Luca Cambiaso: un anticipatore del Cubismo nel Cinquecento

Credo che chiunque abbia una discreta conoscenza della storia dell’arte, alla lettura del titolo di questo articolo provi inizialmente la vaga impressione di essere vittima di una bufala, o quanto meno di una lettura critica volta ad esagerare alcuni aspetti artistici di un pittore antico volendoli forzatamente ricondurre ad altri appartenenti alla contemporaneità. Come è possibile che nel lontano Cinquecento, secolo del Rinascimento e della figuratività classica, un artista potesse avventurarsi a soluzioni così anticipatorie di forme artistiche fiorite nel XX secolo?

Luca Cambiaso - La chiave di Sophia

Eppure, il disegno raffigurato nell’immagine che vedete qui sopra ed in copertina è opera di un pittore genovese vissuto in pieno Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), nome non molto noto al di fuori della cerchia di studiosi e appassionati d’arte, ma importantissimo nella cultura figurativa del capoluogo ligure in età manierista. Autore caratterizzato da una ben consolidata formazione classica, i suoi grandi affreschi che decorano interni di chiese e palazzi genovesi non suggeriscono nemmeno lontanamente uno stile così essenziale e razionale nella pratica del disegno. D’altronde c’è da premettere che la storia del disegno percorre una strada che risulta in parte indipendente da quella della pittura, con la conseguenza che un suo studio approfondito può mettere in evidenza peculiarità stilistiche che rimangono ovviamente nascoste nelle grandi opere ad affresco o su tela. Infatti i disegni venivano usati, nella maggior parte dei casi, come studi di composizione, in cui l’artista sperimentava soluzioni che si adattassero a essere poi riportate, con dimensioni ampiamente maggiori, in una o più opere pittoriche finite.

Alla luce di ciò, è chiaro che ciascun autore disegnava seguendo le proprie esigenze, senza sentirsi vincolato al volere di altri e scegliendo tecniche e stile il più possibile adatti ai propri obiettivi e alle proprie abilità. Il caso di Cambiaso è senza dubbio uno dei più singolari e affascinanti: in moltissimi dei suoi disegni preparatori sceglie di rappresentare le figure mediante un susseguirsi di linee spezzate che ne definiscono in modo essenziale i volumi, evitando l’inserimento di dettagli fisici e mantenendosi su un livello raffigurativo atto solamente a costruire la futura composizione e a metterne in luce le volumetrie. Ma se, da un lato, tutta la produzione grafica di Luca Cambiaso risulta caratterizzata da una resa tendenzialmente geometrica delle figure, il disegno della foto (conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi) supera qualsiasi confronto e si impone come un unicum nella storia dell’arte, rendendo evidentissima un’anticipazione della corrente novecentesca del Cubismo.

Qualcuno potrebbe obiettare che tale anticipazione, oltre a essere un caso palesemente isolato, sia soltanto una mera questione stilistica basata su una vaga somiglianza tra il disegno stesso e i risultati pittorici di artisti quali Cézanne, Picasso e Braque. In realtà anche i presupposti teorici combaciano: non c’è dubbio che l’intento di Cézanne, nei suoi esperimenti che avrebbero influenzato la nascita del Cubismo, fosse quello di scomporre l’oggetto rappresentato presentandone l’essenza, e ciò mediante la sua riduzione a un insieme di masse volumetriche di forma geometrica. Ciò ovviamente rappresenta la base concettuale su cui si fonda anche l’opera di Picasso e degli altri pittori cubisti, ma pure il punto di partenza per l’arte grafica di Cambiaso: cos’è questa se non scomposizione della figura per ottenerne la forma pura, per studiarne le proporzioni e per ricavarne i volumi al fine di sottolinearne la massa e il suo imporsi nello spazio della composizione?

Come conseguenza di queste considerazioni, si può pertanto giungere ad affermare che il Cubismo ha avuto un precedente storico e che Cézanne e Picasso, di fatto, non hanno inventato nulla, in quanto il primo artista a utilizzare questa forma artistica fu il genovese Luca Cambiaso. Con questo, tuttavia, non si devono perdere di vista la portata dell’avanguardia di inizio Novecento, da una parte, e i limiti dell’esperimento dell’artista ligure dall’altra: i pittori cubisti hanno fatto della scomposizione geometrica dell’oggetto il manifesto della loro arte, con la quale rispondere coerentemente al bisogno di rinnovamento da parte del mondo artistico a loro contemporaneo, mentre Cambiaso ne fece uno strumento utile ai propri studi, limitato nell’uso alla pratica del disegno e perciò non destinato a essere visto dagli occhi del pubblico, che certo non avrebbe mai potuto concepire un disegno come questo come opera fine a se stessa. Ed è qui che emerge la distanza incolmabile tra le due simili esperienze artistiche: da una parte la consapevolezza e il supporto filosofico-culturale, dall’altra un atto geniale non destinato ad avere un seguito immediato, parentesi visionaria che, pur inconsapevolmente, supera la fantasia dell’arte contemporanea e ne anticipa largamente i risultati, sottraendole il primato sull’originalità e togliendole la convinzione di aver esplorato un territorio ancora vergine.

Luca Sperandio

[Immagini tratte da Google Immagini]

Olivier Bourdeaut, “Aspettando Bojangles”

Immaginate una famiglia che vive in una grande casa con un pavimento bianco e nero proprio come una scacchiera, un enorme divano blu fatto per saltarci sopra, un tavolo intorno al quale radunare molti ospiti, una credenza che perde foglie e va annaffiata regolarmente e, in un angolo del salotto, un enorme mucchio di corrispondenza mai aperta. L’animale domestico è un volatile fuori misura, una Damigella di Numidia, ribattezzata Damigella Superflua.
In quella casa c’è un papà stonato e giocoso, e una mamma che con le cose pratiche non ci sa proprio fare, ha ogni giorno un nome diverso, ma sempre la stessa voglia di ridere. Una donna che si entusiasma per tutto e se c’è una cosa che proprio non sopporta è la tristezza. La tristezza e la banalità.

«Quando la realtà è banale e triste, inventatemi una bella storia, voi che sapete mentire così bene. Sarebbe un peccato se non lo faceste».

Quei due ballano sempre, brindano e ballano sulle note di Mr. Bojangles, e il loro bambino spesso balla insieme a loro.
Sono proprio gli occhi del bambino a guidarci in una vita fatta di feste, ospiti, musica a tutte le ore del giorno e della notte, genitori gentili, che si amano e lo amano, dove andare a scuola non è un obbligo e a volte si balla così tanto da saltare anche la cena. Una famiglia anticonvenzionale, dove i ruoli sono appena sfumati, che vive fuori dagli schemi previsti dalla morale e dal buon costume.

«Non mi trattava né da adulto né da bambino, ma piuttosto come un personaggio da romanzo. Un romanzo che lei amava molto e teneramente, nel quale s’immergeva in ogni istante».

La loro vita sembra quasi un quadro, un’esibizione sulla quale non scende mai il sipario, lo spettacolo si ripete giorno dopo giorno sempre con lo stesso scroscio di applausi in sottofondo. Eppure, inaspettatamente, il sipario scenderà. Scenderà ogni volta che il filo della narrazione passerà dal figlio al padre, che analizzerà la loro vita da un’ottica differente. La realtà irromperà bruscamente in quella meravigliosa rappresentazione e, con il peggiore dei copioni, la tingerà di tinte cupe. Quella donna che ci era sembrata così eccentrica e divertente, brillante e folle, diverrà all’improvviso fragile, la sua stessa follia assumerà contorni inquietanti e imprevedibili.

«Quel conto alla rovescia, che durante i giorni felici avevo dimenticato di tenere d’occhio, si era messo a suonare come una sveglia infausta e scassata, come un allarme che spacca i timpani col suo incessante baccano, un suono spietato che intima di fuggire subito, che ti urla che la festa è finita, all’improvviso, malamente».

Aspettando Bojangles copertina - La chiave di SophiaDue cose mi hanno colpito molto di questo libro, che ho ricevuto a sorpresa e che all’inizio non sospettavo custodisse una storia così bella: la bolla di follia che circonda questa famiglia, equilibri sottili e meravigliosi, dove ognuno è niente più che se stesso; e l’amore puro che si respira, privato dalle sovrastrutture e dagli schemi che caratterizzano il comportamento adulto.
Si tratta sicuramente di una famiglia disfunzionale, che tuttavia induce il lettore a chiedersi: disfunzionale per chi? In fondo, sorrisi, amore e musica non sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno? Un amore al quale non ci si può sottrarre, un amore pronto a tutto, insolito, irrazionale e allo stesso tempo dolcissimo.

Un esordio che non passa inosservato, una storia fuori dal comune, dove la verità sfuma nella fantasia e la ragione nella follia, un libro da leggere senza preconcetti e difficile da spiegare. Si può forse spiegare una canzone? Per comprenderla, e amarla, bisogna necessariamente ascoltarla.

«Lo so che mi amate, ma cosa ne farò di questo folle amore? Cosa ne farò di questo amore folle?»

Stefania Mangiardi

[Immagine tratta da Google Immagini]

Arrivano i pagliacci – Chiara Gamberale

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Allegra Lunare ha appena vent’anni. Non i soliti vent’anni: non quelli per cui devi iniziare una vita, non quelli per cui guardi soltanto davanti a te.

No. Allegra Lunare ha vent’anni, e deve ricominciare esattamente daccapo. Lasciare la casa dove ha vissuto dal primo dei suoi ricordi migliori la spaventa; la spaventa lasciare quel mare di ricordi belli e un po’ meno belli che ha paura di non riuscire a portare con sé. Così, per riuscire a non avere paura, decide di scrivere una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la sua amata casa, dove racconta la storia di ogni oggetto che troveranno o di quelli che non troveranno, perché li porterà con sé.

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La crisi delle idee, il culto del già visto

Nel Quattrocento veniva chiamato: “stile imitativo”, ed indicava la bravura e la capacità di svariati interpreti nell’imitare le più note composizioni polifoniche scritte dai musicisti dell’epoca. Non eri bravo se inventavi, eri stimato se copiavi quello che già era stato fatto. Vi suona familiare? Dovrebbe, perché il nostro universo artistico-culturale funziona oggi allo stesso modo. Vi proviamo a spiegare perché.

“È la nostra difficoltà a vedere le cose in maniera diversa, originale, creativa che ci fa pensare non ci sia più nulla di nuovo da dire o da scoprire.” Vannuccio Barbaro, poeta del Web, usa questa massima per descrivere una crisi quanto mai sintomatica e preoccupante nel mondo delle Arti. Musica, Pittura, Cinema sembrano non avere più nulla da dire. Ricorrono a schemi e formule già usate in passato, si rifugiano nell’imitazione e nel recupero del già visto, come se ci fosse una sorta di timore nei confronti dell’atto di creare qualcosa di nuovo, finendo per chiudersi nella pavidità della situazione già sperimentata e collaudata. Qualche esempio pratico, per chiarirvi il concetto. A livello musicale, la grande produzione del genere commerciale (l’unico ancora capace di vendere qualche disco, anche solo in versione digitale) ha visto in questi anni la comparsa di svariati artisti che hanno riscosso ottimi successi e consensi, proponendo in versione rivisitata, canzoni che avevano già avuto un loro vasto successo discografico. E’ il caso di fenomeni come i Pentatonix, gruppo americano “a cappella” che ha reinterpretato in tre dischi le più grandi hit della recente scena pop. Oppure dei 2Cellos, The Piano Guys e David Garrett, paladini della musica classica, resa fruibile alla massa attraverso la “coverizzazione” di melodie rock e dance. Si suona qualcosa di già sentito e amato e lo si ripropone in una nuova veste, alla quale è stata tolta la polvere e la noia degli anni che passano.

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Lo stesso discorso è applicabile al mondo del Cinema. Se ci fate caso, la notizia che ha tenuto banco tutta questa settimana non è stata l’uscita di qualche nuova pellicola nelle sale (e ci sarebbe stato molto su cui parlare) bensì il ritorno con furore di David Lynch e della sua serie culto “Twin Peaks”, tornata sotto i riflettori dopo oltre vent’anni. Un annuncio arrivato dopo mesi di rumors tra gli appassionati della Rete e che ora sfocerà in una  terza stagione, di fatto una miniserie di 9 episodi, che andrà in onda sulla rete via cavo Showtime. Non si tratta di un remake, ma della continuazione aggiornata ai giorni nostri delle storie interrotte da ABC nel 1991. Lynch scriverà le sceneggiature con Frost e curerà la regia di ciascun episodio. Non un rifacimento, ma un’astuta trovata per tornare sulla cresta dell’onda e godere di quella gloria così difficile da abbandonare, una volta dopo averla conquistata. Ma il filone del “già visto” cinematografico prosegue nelle sale italiane in questi giorni, dove potrete trovare “Billy Elliot – Il musical”, rifacimento canterino dello storico film che sbancò i botteghini di tutto il Mondo non molti anni fa. Oppure vi basterà aspettare il weekend di Halloween per gustarvi il nuovo “Dylan Dog – Vittima degli eventi”, una rilettura tutta italiana di uno dei fumetti più abusati sul grande schermo. Lo spettacolo in questo caso, dovrebbe valere il prezzo del biglietto, ma resta sempre il fatto che di idee originali si comincia a sentirne sempre più la mancanza.
Tirado le somme, quella che stiamo commentando non è in realtà una vera crisi, anche se ne avrebbe tutte le caratteristiche. E’ una fase di passaggio storico in cui è la povertà culturale a farla da padrone, ma che in ogni caso è destinata a concludersi. Inutile fasciarsi la testa. Lo spettatore medio oggi è una semplice marionetta lobotomizzata, nelle mani delle case di distribuzione e dai responsabili del settore, il cui unico talento è quello di aver saputo trasformare l’Arte in una spietata industria capitalistica, dove non c’è posto per chi non sta al passo con i tempi e non porta a casa il fatturato necessario. Sotto sotto del buono c’è sempre, sapendolo cercare. L’originalità non è certo morta, aspetta solo che questa crisi delle idee si consumi come un’araba fenice per tornare in un futuro prossimo a illuminare i fruitori della cultura con una nuova luce. D’altronde come diceva il grande scrittore José Saramago:
“Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, andare ad osservare la pietra che con il tempo ha cambiato posto.”
Alvise Wollner
[Immagini tratte da Google Immagini ]