La cultura agonistica greca nella poesia di Esiodo

Sin dagli inizi del pensiero greco assume cospicua importanza, tra le più sottili massime morali, quella  che esorta al lavoro concreto, all’operosità nella vita privata e all’impegno adottato nella quotidiana  amministrazione dei beni. Depositario di questa genuina cultura arcaica è il poeta beota Esiodo (VII/VIII secolo a.C.), rappresentante dei costumi e dei valori spirituali del mondo rurale del suo  tempo, che ne Le opere e i giorni elenca e descrive efficacemente i mezzi e le risorse di cui l’uomo  dispone per procurarsi sostentamento tramite il lavoro. Ancora più sapientemente, e in certo senso in  un modo controintuitivo per noi moderni, Esiodo riconosce che l’invidia e la contesa (Eris), ovvero un sano spirito agonistico, per esempio tra un contadino e l’altro o tra un vasaio e un altro vasaio, possono incitare l’uomo ad abbandonare i propri futili ozii e, per così dire, ad imbracciare gli  strumenti per iniziare finalmente ad arare il proprio campo. Non solo, ma lo sospingono anche a desiderare di produrre più del proprio rivale, ad adoperarsi alacremente, ad essere insomma il migliore nella propria attività sino a ricavarne anche enormi guadagni. Occorre perciò rivolgere la propria attenzione a questo insolito pensiero, oggi in parte obliato ma assai fecondo.  

Se la cultura mondiale corrente educa spesso e volentieri a considerare biasimevole, demonizzandolo in modo univoco e fuorviante, ogni impulso alla gelosia nei confronti di chiunque, amico o nemico, Esiodo ci rammenta l’importanza di un certo sentimento invidioso e rivaleggiante: una lecita contesa, un agonismo apportatore di benefici. Quest’ultimo non ha quindi che fare con un odio autodistruttivo, che indurrebbe ad una mera critica della vita altrui, arida e fine a se stessa: esso è piuttosto la fonte di un animo zelante, preoccupato di darsi da fare, di industriarsi per superare l’altro nella medesima arte, e (perché no?) di perseguire agi e credito sociale. È così che d’un tratto «il vicino emula il vicino che  alla ricchezza attende» (Esiodo, Le Opere e i giorni, 1994). Esiodo sa che il suo popolo vive nella povertà, nella penosa fatica e soprattutto nella precarietà dei beni che ogni anno produce, di cui non si sa mai fin quanto potrà disporre, poiché una siccità o una violenta carestia possono cancellare i frutti del proprio raccolto, così come una tempesta può abbattersi sulla propria imbarcazione e mandare in rovina tutta la mercanzia. Una realtà cruda e disseminata di pericoli quella della Grecia arcaica, ma a rassicurare questa visione sussiste la virtù del lavoro, che è l’unico vero bene attraverso cui far fronte alle più forti necessità.  

Ma Esiodo non dimentica che, accanto all’invidia giovevole, esiste da sempre anche una Eris trista e malevola, che «favorisce la guerra luttuosa e la discordia» (ivi), cui molte volte non si può sfuggire, ma che non si dovrebbe coltivare, perché non soltanto non reca vantaggi a se medesimi, ma per giunta è fonte di ingiustizia e di tormenti per gli uomini tutti. Così il poeta ammonisce severamente il fratello Perse, di cui ci dice che è iniquo e litigioso, avendo corrotto i giudici durante un processo familiare ed avendo privato Esiodo della sua parte spettante di patrimonio. Se Perse fosse invidioso nel senso buono e rispettasse il diritto impartitogli dal sommo Zeus (divinità che soprattutto in quest’opera di Esiodo personifica la giustizia tra mortali ed immortali), si procurerebbe molti più beni di quanti ottiene con la sua spregevole avidità.  

Anche autori successivi del calibro di Platone e Aristotele, allievi senz’altro di Esiodo come del resto ogni greco, tenderanno a distinguere due generi ben diversi di invidia: uno phthònos, che porta a  gioire del male e a rattristarsi del bene altrui, ed uno zèlos, una gelosia che esorta ad emulare l’uomo operoso, tale per cui si cresce virtuosamente. Non da ultimo Friedrich Nietzsche, in una delle sue Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, non a caso dal titolo di Agone omerico, riprende il tema  esiodeo celebrando il buon egoismo e lo spirito della contesa, giungendo ad asserire che «ogni attitudine deve svilupparsi attraverso la lotta: così ordina la pedagogia popolare greca» (F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci, 1991). Un insegnamento che, dunque, resta scolpito nella memoria dei secoli e su cui ancora oggi si fonda gran parte dell’esperienza umana.

 

Tommaso Quaglia
Nato nel 2001 in Piemonte, ha frequentato gli studi classici presso il Liceo Statale Enrico Medi (Villafranca di Verona). Iscritto all’Università degli Studi di Verona, si è laureato in filosofia con una tesi dal titolo “Nietzsche e l’ideale ascetico”. Nondimeno, in quanto nutre una profonda passione per tutto ciò che concerne l’antichità classica, anche nei suoi molteplici aspetti storico-filologici, ha deciso di proseguire il percorso di formazione presso Padova, intenzionato a specializzarsi nello studio della filosofia antica. In particolar modo la sua ricerca è volta all’approfondimento delle problematicità e dei recenti sviluppi tematici inerenti al dibattito intorno alla scuola peripatetica.

 

[Photo credit GR Stock via Unsplash]

La filosofia come prassi al tempo della società dello spettacolo

Guy Debord, nel celeberrimo testo La società dello spettacolo (1967), afferma che nella modernità è fatalmente venuta meno la domanda riguardante i significati ultimi. La società postmoderna è caratterizzata infatti da una fondamentale spettacolarizzazione, la quale si determina dal punto di vista della possibilità di garantire ai suoi adepti il privilegio derivante dal raggiungimento di una condizione di emancipazione sociale che renderebbe meno gravoso il proprio rapporto con l’esistenza. Apparato burocratico capitalistico e società spettacolarizzata sono legati a doppio filo da un intento comune, rappresentando il primo il supporto finanziario e la seconda il cuore pulsante delle nuove modalità di assetto sociale.  

Per il pensatore parigino l’oppressione intrinseca al consumo dei prodotti erogati dall’apparato pubblico si instaura nella promessa di libertà e affermazione di sé rivolti all’uomo comune. Il soggetto è incentivato a fare propri i riferimenti dominanti all’interno del tempo storico, i quali in realtà rappresenterebbero soltanto l’illusione del superamento della sua condizione di anonimato e di svantaggio economico. È importante leggere Debord poiché il suo testo ci fa capire che non bisogna subire passivamente una modalità di esistenza che deve invece essere problematizzata e messa a confronto con il proprio stesso stare al mondo. Il filosofo e cineasta francese mette in opera un processo di sensibilizzazione nei confronti di una forma di oppressione storicamente inedita, che usa il linguaggio dell’intrattenimento per tenere legate le masse a una condizione di anonimato e impotenza connessa a una subordinazione economica in sé insuperabile. Il filosofo francese infatti afferma:

«L’ideologia è la base del pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia» (G. Debord, La società dello spettacolo, 2008).

L’analisi di Debord coglie un aspetto certamente decisivo del mondo contemporaneo, ma la riduzione delle espressione artistiche a prodotto del capitalismo svilisce il significato autentico delle nuove forme culturali. Lo spettacolo reca in sé implicitamente una domanda di senso, un invito a lasciare intatta la fiducia nei confronti di un originario ideale di redenzione. È necessario quindi che gli individui dialoghino con le nuove forme artistiche, superando quella che spesso è una considerazione stereotipata delle forme attraverso le quali l’offerta di intrattenimento si esplica. Bisogna sentirsi parte attiva del delinearsi delle nuove tecniche attraverso le quali lo spettacolo narra la condizione umana. Esso in definitiva rappresenta lo specchio in cui si riflette il mistero stesso dell’esistere. Non bisogna rimanere fermi alla considerazione secondo la quale lo spettacolo sia semplicemente divertimento fine a se stesso, ma considerare i suoi prodotti come riferimenti che descrivono il fondamento tragico proprio della condizione umana. In questo senso Debord afferma che «lo spettacolo è la carta geografica di questo nuovo mondo, carta che ricopre esattamente il suo territorio» (ivi).

L’arte riproducibile modifica lo statuto del reale, aprendo alla necessità di instaurare una comunità fondata su un pensiero che deve diventare critico. L’idea guida delle cosiddette pratiche filosofiche, in questo senso, è che l’adesione alla verità redima l’individuo attraverso una narrazione nuova del posto dell’uomo nel mondo. La filosofia si esplica dal punto di vista di un’istanza che consente di problematizzare il carattere progettuale dei nuovi prodotti artistici. Rifiutarsi di esercitare il pensiero inteso in senso critico nei confronti del presente e in relazione costante all’avvenire significherebbe favorire il perpetuarsi di quello che il filosofo Diego Fusaro ha definito, a più riprese, il pensiero unico dominante del nostro tempo. Debord ci invita a essere meno chiusi e sclerotizzati all’interno di un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti della nostra epoca, e ad assumerci la responsabilità di assumere un comportamento che in quanto tale dimostri il raggiungimento di un livello maggiore di consapevolezza. La condizione dello spettatore passivo deve cedere il passo alla possibilità di mettere in pratica gli insegnamenti che, direttamente o indirettamente, lo spettacolo in quanto tale veicola.

Risulterebbe facile ritenere questo discorso affetto da una costitutiva indeterminatezza: la filosofia può solo interpretare il mondo, ma certamente non cambiarlo, come invece auspicava il Marx dell’undicesima delle Tesi su Feuerbach. Il punto è che il filosofo per espletare la sua funzione deve rendere operativa una libertà di spirito attraverso la quale addivenire all’individuazione delle malattie che riguardano la società in cui vive e rispetto alle quali il senso comune rimane abitualmente legato a una fondamentale passività. La parola filosofia in questo senso farebbe sempre di più rima con follia ma, del resto, Nietzsche non ha affermato, nel Crepuscolo degli idoli, che quello che consideriamo mondo vero altro non è che fiaba?

 

Edoardo De Santis
Dopo la laurea Magistrale in Filosofia ha conseguito vari titoli afferenti le pratiche filosofiche. Ha pubblicato articoli su “Rivista EA”, “Phronein”, “Gazzetta Filosofica” e sulla “Rivista Italiana di Counseling Filosofico”. Ha partecipato come relatore al convegno “Eleatica” nel 2021 e al “Festival Internazionale di Filosofia” di Ischia e Napoli nel 2022 e nel 2023. È stato nominato Esperto del progetto nazionale “Inventio” dell’Associazione Filò (Università di Bologna), mirante a implementare laboratori di pensiero critico negli istituti tecnici e professionali italiani, partecipando alla fase di sperimentazione nelle scuole.

 

[Photo credit Anton Nazaretian via Unsplash]

 

banner-riviste-2023_lug-01

Rughe e odierni tabù: l’attesa, le soglie e la finitudine

Al giorno d’oggi conosciamo sempre meno soglie.
Non concepire soglie significa, innanzitutto, non dover aspettare – per nulla al mondo. Temporeggiare  è, a quanto pare, del tutto inutile. E tale constatazione non può che essere un dato di fatto nell’era di  Amazon che, a ben guardare, è probabilmente il più grande “demolitore di soglie” mai esistito: qualche  tasto, un click ed è fatta, avremo ciò desiderato senza alzarci dal nostro letto: grassi sovrani costantemente già seduti al liscio “tavolo delle merci”, del quale basta tirare un po’ la tovaglia per poter avere  tutto.
Da impazienti cronici quali siamo, l’unico momento in cui accettiamo di dover aspettare è, forse, davanti alla porta di casa di un nostro caro amico, ma con i mezzi odierni di calcolo e comunicazione,  probabilmente non aspetteremo neanche davanti a tale porta, che quasi sempre troveremo già aperta – oramai i navigatori calcolano perfettamente le tempistiche dei nostri spostamenti, e i messaggi via  rete non tardano ad arrivare: perché attendere?
E non è che ce ne siamo dimenticati: la società attuale sembra che proprio non voglia più conoscere soglia o impedimento che non le siano opportuni e necessari, o in qualche modo utili. Si fa di tutto  per eliminarle. L’unico motivo per cui, anche davanti alla casa del nostro amico, potremmo accettare  di dover aspettare è il raro caso di una nostra visita a sorpresa. 

Come per le rughe, non vogliamo soglie.
Vogliamo un mondo liscio come la nostra pelle: «La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È  ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana» (B.C. Han, La salvezza del bello, 2019). Come un vastissimo  piano, sempre più levigato ed ininterrotto, appare la nostra esistenza. Su una superficie così levigata,  senza attriti, tutto è ed appare a nostra disposizione. La continuità piallata del piano ci permette di non  attendere mai più dell’istante, un po’ per tutto: dagli acquisti agli spostamenti, passando per le cose da  dirsi nel privato come in pubblica piazza, per arrivare fino ai sentimenti, dai più frivoli ai più profondi.
Levighiamo, e non vogliamo rughe – superuomini imbellettati.
Troppo spesso però, ci scordiamo che questo piano sul quale viviamo la nostra vita è sempre e comunque il corpo di un grandissimo scivolo, che è divertente proprio in quanto ha un termine, ha una fine. Qualsiasi caratteristica e lunghezza abbia la parte in discesa, solo sapendo della sua terminazione – cioè della soglia finale, che non è “nient’altro” che la nostra, umana morte – possiamo rendercene veramente conto e “viverla”.
«Le soglie, come passaggi, ritmano, articolano e raccontano […]. Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture» (B.C. Han, La scomparsa dei riti, 2021): disabituati a queste, perdiamo la coscienza dei momenti di cesura rispetto al piallato ordinario, che in primo luogo sono quelli del dolore

Proseguendo su questa scìa, anche nella lettura di Marc Augé il discorso intorno alla morte fa propri i termini “spaziali” della soglia o, più precisamente, della frontiera: «Il rispetto delle frontiere è dunque un  pegno di pace. Non è un caso che gli incroci e i limiti […] siano stati oggetto di un’intensa attività rituale.  Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera» (M. Augé, Nonluoghi, 2020).
E il fulcro del discorso sta nell’inizio di ciò appena ripreso: così come, per Augé, geopoliticamente  l’accettazione delle frontiere è un “pegno di pace”, ciò vale anche nella trasposizione macabra del discorso. L’accettazione della finitudine della vita è il pegno per la nostra, interiore, pace. Il discorso intorno alla morte è così, anche, un discorso di soglie.
A ben vedere, aveva ragione l’americano Geoffrey Gorer quando, esattamente sessant’anni fa, nel 1963, profetizzò proprio la morte come odierno – già per l’epoca – e futuro grande tabù nella nostra  società: la morte, diceva, sta prendendo il posto del sesso1.

Il momento del dolore – e, come evento estremo, la morte dell’Altro-conosciuto, se non addirittura  amato, o la morte di Sé – è un momento temporalmente intenso. È una ruga – e la vorremmo piallare, ma non si può: disperati, non sappiamo che fare. Vorremmo che tutto si risolvesse in un click, invano.
Di fronte alla morte, al dolore e al lutto, non c’è peggior difetto d’essere impazienti. Ed eccoci qui.

 

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore.

 

NOTE
1. Cfr. G. Gorer, The Pornography of Death, in Appendice a Id., Death, Grief and Mourning, 1963.

 

[Photo credit  via Unsplash]

banner-riviste-2023-aprile

Scoprire qualcosa mentre si stava cercando altro: il metodo serendipità

Una sintesi perfetta.
Una sintesi perfetta tra le espressioni latine homo faber fortunae suae e carpe diem.
Il concetto di serendipità, introdotto per la prima volta da Horace Walpole in una lettera del 1754, ha i crismi del valido metodo scientifico e dell’efficace strategia di coping. Ma non solo: cogliere l’attimo in una determinata situazione ci rende non solo artefici del nostro destino, ma ci fornisce anche una prova empirica di aver saputo trovare il bandolo della matassa.
Farlo in maniera consapevole restituisce, infatti, la dimensione dello stupore provato dal grande autore gotico nello scoprire inaspettatamente un dettaglio in un quadro antico. Una piccolezza, a suo dire, entusiasmante.

Tre prìncipi di Serendippo, l’antica fiaba persiana a cui fa riferimento Walpole, racconta di come i protagonisti, partiti alla scoperta del mondo, trovino sul loro cammino una serie di indizi che li salvano in piú di un’occasione. Serendip, antico nome persiano dello Sri Lanka, diventa quindi l’ispirazione per descrivere una piacevole e fortunata scoperta non preventivata.

Quando parliamo di serendipità, parliamo quindi di fortuna? Non esattamente. Perché la serendipità é sì fortuna, ma anche qualcosa in piú. È la risultante di una combinazione di sorte, circostanza e conoscenza pregressa.
Lo studio dal titolo Talent vs Luck: The Role of Randomness in Success and Failure di A. Pluchino, A. Rapisarda ed E. Biondo indaga, in questo senso, la valenza di talento e fortuna. Grazie ad una simulazione computerizzata, i tre ricercatori sono stati in grado di quantificare il ruolo del caso nel raggiungimento del successo di un determinato numero di persone, dotate di un talento distribuito “a campana”, ricalcando l’effettiva distribuzione del quoziente intellettivo nella popolazione attuale. Con queste premesse, nello studio sono stati distribuiti gli stessi capitali iniziali ai soggetti partecipanti i quali – dopo alcuni incontri casuali con eventi negativi (perdita del 50% del proprio capitale) o positivi (raddoppio dello stesso) – hanno mostrato un risultato molto interessante, ossia che quasi sempre le persone che raggiungono il maggiore successo, nell’arco di un’ipotetica carriera lavorativa di 40 anni, sono quelle più fortunate e con un talento poco sopra la media.

Proprio come accaduto ai tre principi, il talento è necessario, ma non sufficiente. Per avere un qualsiasi tipo di successo, sia esso il raggiungimento di un obiettivo o il superamento di un ostacolo, serve anche una dose di buona sorte. Lo studio appena citato ci offre, tuttavia, solamente uno spunto su cui riflettere, volendo effettivamente indagare qualcos’altro. Quello che è stato definito dagli stessi autori come risultato interessante ci aiuta, praticamente, a dimostrare come le fondamenta della serendipità siano una solida realtà e non solamente un’artefatta teoria. L’occasione di trovare una cosa in maniera imprevista, mentre se ne stava cercando un’altra (cioè appunto la serendipità) si concretizza, allora, non solo con fortuna e talento, ma anche e soprattutto grazie ad un socratico spirito critico, “sapendo di non sapere”.

Più volte è stata tirata in ballo la parola talento. Vale a dire? Potremmo forse considerarlo una predisposizione naturale a fare o comprendere qualcosa “meglio” di altri. Questa innata attitudine, coltivata con i giusti mezzi, può portare a risultati strabilianti. Banalmente: non c’è percorso di studi che tenga senza quell’acume in grado di poter dare significato a tutto il materiale raccolto.

Praticamente quello che accadde all’astronomo Wilhelm Herschel che, nel 1781, cercando delle comete, si ritrovò ad osservare, per la prima volta nella storia, il pianeta Urano. L’astronomo tedesco se ne rese effettivamente conto notando l’orbita ellittica del gigante gassoso, tipica appunto dei pianeti e non delle stelle comete, obiettivo iniziale della sua osservazione. La scoperta di Herschel ci dimostra come l’attenta ricerca di effetti non calcolati, utili per portare alla formulazione di nuove teorie, possa essere effettivamente usata dal ricercatore come un paradigma valido scientificamente. Un metodo vero e proprio. 

Di questo ce ne possiamo rendere conto anche nella vita di tutti i giorni. In situazioni di novità ed incertezza, infatti, la mente è attiva e vigile e, per certi versi, lavora pure meglio. Saper divergere dalle ipotesi iniziali e considerare positivamente soluzioni inedite e non preventivate sono tutte valide strategie di adattamento. In fin dei conti, la capacità di far fronte a determinate situazioni, usando tutte le risorse possibili immaginabili (fortuna compresa), come anche dover risolvere problemi, altro non è che superare una serie di ostacoli per raggiungere un obiettivo. Pensare out of the box, in modo creativo e laterale, aiuta non solo ad allargare gli orizzonti ma anche a riconoscere i colpi di fortuna quando questi si presentano, anzi: quando siamo proprio noi a fare in modo che diventino realtà.

Milo Salso
Nato a Venezia nel 1987, si laurea in psicologia sociale e del lavoro a Padova. Dal 2015 lavora e risiede a Vienna, dove si occupa di marketing e di project management. Avido lettore, nel tempo libero crea cruciverba a tema libero.

[Photo credit Alois Komenda via Unsplash]

banner-riviste-2023-aprile

Il viaggio dell’eroe della mitologia nella società di oggi

La società attuale segue una profondità dinamicità interna: ogni attimo diventa essenziale per poter cogliere le migliori occasioni, altrimenti si rischia di rimanere indietro. Il presente è più vivo che mai, ma risulta difficile poterlo afferrare: ciò che ieri era il meglio, oggi rischia di non esserlo più e l’indomani offre sempre novità imprevedibili. Ecco che l’immagine di ciascun soggetto difficilmente ottiene un punto di appoggio su cui costruirsi. Per tentare di rimanere a galla, si ricerca questa àncora nell’accettazione dagli altri: mostrarsi parte integrata in questa dinamicità. Questo stile di vita però rischia di disperdere ciò che rende davvero umano: importa solo l’apparenza, la soggettività passa in secondo piano, portando alla anonimità. È possibile trovare un punto di appoggio diverso che possa riportare se stessi al centro?

Lo scrittore Joseph Campbell, nella sua redatta antologia di conferenze Percorsi di Felicità (2004), propone un punto fermo, non da cercare all’esterno, ma da ricercare in se stessi. Questo è raggiungibile solo se si esce dallo stato di sonnolenza, favorito dall’adeguamento sociale, per poter concepire un nuovo senso di cosa significa essere umani. Per giungere a ciò, Campbell propone di riportare in auge una prospettiva che al giorno d’oggi non ha molta considerazione nel mondo occidentale: la mitologia.

La mitologia ha sempre avuto un ruolo centrale nella esistenza umana: costruire un significato che intrecciasse ogni cosa. Nel corso dei secoli il suo nucleo è sempre rimasto invariato; non è un caso che in ogni civiltà si ritrovino miti che cercano di offrire una spiegazione in cui ogni cosa ha un preciso scopo, e in cui si intessono le leggi da rispettare per garantire un equilibrio generale. La sua finalità ultima era quella di costruire un modello attraverso cui l’uomo potesse scoprire il suo ruolo nel mondo. Non si tratta tanto di aderire ad una prospettiva teologica, quanto piuttosto di formarsi come esseri umani, grazie alla funzione pedagogica che può ancora dare un valore tutto da gustare e da sfruttare.

Quello che infatti oggi sfugge, riguarda il profondo legame tra natura umana e mitologia: i racconti mitici non sono nulla di estraneo all’esistenza, quanto proiezioni dell’inconscio collettivo. Campbell propone una visione secondo cui ogni mitologia propone modelli come esempio, in cui i protagonisti fuggono dal ruolo impostogli per poter arrivare a essere se stessi. Ognuna di queste mitologie presenta il tentativo di connettere l’uomo con la propria dimensione interiore di umanità, testimonianza è la presenza di un filo conduttore comune: il viaggio dell’eroe. Questo è caratterizzato dalla presenza di un singolo che decide di andare incontro a ogni sfida, ad ogni pericolo, per poter tornare trionfante nella sua terra, profondamente cambiato.

È possibile costruire un parallelismo con la vita quotidiana: ogni sfida riguarda un confronto con sé stessi affinché ci si possa ricostruire pezzo dopo pezzo, liberi da ogni catena. L’eroe è ciascuno di noi che si avvale delle sue risorse per poter trovare la propria felicità, una connessione profonda con la sua interiorità. La strada di questo viaggio non è battuta: non esiste un sentiero preimpostato. Ciascuno deve avventurarsi da solo, ognuno possiede una soggettività irriducibile a cui nessun’altro ha accesso.

«Noi entriamo nella “selva oscura” dal punto più buio, dove non ci sono sentieri. Dove c’è un sentiero o una strada, è il sentiero di qualcun altro; ogni essere umano è un fenomeno unico. L’idea è di trovare il proprio percorso verso la felicità» (J. Campbell, Percorsi di felicità, 2004).

La propria soggettività richiede di essere ascoltata: solo ognuno può fare i conti con sé stesso. L’intero percorso è solcato da rischi, più di una volta la tentazione di tornare indietro si farà sentire, ma anche solo la possibilità di gustare una felicità autentica permette di non demordere:

«Ripetutamente siamo chiamati al regno dell’avventura, verso nuovi orizzonti. Ogni volta si presenta lo stesso problema: rischio? E se si rischia, ci sono pericoli e aiuti, realizzazione e fallimento. La possibilità di fare fiasco c’è sempre. Ma c’è anche la possibilità della felicità» (ivi).

Questa funzione pedagogica del mito oggi viene applicata in modo diverso: si ricerca la strada non nell’ascoltare gli altri, come nella tradizione orale mitica, ma in uno spazio privato grazie alla lettura. La narrativa risulta svolgere lo stesso compito: diversi autori offrono spunti di vita entro cui ognuno può ritrovare affinità con sé. Il libro diventa il miglior alleato di ciascuno di noi, uno strumento da usufruire per aiutare ad imboccare quella strada nella ‘selva oscura’.

 

Tommaso Donati
Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso la Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

[Photo credit Chris Czermak via Unsplash]

banner-riviste-2023-aprile

Il mondo-limite: la sconfinata ricerca della New Media Art

La New Media Art, come tutto ciò che ibrida figure e saperi, vive fin dalla sua nascita in uno stato perenne di confine. Provata ad essere inglobata nel classico mondo dell’arte contemporanea, essa ha subito nel suo percorso tanti fallimenti e critiche. Il suo dinamismo intrinseco, però, le ha permesso di sopravvivere, anzi di evolversi, dagli anni Sessanta fino ad oggi. La miccia che ha fatto esplodere questo nuovo mondo dell’arte si deve al progresso tecnico-scientifico, alla rivoluzione digitale e all’invenzione/introduzione di nuovi media. Questi elementi sono stati usati all’interno dei processi artistici, trasformando il concetto di arte, di figura dell’artista, di valore dell’opera d’arte (mercato ed economia dell’arte) e di cura e conservazione delle opere.

La vitalità che si coltiva nella New Media Art è la ragione del suo esserci e delle sue variegate testimonianze. Non è, quindi, fonte di sorpresa immaginare che la New Media Art, concepita come fruibile e vivibile, non più come fine a sé stessa, sia il prodotto di interazioni e collaborazioni tra scienziati (all’inizio, perlopiù, ingegneri informatici) e artisti.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come già fatto notare negli anni Trenta del Novecento da Walter Benjamin, ha messo in crisi l’aura dell’opera d’arte, ossia l’attribuzione di valore:

«Mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica» (W. Benjamin, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1998).

Certo, la questione intorno alla riproducibilità è chiaramente antica – fin dall’invenzione della stampa nel Medioevo – ma si è rinnovata nel tempo a fianco del progresso tecnologico. Con la rivoluzione digitale, infatti, il medium ha assunto un’importanza valoriale sopra ad ogni aspettativa, portando all’introduzione di due concetti fino a quel momento assenti: la connettività e l’economia dell’attenzione.

Come afferma Derrick De Kerckhove:

«Il nostro pensiero è ipertestuale. Attraverso il web, noi proiettiamo all’esterno tale modalità del pensiero. La Rete porta la connettività dentro la collettività e, contemporaneamente, dentro l’individualità» (A. Buffardi, D. De Kerckhove, Il sapere digitale. Pensiero ipertestuale e conoscenza connettiva, 2011).

La pratica del networking (connettività), tipica della New Media Art, è cresciuta dal campo fisico al campo digitale, permettendo agli artisti provenienti dai luoghi più disparati di scambiare idee e creare nuove prospettive artistiche, influenzando il pubblico e influenzandosi tra di loro.

Nel 1969 Herbert Simon introdusse il concetto di economia dell’attenzione, che collegandosi al precedente, lo completa e ci testimonia come la società industriale abbia ceduto il passo alla società dell’informazione, in cui la mole gigantesca di informazioni a cui è sottoposto il pubblico determina un’inevitabile perdita di attenzione, che a sua volta diventa la meta da conquistare per chi produce contenuti e opere.

Se prima, quindi, esisteva una certa distanza tra l’opera d’arte e l’osservatore, i nuovi media producono quello che viene definito da Manovich, riprendendo il pensiero di Paul Virilio, big optics

«[…] l’era post-industriale elimina totalmente la dimensione dello spazio. Quantomeno in linea di principio, tutti i punti della Terra sono ormai accessibili istantaneamente da qualunque altro punto del pianeta» (L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, 2002).

Sebbene questo annullamento della lontananza tra osservatore e osservato rappresenti in senso negativo una perdita di focus attentivo da parte del primo, diventa paradossalmente un punto forte su cui poggia la struttura della New Media Art. Il pubblico non si sente più lontano dall’opera d’arte, ne è prossimo; anzi, ancor di più, interagisce con essa, affinché diventi parte integrante dell’opera stessa.

L’instancabile dinamicità e il continuo bisogno di interattività della New Media Art sono gli ingredienti che la rendono una fabbrica di creatività e di svariate forme di arte che vanno dalla computer graphic, all’animazione, dal video alle installazioni, passando per la realtà aumentata e per quella virtuale. Sebbene sia un’arte considerata spesso effimera per la sua esistenza breve e mutevole, essa rappresenta, in conclusione, la sfida contro ogni genere di convenzione e la possibilità sia per gli artisti sia per il pubblico di esplorare tematiche così diverse tra di loro, in modi che probabilmente sarebbero stati impossibili con i mezzi tradizionali.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Zach Key via Unsplash]

banner-riviste-2023

Ispirazione, interruzioni e scelte. Sull’impotenza progettuale dell’eccesso

Ispirazione. Questione alquanto dibattuta nel mondo artistico e quasi mai compresa al di fuori di esso, potrebbe essere definita, forse un po’ rozzamente, come un cartello ad un bivio, come il  motivo forte di una scelta. Come ciò che, finalmente, ci smuove. E smuovere è più che muovere, poiché  presuppone una situazione di precedente stallo.

Si racconta che, nel 1967, niente meno che l’architetto Carlo Scarpa, convocato all’ultimo minuto da  due colleghi per l’allestimento italiano per l’Expo di Montreal previsto per quell’anno, sollecitato a  dare una risposta in tempi brevissimi, abbia detto loro qualcosa come: “Non lo so, forse domani mi  viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”1. A tal proposito, si potrebbe forse affermare: questione di “ ispirazione ”.
Ecco, queste parole di Scarpa, forse il più grande architetto d’Italia del secolo passato, potrebbero  tornare utili per una riflessione intorno alla progettazione, a più di mezzo secolo di distanza – una progettazione intesa in senso ampio, che non vuole riguardare solo l’ambito artistico ma, più in generale,  quello della vita

Viviamo nell’era dell’abbondanza. L’attuale surmodernità – Marc Augé battezza con tale termine l’epoca contemporanea – è, per definizione, opulenta ed eccessiva, qualcosa di tracotante: «È dunque attraverso una figura dell’eccesso […] che si  può cominciare a definire la condizione di surmodernità» (M. Augè, Nonluoghi, 2009). Un altro pensatore che avalla la condizione  di odierna “abbondanza” – in primis, abbondanza di reti sociali e di risorse artificiali – è il filosofo  Byung-Chul Han, che parla di depressione e burnout, le due nuove malattie del secolo, come causate  da un eccesso:

«Si tratta di stati patologici da ricondurre a un eccesso di positività. […] La violenza della  positività [è] derivante dalla sovrapproduzione, dall’eccesso di prestazione o di comunicazione» (B.C. Han, La società della stanchezza, 2020). 

All’interno di questa cornice, viviamo, anche, nell’era dei “big data”: dati non di per sé grandi e rilevanti, ma tanti. Tantissimi. Grandi masse di dati che, assieme con l’ovunque diffusa sovrainformazione, sono indiscutibilmente utili in molti ambiti, inequivocabilmente troppi se si parla di progettualità e progettazione.
Difatti, pensare che da una situazione sovrainformata o sur-dataistica – ovvero costituita di una quantità smoderata ed apparentemente infinita di dati – possa nascere in automatico un progetto è come  pensare che da un’orgia di impotenti possa nascere una creatura: piuttosto difficile. L’abbondanza non  sempre è sinonimo di fertilità

Riassumendo, si potrebbe affermare che l’odierna sur-modernità, più che nel passato, ci allontana dal fare e compiere delle scelte. La sovrainformazione mediatica, poi, nasce anche dall’infinita disponibilità di spazio per lo stoccaggio e per l’archiviazione: spesso non ci curiamo della rilevanza delle informazioni proprio perché tanto si tratta solamente di qualche kilobyte in più – che sarà mai? Ecco, allora, che il nostro “archivio mentale” assomiglia sempre più a quell’orgia infeconda. Insomma, direbbe Jason Bourne: «Cerca di capirmi: devo sapere alcune cose. Non tutte: tante quante ne bastano per prendere una decisione» (R. Ludlum, The Bourne identity, 1980).
Alla base del progetto, infatti, c’è sempre una scelta. E la scelta, sin dalla sua etimologia, sta a rivendicare l’atto del separare: la scelta presuppone dei rifiuti, delle negazioni e degli scarti. Prendere delle decisioni – ovvero, in termini minimi, progettare – significa compiere delle scelte, così discernendo e separando l’enorme, e di per sé inutile, montagna dataistica ed informativa. Lo scegliere ci costringe a dei bivi che, uno dopo l’altro, ci fanno fare a fette l’immensa mole dei dati che ci si parano di fronte – ché questi, da soli, non porterebbero ad alcunché.

Cosa ci smuova di fronte a questi bivi è ancora, in realtà, incerto. A quanto pare, perlopiù nel mondo artistico, alcuni la chiamano “ ispirazione ”. Sta di fatto che c’è di mezzo il concedersi del tempo proprio, del tempo-con-sé.
Riprendendo Paul Valéry, la scelta inizia con un’interruzione: interruzione rispetto al flusso e rielaborazione critica – e quindi progettuale – dei dati a disposizione. E l’ispirazione prende le mosse da un’interruzione: essa è più simile ad un rebus dentro di noi (fenomeno interiore) che ad una folgorazione dal cielo sopra la nostra testa (fenomeno esteriore).

E a qualcuno che dovesse ancora chiedere cosa si intende la parola ispirazione, allora, dovremmo modesta- mente rispondere: “Non lo so, forse domani mi viene un’idea, forse tra un anno, forse mai”.

Tommaso Antiga
Nato a Conegliano nel 1998, è Architetto e Dottorando di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trieste, precedentemente laureatosi al corso di Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università degli Studi di Udine con una tesi in forma di discorso sul tema della morte e dei suoi luoghi, portato avanti con il Prof. Giovanni La Varra. Da sempre appassionato anche di arte e filosofia e, nel tempo libero, aspirante scrittore

 

NOTE
1. Cfr. O. Lanzarini, Carlo Scarpa e il disegno, in DISEGNARECON n. 3 – Codici del Disegno di progetto. Appunti di  studio, Vol. 2, 2009, p. 6.

[Photo credit Shane Rounce via Unsplash]

banner riviste 2022 ott

 

Riflessioni del gesto quotidiano: uno sguardo alla finestra

Affacciati alla finestra, osserviamo il mondo. Volgiamo il nostro sguardo al di là del vetro in cerca di immagini, proiettandovi pensieri, sogni e desideri. Un gesto semplice, usuale, comune, che reca con sé la storia di un’intera cultura.

Lo “sguardo dalla finestra”, intrecciandosi a concetti quali l’immagine, la soggettività, il punto di vista, ha tracciato – e continua a tracciare – la storia della nostra civiltà occidentale come civiltà dell’immagine. Palomar, celebre personaggio calviniano, giunge immediatamente al cuore di questo intreccio, identificando l’Io con il concetto di finestra: «Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale di una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui […] forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo» (I. Calvino, Palomar, 1983).

Secondo Palomar, i nostri occhi non sono altro che finestre che intrecciano mondi differenti ed eterogenei, così come il nostro sguardo è luogo in cui la vita acquisisce senso come immagine, permeandosi nelle sue forme visibili e invisibili. A livello iconografico, tali riflessioni sono richiamate dalla celebre xilografia di Albrecht Dürer intitolata Disegnatore della donna coricata, scelta da Calvino come immagine di copertina del libro, dove un pittore-osservatore ritrae un nudo femminile seguendo i canoni della prospettiva lineare. Con la nascita del metodo prospettico nel Rinascimento, infatti, l’immagine della finestra si afferma come forma simbolica del mondo occidentale moderno. La stessa etimologia della parola “prospettiva” ne è testimone: essa deriva dal latino perspicio o prospicio che significa “guardare attraverso”. Il quadro, così come recita la celeberrima formulazione di Leon Battista Alberti, diviene «una finestra aperta sul mondo dalla quale si abbia a veder l’istoria» (L.B. Alberti, De Pictura, 1435).

Tuttavia, la finestra, lo sguardo e l’immagine furono una questione essenzialmente occidentale: una questione occidentale con origini mediorientali.

Nella cultura araba, infatti, la visione della luce senza immagini godeva di assoluto monopolio: essa risultava essere un processo dall’esito sempre aperto e incerto e le immagini erano circoscritte all’ambito interno del mentale. Testimone di tale diversità era la differente funzione assunta dalle finestre in Medio Oriente: le Mashrabiyya erano grate di legno intrecciato utilizzate per schermare la luce dall’esterno verso l’interno. Sciogliendo ogni alleanza tra raggi luminosi e visivi, tali antiche forme di finestre lasciavano penetrare la luce “purificandola” da ogni immagine, invertendo il rapporto dentro-fuori tipico del mondo occidentale moderno. Nel corso del Rinascimento, l’Occidente fece propri gli strumenti arabi – la geometria dei raggi visivi e la misurazione della luce – per elaborare una teoria dell’immagine e della visione del tutto estranea a quella da cui era scaturita.

Alla base delle due culture, pertanto, due «visioni del mondo differenti, che assegnano anche al soggetto un ruolo diverso» (H. Belting, op. cit): da un lato, lo sguardo occidentale, iconico, rivelava il proprio impulso di controllo sul mondo, andando alla ricerca di immagini oltre la soglia della finestra; dall’altro lo sguardo mediorientale era rivolto all’intimità dell’immaginazione, domato attraverso la luce e le sue geometrie.

Nel corso del tempo, il modello occidentale dello sguardo si diffuse ampiamente e globalmente. Ad oggi, noi tutti ci troviamo nell’epoca della produzione, condivisione e archiviazione di immagini, in cui il potere dell’immaginazione sembra non trovare spazio, e i nostri occhi, oltrepassando la soglia delle finestre-schermi, non smettono di desiderare ardentemente il dominio sul mondo come totalità di immagini. Appare chiaro, pertanto, poiché tra le molteplici sfide del contemporaneo vi sia anche quella di riflettere circa la natura di tali sguardi, cercando di metterne in cortocircuito le forme più violente e pervasive.

In questo contesto, conviene chiedersi se non abbia senso provare ad adottare prospettive differenti – di cui quella mediorientale ne è solo un esempio – che possano porre in crisi quell’ingombrante “Io-finestra” tanto caro alla Filosofia quanto sofferto dal signor Palomar. Nel nostro quotidiano, ciò significa provare a esercitare nuovi tipi di sguardi che considerino il mondo non come mera immagine da possedere, ma come luogo da esplorare, inesauribile nelle sue forme e dimensioni. Significa, in altre parole, acquisire nuova consapevolezza di tutti quei gesti tanto più rivoluzionari quanto più usuali e quotidiani, tra i quali il “guardare attraverso la finestra” si colloca sicuramente in prima linea.

 

Benedetta Carraro

 

Benedetta Carraro nasce a Milano nel 1998, frequenta il Liceo Classico A. Manzoni e consegue a pieni voti il titolo di Laurea magistrale in Filosofia del mondo contemporaneo nel luglio 2021, con una tesi dedicata ai concetti di sguardo, immagine e visione. Da un anno svolge attività di ricerca per un progetto basato sulla convergenza tra arti visive, tecnologie avanzate e neuroscienze.

 [Photo credit unsplash.com]la chiave di sophia 2022

Brevemente, sull’amore

Esiste un ormone nel corpo umano definito “ormone dell’amore”. Si tratta dell’ossitocina, un ammasso di amminoacidi che permette di amplificare le esperienze emozionali che viviamo, riempendole di entusiasmo e trepidazione.

In realtà sarebbe più corretto definire questa componente dell’individuo, come “ormone dell’innamoramento”, perché è proprio questa fase dei rapporti interpersonali, che suscita fervore e passione. Si tratta di un periodo che può manifestarsi più volte nell’esistenza di una persona, ma che può durare pochi mesi o, nelle situazioni che hanno uno sviluppo più lento, fino a tre anni. La differenza tra innamorarsi e amare risiede, dunque, in questo: lasciarsi travolgere dall’istinto e, al contrario, decidere di stare accanto ad una persona. Due fasi spesso accomunate, ma in realtà opposte, che presuppongono due tipi diversi di predisposizione, che possono susseguirsi, ma mai sostituirsi.

Ci troviamo nell’epoca in cui esse vengono confuse, spesso abbandonando la nave poco prima che ci si possa ritrovare nello stadio della responsabilità, della scelta, dell’amore. Il confronto – talvolta scontro – che Hegel poneva alla base della crescita dell’Io attraverso l’altro, viene considerato come superfluo, come un qualcosa di nefasto da tenere debitamente lontano. Ci si rifugia in considerazioni, quali: “la vita è già difficile, perché dover lottare anche per amore?” Quasi come se l’amore fosse un residuo, una sorta di tertium non datur dopo il lavoro e gli impegni personali; chi me la fa fare?

La risposta la si potrebbe trovare ne L’amore ai tempi del colera, in Jane Eyre, o più semplicemente parlando con i propri nonni o i propri genitori. Tuttavia il confronto ha lasciato spazio all’individualismo, in base al quale ognuno sa badare a sé e nessuno ha bisogno di nessuno. La conseguenza non è un mondo più perfettibile, bensì una vera e propria castrazione di emozioni. Ci siamo resi fautori di strumenti e di istituti che – a guardare indietro – viene da chiedersi come si potesse vivere senza. Si pensi al divorzio, all’aborto, alla possibilità di cambiare città in pochissimo tempo; forse, però, ci siamo al contempo dimenticati della parte “positiva” della vita, laddove il termine in questione fa riferimento alla sua naturale etimologia e che – dal latino ponĕre, ci regala il significato di “porre”, “fare”, “aggiungere”. Ci siamo dimenticati di come si ama. Sono forse le priorità ad essere cambiate?

Galimberti, eccelso pensatore e scrittore, parla di questa come dell’ “epoca della revocabilità”; un’epoca in cui si «sviluppa un concetto di libertà come assoluta revocabilità di tutte le scelte, che non implicano più impegni e conseguenze perché tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, dalla scelta di una gravidanza o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena si offrono opportunità all’apparenza più gratificanti.» Ed allora risulta più proficuo vivere il momento, cullarsi nel “qui ed ora”.
Nulla quaestio se, nel rapportarsi in tal modo ad un’altra persona, si comunica in modo diretto e trasparente questo mood prescelto di vita. Ma cosa succede se si ingenerano aspettative, se offuscati, magari da quell’ossitocina che spesso annebbia le menti, non si rende edotto l’altro, del proprio non essere capaci di amare, cioè di “desiderare in modo totale” (dal sanscrito “kama”)?

Il mondo che stiamo costruendo risulta sempre più caratterizzato da un’egosintonia dell’anaffettività, in cui ognuno trova quiete solo nel rapporto con sé stesso, nel prefiggersi continui obiettivi di formazione o di lavoro, tralasciando il lato della medaglia che attiene all’investimento nei rapporti umani. La creazione di un “nido” viene vista come anacronistica, quasi come un affronto alle tante battaglie femministe – a partire dal 1800 con il movimento delle Suffragette – verso la conquista del diritto di voto, di condizioni migliori nei luoghi di lavoro, dell’accesso all’università, dell’uguaglianza uomo – donna. Ma oggigiorno siamo molto distanti da quello che, successivamente, anche nel 1900, Simone de Beauvoir sosteneva e creava, in una Francia colpita dalla seconda guerra mondiale, iniziando dalle menti dei suoi studenti, da un mondo accademico che – nonostante le morti e la disperazione – aveva sete di rinnovamento. Una libération des femmes che chiedeva di aggiungere, di ottenere, di possedere un valore concreto all’interno di una società ancora troppo maschilista e patriarcale per poterne accettare le regole.

Oggi si chiede di poter togliere, abdicare, venir meno. L’ideale è stato per lo più sostituito da un programma giornaliero personale, che non contempla l’altro. In questo contesto, delineare un sentimento in fattezze non evanescenti, diviene un’impresa ardua, che confligge col disperato bisogno di essere protagonisti, di rivestire sempre il ruolo di “figli”, in un mondo con sempre meno genitori.

 

Chiara Savazzi

 

Classe ’93. Laureata in giurisprudenza a Bologna, è dottoranda di ricerca in diritto penale a Catanzaro, dove si occupa principalmente di neuroscienze e imputabilità. Ha un master in diritto di famiglia ed è Coordinatrice Genitoriale, perchè crede che le parole – ancor prima dei tribunali – possano molto. Pubblica su svariate riviste giuridiche e non (Pacini Giuridica, Sole 24 Ore, Il Mulino, ecc), su opere collettanee e su libri di diritto. È specializzanda in criminologia investigativa.
Il suo amore per la scrittura nasce a sei anni e mezzo con la prima poesia “Il sole ride” e, da allora, scrive sempre i suoi contributi a mano, prima di ricopiarli al computer.
Il suo cuore è costantemente diviso: fra due città; fra cane e gatto; fra diritto e letteratura. Ama: i viaggi in solitaria, le persone leali, i mercatini vintage.

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

banner-riviste-2022-feb

(A) cosa serve?

Nei Frammenti postumi1 di Nietzsche, tra i numerosissimi aforismi che vertono sui temi più disparati, è presente un testo in cui è possibile individuare quelli che ci sembrano essere gli elementi costitutivi del nichilismo: mancanza del fine, mancanza del perché e svalutazione dei valori. Volendo disporli secondo un ordine logico, potremmo enunciarli piuttosto così: 1) tutti i valori si svalutano, 2) manca il fine, 3) manca la risposta al perché.

Venendo meno il valore come entità portatrice di senso, vengono meno anche i fini delle nostre azioni. Iniziamo così a domandarci: «perché dovrei agire in questo modo?», ed è quando questa domanda manca di una risposta che la nostra quotidianità diventa piatta e insipida. Ma che cosa può muoverci all’azione, una volta che la giustizia, la bellezza, la generosità, la tradizione ecc. non sono più sentiti da noi come degni di essere perseguiti?

L’unico motivo che rimane è di ottenere qualche cosa in cambio: se infatti agire in virtù della bontà (nel senso più generale di questo termine) dell’azione non ha più senso, per portarci ad investire dell’energia nel mondo non resta che la certezza, o almeno la probabilità, che i nostri sforzi ci faranno ottenere in cambio qualche cosa di concreto. Si innesca così una dialettica del do ut des che pone l’utilità come unico fine dell’azione, fino a farla diventare un surrogato dei valori e a farle riempire il vuoto lasciato dalla morte [scomparsa] di questi. In questo modo, la domanda «perché dovrei agire in questo modo?» diventa «a cosa serve che io compia questa azione?», sostituendo una mera valutazione dei possibili vantaggi materiali alla ricerca di senso sottesa dalla prima domanda.

Questa maniera di pensare è molto radicata in noi, ed è un approccio alle cose che comporta parecchi problemi relativi al nostro modo di stare al mondo. Ci poniamo come centro dell’esistenza, la nostra attenzione è sempre rivolta verso di noi. Ciò produce senso di isolamento, frustrazione, stress: tutto è amplificato nella nostra testa, che lavora ripiegata su sé stessa, senza che niente possa apportare degli elementi di novità, mostrarci le cose sotto un’altra prospettiva, mitigare il travaglio delle nostre coscienze. Ma cosa possiamo fare? Esistono delle soluzioni? Magari dovremmo cercare un modo di rapportarci al mondo che rimetta al centro delle nostre vite l’importanza dell’attività in sé, e che non dia al risultato più spazio di quello che gli è dovuto. Potremmo per esempio chiederci non tanto a cosa serva agire in un certo modo, bensì cosa serva la nostra azione, cioè al servizio di che cosa essa si ponga, e di conseguenza al servizio di che cosa ci poniamo noi agendo in un certo modo, quale atteggiamento incarniamo. Le due espressioni sembrano simili, ma in realtà sono profondamente diverse.

Supponiamo di voler fare l’orto questa primavera. Se ci chiediamo a cosa serve fare l’orto, la risposta immediata è: ad avere verdure fresche e salutari. L’attenzione è rivolta al risultato materiale. Ma proviamo invece a chiederci: cosa serve fare l’orto? Cioè: l’attività di coltivare delle piante nel nostro giardino, a che cosa dà importanza? In questo caso le risposte sono molteplici e di più ampio respiro: coltivare l’orto serve un avvicinamento alla natura, ci mette in una relazione più intima con un aspetto del mondo che abitiamo.

La domanda «cosa serve?» non si interroga sul risultato, ma sul valore dell’azione stessa. Essa aspira a prendere parte a qualcosa di più grande. Incarna un atteggiamento diverso, che proietta verso il fuori e in questo modo scardina la dialettica dell’individualismo e schiude la coscienza ad un mondo di relazioni, di risonanze con le altre coscienze e con il mondo. Entriamo nella concretezza della vita uscendo dall’astrazione solipsista in cui ci eravamo posti. Chiedersi «cosa serve?» è forse anche un allenamento: aiuta ad allargare il proprio sguardo, a prendere in considerazione altri aspetti oltre alla propria individualità, cercando qualche cosa più grande di noi per cui valga la pena agire e a cui prendere parte.

Spesso sentiamo che i valori hanno perduto la loro forza, constatiamo che il fine delle nostre azioni non sempre è facile da individuare ed il senso delle cose sembra scivolarci tra le dita. Forse uno dei sentieri che possono aiutarci ad uscire dallo sconforto che a volte ci prende è capire che il senso non va cercato, ma va prodotto. Questo atteggiamento può aiutare ad aprirci alla rete infinita di relazioni di cui è costituito il mondo.

 

Pietro Bogo

 

Nato a Belluno nel 1994, Pietro Bogo ha conseguito una laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli studi di Trieste. Ha poi continuato i suoi studi presso l’Université d’Aix-Marseille, dove ha ottenuto nel 2019 una laurea magistrale discutendo una tesi sulla relazione tra la sostanza e l’attributo nel pensiero di Spinoza. Ora insegna lettere presso una scuola media di Belluno, continuando a coltivare la sua passione per la filosofia. Nel tempo libero pratica il judo a livello amatoriale ed ama dilettarsi in cucina.

 

NOTE:
1. Nietzsche, Frammenti postumi, 2, 126, 127

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

banner-riviste-2022-feb