai lavori, dall’altro ha la colpa di essersi appoggiata troppo all’esperienza americana, trovando in essa una gallina dalle uova d’oro da esportare ed esporre. In questo sensoFilosofiacoibambini, dal 2008 – anno nel quale la ricerca ha avuto ufficialmente inizio – a oggi, marca la differenza in maniera radicale sul piano educativo.

La filosofia che siamo stati abituati a conoscere al Liceo si fa da parte, mentre fa il suo ingresso il pensiero del bambino. Pensiero che non deve essere ulteriormente saturato di nozioni (a queste ci pensa già la scuola), situazioni e narrazioni (a queste già ci pensano i libri, i cartoni, i film d’animazione, i videogiochi, ecc.), ma a cui devono essere avvicinate vere e proprie esperienze filosofiche. Esperienze che precedono qualsiasi caratterizzazione particolare e che portano il gruppo classe a lavorare su oggetti, su primitivi che sono davvero le sole cose attraverso le quali potrà passare un tipo di apprendimento efficace, operativo, utile all’evoluzione del pensare critico del bambino e del suo futuro agire libero e razionale. Si rimanda dunque la storia della filosofia e l’approccio ai grandi temi a età più consone e si invita a considerare i risultati che la filosofiacoibambini, quale metodo originale, sta ottenendo tra i quattro e i nove anni d’età. Un’età critica per lo sviluppo di certe capacità esplorative del pensiero che, se allenate nella giusta maniera, possono diventare patrimonio inesauribile della persona che le possiede.

Fare filosofiacoibambini significa allenare il pensiero a indagare la realtà, senza fornirgli alcun appiglio. È un andare all’origine, uno spingersi alla fonte del pensiero, là dove i concetti si costruiscono e non vengono forniti già pronti e confezionati da un educatore che non aspetta altro che serrare le fila di ciò che si è detto, magari per trarne una morale o una conclusione di qualche tipo. Non occorre conoscere l’acqua, né sapere che fa bene ed è piacevole nuotare (a questo ci si arriva da soli), serve una mano a buttarsi in acqua. Ma la mano dev’essere dolce e fidata.

Carlo Maria Cirino – Filosofiacoibambini

[Photo credits Francesca Saltarelli]