Specchio come oggetto, specchio come funzione, specchio come filtro

«Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?/ Quod petis, est numquam; quod amas, avertere, perdes./ Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbra est: nil habet ista sui: tecum venitque manetque,/ tecum discedet, si tu discedere possis»1: questi versi tratti dal III libro delle Metamorfosi di Ovidio descrivono il delirio di Narciso conseguente all’innamoramento dell’immagine, bellissima e evanescente, riflessa in uno specchio d’acqua. Narciso, al contrario di Eco, ama solo se stesso, è l’identità assoluta che non conosce alterità. 

Con riferimento alla teoria lacaniana dell’étade du miroir, Narciso inizierebbe a costruire il proprio “io” un po’ tardi: è infatti tra i sei e i diciotto mesi che il bambino riesce a riconoscere la propria immagine riflessa elaborando un primo abbozzo del proprio “io” seppur in modo confuso e in stretta dualità con la madre. Secondo Lacan, il bambino, di fronte a uno specchio, reagirebbe dapprima esattamente come Narciso, come se si trattasse cioè di una realtà a sé che si può afferrare, per accorgersi solo dopo che si tratta invece di un’immagine, la propria, ritenuta tale perché diversa da quella dell’adulto che lo tiene in braccio. E sono lo sguardo e la conferma verbale della madre, cioè dell’altro, che iniziano a definire il bambino in modo autonomo: l’antitesi è dunque necessaria per la formazione e l’affermazione dell’“io”, auspicabilmente senza cadere nel compromesso della sintesi hegeliana o nella follia pirandelliana di una frammentazione dell’identità all’infinito. 

Non intenderei lo “specchio” solo in un’accezione letterale come oggetto materiale ‒ sia quello di Narciso, di Lacan o di Grimilde – ma anche in senso metaforico, cioè come “funzione specchio”, rilegata a ciò che è “altro dall’io”, tanto con una valenza linearmente speculare, di sola affinità – quante volte ad esempio ci capita di sentire frasi come “quella canzone riflette il mio stato d’animo”? – quanto con una valenza più scabra, di scontro e incontro, di conoscenza e potenziamento del proprio io.  

A riguardo, nelle cosiddette Lettres du Voyant Rimbaud ribadisce la celebre affermazione «Je est un autre»: il poeta di Charleville attaccando la poesia soggettiva dei Parnassiani delinea una visione orfica del poeta, da considerarsi non un’entità piena al centro del reale, ma strutturata dall’esterno, che, attraverso quel «dérèglement de tous les sens», trascende l’io e perlustra l’ignoto ‒ «C’est faux de dire Je pense: on devrait dire On me pense».

Se in Rimbaud la postura oracolare pone l’imperativo per il poeta di trovare una lingua nuova, quella «langue de l’âme pour l’âme», la lingua delle correspondances, la dialettica io/altro – insita nell’etimo stesso del termine “persona” appunto intesa come “maschera”, come le dramatis personae dell’attore di teatro ‒ è invece trattata da una prospettiva psicanalitica da Ingmar Bergman in un capolavoro meta-cinematografico e stilisticamente postmoderno ante litteram, Persona (1966). 

Con un montaggio scarno ed essenziale, quasi una tragedia teatrale divisa in atti dalla scena della mano bucata dal chiodo, ripetuta per tre volte a mo’ di sipario, Persona porta sullo schermo l’animo umano, fluido e contraddittorio, assettato di amore e di verità. «[] Tu insegui un sogno disperato Elizabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere []»: questa la diagnosi fatta all’attrice Elizabeth Vogler sul suo clinicamente inspiegabile mutismo, iniziato durante la recitazione dell’Elettra come tentativo psicosomatico di svuotare di senso la propria esistenza. Durante una convivenza a scopo terapeutico con la giovane infermiera Alma al mare, fatta di fluviali flussi di coscienza di quest’ultima, le due donne si fondono e si confondono in un caos dionisiaco, in una casa senza calendari né orologi, in una geniale inquadratura che accosta le metà illuminate dei due volti creando un unico essere umano aberrante quanto meraviglioso. Le due donne si fanno da specchio, da schermo di proiezione l’una dell’altra, rivelando le reciproche ombre nascoste e dimostrando che la presenza dell’altro è uno scacco per il mantenimento di un frammento di “io”. Un film, che mediante la tecnica della mise en abîme spinge il cinema al limite di se stesso, laddove il linguaggio e la luce verrebbero meno, per affermare l’arte come forma più autentica di esistenza per non soccombere alla follia e alla morte. Lo specchio dunque può essere inteso come filtro che rilega al di qua, nella vita: oltre il linguaggio e la luce, e quindi oltre la menzogna e l’ombra, il vuoto.

 

Rossella Farnese

 

NOTE

1.Ingenuo, perché ti affanni a cercar di afferrare un’ombra che ti sfugge? Non esiste quello che cerchi! Voltati, e perderai che ami! Quello che vedi non è che un tenue riflesso: non ha alcuna consistenza. E viene con te, resta con te, se andrà con te, ammesso che tu riesca ad andartene!»] Ovidio, Le Metamorfosi, trad. it. di Giovanna Faranda Villa, Milano, Bur, 2007, pp. 194-195
 2. A. Tonelli, Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, 2009, p. 33.

[immagine tratta da Unsplash]

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Il tempo giusto

Le parole del mito sono patrimonio transculturale dell’umanità. Attraverso una variegata miscela di suggestioni, ciascuna cultura elabora i propri miti che sono, in fondo, modelli di comprensione dell’esistenza umana. La narrazione del mito serve a tener vive queste parole e la ripetizione di schemi e figure fissa nell’ascoltare (o in generale nel fruitore) alcuni specifici insegnamenti. 

Con una certa periodicitá, mi accade di tornare a leggere i versi della storia di Leandro ed Ero, sui quali giá qualcosa avevo provato a dire. Mi hanno sempre suggerito un senso di attesa: divisi da un’infida lingua d’acqua, i due amanti sono costretti alla clandestinità. Nottetempo Leandro sfida i flutti, guidato da una lucerna tenuta viva da Ero. Egli sfida la tempesta una volta di troppo o, forse, nel momento sbagliato e viene condotto dai marosi sulla riva opposta, esanime, tra le braccia della sua amata. L’attesa lascia il passo all’audacia: nonostante il mare sia in burrasca, il giovane tenta l’impresa per amore di Ero. Avrebbe dovuto attendere, essere prudente, attendere un momento più propizio.

La sapienza occidentale sovrabbonda di indicazioni riguardo al tempo opportuno in cui agire, in cui collocare una determinata azione. Ma è sempre possibile distinguere tra un momento propizio e uno nefasto? É sempre possibile, anzi, è sempre sensato attendere la venuta di un momento migliore? E se il tempo opportuno non avesse a che fare tanto con la riuscita dell’azione, quanto più con la necessità del tentantivo?

Rileggere i versi di Ovidio, questa volta, mi ha suggerito che talvolta bisogna far valere la propria esistenza rispetto alle condizioni spazio-temporali in cui ci si trova: occorre situarsi nel tempo che abbiamo, senza sfiorire nell’attesa di un attimo in cui tutto parrebbe compiersi da sé. Agire significa anche fare i conti con la possibilità di un esito inatteso, con la forza dei nodi che il tempo tesse attorno alla vita umana: significa anche rischiare qualsiasi cosa, abbandonare ogni misura di cautela. L’amore pare essere il configurarsi di questa situazione in cui non tutto è calcolabile, non ogni rischio è prevedibile, anzitutto per l’insondabilità della persona coinvolta che nel gesto d’amore si mette a tema. È l’amore un che di inatteso e ciò che si sa dell’inatteso è che occorre avvicinarsi, andargli incontro, per sperare di saperne qualcosa. Saperne qualcosa, sentirne un qualche sapore.

Emanuele Lepore

 

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Consigli amorosi da 2000 anni fa

Siamo agli albori della storia del mitico Impero Romano quando sotto il potere di Ottaviano Augusto il clima a Roma si fa più pacifico e disteso. I contrasti e le tensioni degli anni precedenti vengono abilmente indirizzati alle frontiere del territorio imperiale, in favore di un maggiore equilibrio interno. Lo scopo di Augusto è quello di controllare e disciplinare ogni piccolo aspetto della vita: per farlo, egli intraprende la strada del rinvigorimento delle tradizionali virtù romane, il cosiddetto mos maiurum. Filosoficamente parlando un potere politico forte deve sempre potersi avvalere, e allo stesso tempo deve potersi fondare su una solida base morale. E infatti Augusto si adoperò principalmente a conferire un solido fondamento etico a tutte le strutture sociali e politiche attraverso una serie di scelte concrete quali la costruzione di nuovi luoghi di culto, il supporto allo sviluppo artistico della città, ma anche attraverso leggi volte a favorire lo sviluppo delle nascite o condannando l’adulterio.

Di fronte a questo panorama, un’opera come l’Ars Amandi di Ovidio non poteva che essere additata! La dicitura “Arte di amare” non ha nulla a che vedere, almeno di primo impatto, con romanticismo, sentimentalismo o poesia. La parola “arte” è da ricondurre al suo significato originario che la accomuna con la parola “téchne”. Il testo di Ovidio, infatti, non è altro che un manuale grazie al quale l’individuo maschile poteva apprendere delle vere e proprie tecniche per conquistare il gentil sesso femminile. Il fine dell’atto d’amore è da Ovidio identificato con il solo piacere fisico: a causa della portata scandalosa delle sue affermazioni (ma anche per altri motivi più profondi, non ben chiari) Ovidio venne allontanato da Roma senza potervi fare ritorno.

Se l’atmosfera del libro potrebbe sembrare distante dall’idea di Amore con l’iniziale maiuscola, procedendo con la lettura, ci si può ricredere. Le sue scottanti tecniche di rimorchio, infatti, ad oggi non fanno che farci sorridere, vuoi perché l’argomento sentimentale/sessuale attualmente è trattato in pubblico e addirittura sbandierato con sempre meno pudore, vuoi perché in fondo tutti possiamo riconoscerci con un certo imbarazzo nella situazione del corteggiamento e nel brivido incerto che questa comporta. Un esempio: Ovidio consiglia di approfittare dell’affollamento delle tribune del circo per sedersi stretti accanto alla propria donna dei desideri. La sua massima «si è più sedotti da ciò che non si ha», lascia intuire come egli non preveda affatto la possibilità di andare incontro a rifiuti o fallimenti.

Spero di essere perdonata se azzardo che l’ego maschile non ha confini, nemmeno temporali! E per rifarmi da questa affermazione, consiglio a tutti i lettori uomini che volessero far ricredere le rappresentanti del genere femminile, la lettura della seconda gamma di consigli proposti dall’abile poeta: «Come far durare il proprio amore». Per levarvi subito la curiosità (o forse per venire in vostro soccorso) ve ne elenco qualcuno: essere amabili, avere un carattere piacevole, evitare la rudezza, evitare regali costosi in favore di gesti e attenzioni modeste. Non gettare la spugna se la vostra compagna ha un periodo di distrazione, ma essere pazienti e perseveranti. Addirittura Ovidio vi mette in guardia dal curarvi troppo del corpo, e vi propone di formarvi nello spirito!

Ebbene si, 2000 anni, ma le dinamiche amorose non mutano mai!

Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google Immagini]

attesa: il tempo dell’altrove

Una delle più forti e significative esperienze della nostra vita è l’attesa: l’enigmatico tempo in cui il controllo di sé si fa più labile che mai, le emozioni e le ansie più disparate affollano la mente ed il cuore di chi si ritrova ad attendere.

È un’esperienza comunemente equivocata: di una persona in attesa si dice che ” se ne sta lì ad aspettare”, descrivendo una quiete che è solo apparente e persuade solo gli sguardi meno attenti, dietro la quale si v’è c’è il vuoto di un’assenza, un perpetuo moto verso l’altrove. Dell’attesa il senso comune afferma sbrigativamente, con fiera supponenza, la vanità: le espressioni del dire più distratto, in tal senso, sono molteplici.

È tutt’altro che vana l’attesa e ció deve scoprire chi desidera, colui al quale manca (pur se non del tutto, ché altrimenti non cercherebbe) qualcosa di cui ha sentore, di cui avverte il richiamo, da cui è continuamente attratto; cioè è strappato, tirato con firza indicibile: ecco, di nuovo, la quiete è solo la forma visibile di unmovimento troppo veloce per essere descritto altrimenti, almeno a prima specie.

La vanità dell’attendere, che per il senso comune è certezza, è per la persona interessata la consistenza di un dubbio, anzi,del dubbio piú importante poiché dalla sua risoluzione dipende l’esito piú o meno catastrofico di un’innumerevole serie di interrogativi, non da ultimo quello circa la propria identità: io, che attendo, chi sono?

Quando di risposte non se ne hanno, bisogna cercarne e, per farlo, è necessario trovare un punto di partenza, un punto fermo su cui far leva.

Ebbene, per chi è in attesa, un interlocutore possibile è Publio Ovidio Nasone, autore – tra le altre opere- delle Heroides, una raccolta di epistole composte da personaggi della costellazione letterario-mitologica classica. I libri XVIII e XIX di questa opera contengono due lettere particolarmente interessanti ( per il nostro tema, s’intende), scritte da due giovani amanti, Leandro ed Ero, i quali erano divisi da uni stretto di mare, l’Ellesponto. Quando gli dei erano loro propizi, Leandro poteva tuffarsi coraggiosamente in mare e nuotare nuota da Abido – sua città natale- a Sesto, città natale dell’amata Ero che gli faceva da guida tenendo accesa una lucerna. Cosa accade, peró, quando Borea fa infuriare le acque, rendendo troppo pericolosa la traversata? Ecco che la domanda fondamentale sorge a tormentare il cuore: “perché l’attesa?”.

<<Cur ego viduas exegi frigida noctes?>>[1]

Perché Ero,nel fiore dei suoi anni, ha dovuto vegliare al freddo dell’incertezza, traendo la propria forza da una lucerna accesa, simbolo della speranza costante che vince la tribolazione? Perché ella non è presso di sé quando Leandro è altrove; perché vive l’alienazione che solo un potente desiderio puó causare, non vede ció che dovrebbe stargli dinnanzi ed è sospinta a vagare tra le fumose vie della memoria per ritrovare il ricordo dei giorni felici; di quelle gioie che << non si possono contare, non piú delle alghe dell’Ellesponto>>[2] ; per ritrovare l’immagine di Leandro, del suo corpo che ogni notte usciva dai flutti e lei stessa correva ad asciugare, del giovane che bruciava per lo sforzo e ardeva d’amore. Non essere dinnanzi a ció che si desidera invita ad abbandonarsi al ricordo: << nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria>>[3] . Eppure non si puô farne a meno.

Il tormento della memoria, di contro, proietta la persona che attende verso un futuro in cui la speranza non trova immediato riscontro: si piomba nell’angoscia del presente. << Cur totiens a me, lente morator, abes?>>[4] .

Perché Leandro non è sulle rive di Sesto, tra le braccia dell’amata Ero? La tempesta ed il mare in burrasca sono davvero la sola causa? Non è forse plausibile che il giovane uomo abbia dimenticato Ero, distratto dalle sue attivitá, dalla caccia e dai poderi; che la sabbia delle palestre abbia offuscato i suoi occhi a tal punto che questi non riconoscono piú l’assenza di lei? Se cosí fosse, chene sarebbe di lei, della giovane donna che è ormai una sola cosa con la sua attesa?

La risposta è nel suo corpo: nel corpo di Leandro che è da sempre suo, che costantemente gridava il proprio non autopossesso, il proprio essere presso altro, il proprio voto di alteritá permanente. É nel corpo del giovane amante che i soffi impetuosi del vento hanno deposto, ricoperto di alghe, sulle rive di Sesto.

La risposta alla domanda circa la presunta vanità dell’attesa è in quelle membra che hanno affrontato il mare in tempesta per avvicinarsi all’amata , sprezzanti del pericolo, per le quali il pezzo piú alto era un nonnulla, se paragonato all’onorevole ricompensa di un ultimo tocco da parte di Ero.

” L’attesa non è stata vana”, grida Leandro, che tante preghiere aveva mormorato al cielo, chiedendo compassione al dio sbagliato; Leandro che, vegliando per sette lunghissime notti seduto su di una rupe, tentava di colmare la distanza come poteva, finendo con l’affidare ad una lettera i suoi sentimenti inquieti. Avendo, insonne, ricordato le prime gioie del suo amore furtivo, cessa di sperare in una tregua dalla tempesta, in un momento di bonaccia in cui nuotare con tutte le forze verso Ero, per mai piú tornare.

<< Arte egeo nulla:fiat modo copia nandi; idem navigum, navita, vector ero>>[5] Nessun aiuto occorre all’amante dolente d’attesa, nessuna nave che tagli sicura il mare: il suo ultimo respiro sarà sufficiente.

Una preghiera inaudita è il seme di una sfida titanica il cui esito è sancito dalle leggi non scritte degli dei superi e inferi, i quali non tollerano di essere oltraggiati dal coraggio di quegli uomini cui Prometeo insegnó l’arte della disobbedienza necessaria. Ma l’ira è cieca, anche quella degli dei: essi comandano la morte e su ritrovano ad aver donato la vita; ordinano al mare di separare la speranzosa Ero dal disperato Leandro e si ritrovano ad averlo condotto lí dove lui stesso avrebbe voluto essere, sin dal principio. E lo desiderava a tal punto tuffarsi in quelle acque che avevano già annegato altre giovani speranze [6] . Leandro è lí, morto per aver sacrificato ad Ero un respiro di troppo, per aver inseguito, una bracciata dopo l’altra, il battito lontano del suo cuore: e l’ha raggiunto.

A cosa serve, dunque, attendere?

A misurare se sé stessi, a trovare le energie necessarie per abbracciare il destino, a comprendere che per nascere al domani é inevitabile morire all’oggi. Morire qui per nascere altrove.

Che l’altrove sia Sesto, le braccia di una persona amata, l’esaltante luogo in cui si assapora la realizzazione dei propri sogni piú urgenti, non importa.

 Emanuele Lepore

 

Note

[1] Ovidio, Heroides, XIX, 69: << Perché ho trascorso, al freddo,tante notti vedove?>>

[2] Ovidio, Heroides, XVIII, 84:<< non magis illus numerari gaudia noctis/ Hellespontiaci quam maris alga potest>>.

[3] Dante, Inferno, V,121-122.

[4] Ovidio, Heroides, XIX, 70:<< Perché tante volte, pigro, rimani lontano da me?>>.

[5] Ovidio, Heroides, XVIII, 147-148:<< Non ho bisogno di alcuna arte: purché Perché abbia modo di nuotare; saró al tempo stesso nave e pilota e passeggero>>

[6] Il riferimento é al mito di Elle che, fuggendo in groppa ad un montone dal vello d’oro insieme a suo fratello Frisso, cadde nelle acque dell’odierno stretto dei Dardanelli, da allora chiamato “Ellesponto”: “mare di Elle”.