Meglio buoni o cattivi? Un confronto con l’Oriente

Una delle domande più scottanti che la filosofia si è posta – anche se come da tradizione non ha ancora trovato una risposta – è quella relativa alla natura degli esseri umani: siamo buoni o cattivi, altruisti o egoisti, virtuosi o dissoluti? E se siamo buoni, come rimaniamo tali nonostante tutte le tentazioni che gli altri e il mondo ci offrono quotidianamente; mentre, se siamo cattivi, come ribaltiamo la nostra natura?

La filosofia occidentale è nata e cresciuta sotto il marchio dell’individualismo, secondo cui ogni uomo rappresenta una cellula a se stante che è in tutto e per tutto indipendente da ogni altro uomo, e ha sviluppato una concezione egoistica dell’essenza dell’uomo. L’esempio più evidente è certamente quello di Hobbes che, riprendendo la citazione di Pluto, descrive il comportamento dell’uomo nei confronti dei suoi simili come quello di un lupo (homo homini lupus est). L’uomo nello stato di natura uccide e assoggetta chiunque si interponga tra sé e i suoi interessi privati, poiché ogni uomo rappresenta un potenziale ostacolo a questo soddisfacimento. Ciò significa che per Hobbes la natura umana si caratterizza come fondamentalmente egoista, cosicché ogni azione compiuta ha come oggetto più proprio soltanto l’istinto di sopravvivenza e quello di sopraffazione. Non c’è quindi nessuna possibilità che l’uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un naturale sentimento di amore verso il prossimo, come quello della compassione o della benevolenza. Al contrario, se gli uomini si legano tra loro in amicizie o società, ciò è dovuto soltanto a causa di un timore reciproco, che costringe a regolare ogni rapporto intersoggettivo (privato e pubblico) secondo delle leggi ben precise. Pare insomma non si possa essere buoni.

Tuttavia, l’individualismo e l’egoismo, che la filosofia occidentale afferma come una possibile verità, sono soltanto la voce più prepotente di una certa tradizione di pensiero, non di certo del pensiero in generale. E, infatti, altre tradizioni filosofiche – più incentrate sull’interconnessione di tutte le cose che sul singolo individuo – hanno dato una risposta diversa al quesito da cui siamo partiti. In particolare, nella filosofia cinese spicca la figura di Mencio, un pensatore confuciano, che ha una fede assoluta nell’intrinseca bontà degli esseri umani. Per dimostrare la sua convinzione in modo chiaro ed evidente, Mencio sviluppa un esperimento mentale che ha per protagonista un uomo e un bambino. Certamente questo esperimento non nasce come un’obiezione rivolta a Hobbes, ma è altresì vero che si applica benissimo alla filosofia egoistica di questo filosofico come sua controprova. Ecco l’esperimento mentale di Mencio:

Supponete che vi sia qualcuno che all’improvviso veda un bimbo nel preciso momento in cui sta per cadere in un pozzo; ebbene, chiunque proverebbe in cuor suo un senso di apprensione e sgomento, di partecipazione e compassione1

Analizzando quello che Mencio dice con grande semplicità, possiamo notare che ogni parola e ogni frase sono accuratamente selezionate. Prima di tutto, Mencio suppone che all’improvviso un uomo veda un bambino cadere in un pozzo. L’esser improvviso della vista del bambino è importante perché dimostra che la reazione avuta non è frutto di un calcolo riflessivo: non c’è tempo di pensare ai genitori del bambino, che potrebbero starci simpatici o anticipatici; non c’è tempo per calcolare i benefici che potremmo ottenere salvandolo; e non c’è neanche tempo di ponderare il fastidio che i pianti del bambino ci causerebbero, essendolo lui solo. Inoltre, Mencio è molto scaltro ed evita di dire che gli uomini, vedendo il bambino in difficoltà, lo salverebbero dal pozzo. Al contrario egli si limita a riconoscere che tutti proverebbero un immediato e genuino sentimento di compassione. Quindi, ciò che Mencio afferma con questo esperimento mentale è la capacità universale degli esseri umani di provare un sentimento di compassione. Questo sentimento li caratterizza nel profondo, tanto che se un uomo non avesse questo sentimento, gli mancherebbe qualcosa di cruciale per essere definito come un essere umano.

Caratterizzando la natura umana sotto il segno della bontà, è chiaro che Mencio esclude che il timore reciproco possa essere la base di ogni relazione; piuttosto, gli uomini si uniscono per un bene e un amore comune a crescere insieme e sviluppare la loro disposizione più innata.
E voi, vi sentite più buoni o cattivi?

 

Gaia Ferrari

 
NOTE:
1. Mencio 2.A.6

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Individuo e collettività: storia e geografia di un ideale filosofico di vita

Oriente e Occidente sono una grande dicotomia. Al di là della geografia, una profonda faglia culturale li divide da migliaia di anni, a dispetto di alcune recenti tendenze omologanti che hanno perturbato il primo su imitazione del secondo. Nella Cina moderna, così come in Giappone, tanto per citare due paesi orientali competitivi in fatto di modernità, le persone si vestono perlopiù come noi occidentali. Bramano oggetti tecnologici e assecondano smanie consumistiche tanto quanto noi. Eppure, sul piano sociale una grossa differenza permane e per capirla occorre dare una rapida occhiata al momento forse più cruciale della separazione dei destini tra Oriente e Occidente: l’ascesa a potenza della Grecia e l’avvento della filosofia.

Insomma, un balzo di oltre 24 secoli che ci riporta a quando le gloriose gesta delle flotte navali delle città greche, numericamente inferiori ma unite nella causa comune contro lo straniero invasore, sconfissero, con perizia e fortuna, i Persiani.
Come afferma il saggista italo americano Federico Rampini1, la vittoria sui quei barbari plasmò l’immagine che i Greci ebbero di loro stessi nei confronti del mondo. La potenza avversaria era immensa, sostenuta da un dominio dispotico e compatto, a dispetto della Grecia, dove le città-stato erano gelose della propria autonomia ma libere di associarsi nel reciproco interesse.
E nel V secolo, mentre i Persiani perdevano, Socrate spargeva ad Atene i semi della filosofia, quella disciplina che, a differenza di tutto il sapere precedente, affidò poi alla scrittura la sua contagiosa potenza raziocinante.

La ragione come faro e la perenne lotta contro la natura per arginare il suo potere terrificante, sono la forza propulsiva dell’Occidente, con la sua attitudine predatoria, antagonista del caos e delle forze ctonie della Terra. La filosofia e la scienza diventano per l’Occidente le forme di sapere funzionali al potere, che attraverso l’uso disciplinato della ragione cercano di mettere in scacco le forze brute della natura, sancendo la divisione tra bene e male, civile e barbarico, dominio e sottomissione. L’emancipazione dall’animalità attraverso il sapere rappresenta la concreta possibilità che gli individui hanno di riscattarsi dall’essere meri funzionari della specie. La conoscenza illumina la via della libertà come promontorio accessibile all’individuo in virtù delle sue singolari qualità razionali. Nietzsche definisce questo percorso attraverso il concetto di apollineo. Apollo è l’immagine divina del principio di individuazione2. L’apollineo è la concretezza della persona occidentale, la sua emergenza, il suo possesso di libertà, diritti e massima espressione. L’individualismo di massa, per contro, è certamente il suo peccato originale.

E in questi due millenni e mezzo l’Oriente cos’è diventato?
La differenza cruciale, a noi più visibile in un momento in cui la nostra forza come massa appare insignificante di fronte all’urgenza di fare comunità e unirsi nella prudenza, è proprio la capacità stessa di sentirci collettività. Mentre qui a ovest scolpivamo i concetti di persona, coscienza, diritti e libertà, a est le culture religiose celavano il segreto dell’individualità cullandosi nella contemplazione del cosmo, nelle discipline custodi di potenze interagenti, complementari, negli equilibri con la natura, nel potere del silenzio e della meditazione. Non solo, oggi possiamo vedere come i governi più autoritari, forgiati da decenni di ideologie comuniste indubbiamente avverse all’individualità, possono contare su popolazioni educate al culto della collettività, la quale può anche schiacciare l’individuo e calpestarne certi diritti. Una volontà paternalistica decide tutto dall’alto, chiedendo obbedienza assoluta.

Dove non ci sono governi autoritari troviamo comunque democrazie compatte sul concetto di comunità, abituate dalla religione, come il confucianesimo, all’importanza della disciplina e della collettività. Chiaramente ci sono effetti collaterali anche qui: il potere dell’individuo di erigersi sopra gli altri si scontra su un soffitto neanche troppo di cristallo. Il limite è posto, in un caso, dal timore di leggi pericolose per la libertà e l’incolumità degli individui (come in Cina), nell’altro dallo stigma sociale che riceve chi si discosta dai modelli culturali imperanti – come in Giappone, dove la tutela dei diritti umani incontra ancora difficoltà in ambito di parità di genere, minoranza etniche, omosessualità e non solo.

Le religioni orientali offrono spunti di armonia preziosa per entrambi i mondi: lo Yin e lo Yang del buddismo, ad esempio, ci ricordano che maschile e femminile sono potenze interagenti, ma anche che l’apollineo non può celare il dionisiaco (il suo antagonista) troppo a lungo, poiché esso contiene le forze dirompenti della terra, la sua pretesa assoluta di dare la vita e poi riprendersela: l’eterno limite all’individualità tanto bramata da noi occidentali, insomma.
I diritti dell’individualità rimangono sacri, ma in un momento storico come questo, qui a ovest manca drammaticamente un senso di comunità e il culto sfrenato dell’individualismo non ci è di aiuto ora a tutelare il benessere collettivo.

 

Pamela Boldrin
NOTE:
1- Cfr. F. Rampini, Oriente e Occidente. Massa e individuo. Einaudi, 2020.
2- Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, opera del 1872.

(Immagine di copertina proveniente da Pixabay)

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Creta, Dioniso e la nascita della filosofia

Dioniso è una divinità molto complessa, capace di demolire le difese dell’ego e portare alla condivisione universale. In lui si riversa la pulsione animale e l’anelito al divino, il maschile e il femminile, l’eros carnale e l’ascesi, il turbine delle emozioni più ancestrali e la contemplazione dell’estasi, la discesa negli spazi reconditi e scandalosi dell’anima e la liberazione da essi. Dioniso è simboleggiato nel toro, nel serpente, nel capro o nel satiro, altri suoi simboli sono l’edera, la vite (sarà Bacco per i Romani) e altro ancora, insomma, una molteplicità che ci narra della sua impossibilità a giacere nell’univocità.

Oggi manca un riferimento simbolico così potente nel riunire gli opposti e liberare dall’oppressione del quotidiano. Non ci rimane che interrogarci sulla sua provenienza, per comprendere meglio cosa ci manca.

Nel mondo minoico-miceneo di Creta va ricercata l’origine del suo culto, come scrive anche Giorgio Colli1. Questo ci porta a entrare nel mitico labirinto di Minosse, dove incontriamo anche Arianna e il Minotauro. Il mito che qui si offre potrebbe essere il più antico e fondante della cultura greca, mille anni prima del suo apogeo. In questo misterioso cosmo ebbero origine i caratteri fondanti di quella sapienza che darà poi origine alla filosofia. Nietzsche ha avuto il merito di dissotterrare il dionisiaco e scoperchiare la sua sconvolgente potenza.

Il legame di Dioniso con la filosofia si svela attraverso un racconto tra storia e mito.

Il popolo minoico fu così chiamato dal nome del mitico re di Creta, Minosse, che fece costruire il labirinto per imprigionare il Minotauro, una sorta di alter ego dionisiaco, mostro mezzo uomo e mezzo toro, partorito dalla moglie. Questo mito ci arriva così maneggiato dalla cultura greca e per noi la civiltà minoica non ha voce; quasi cancellata da catastrofi naturali, i suoi resti furono assorbiti dagli invasori, i Micenei.

Il labirinto, riconducibile alla struttura intricatissima dei palazzi minoici, è una figura centrale. Esso simboleggia probabilmente la sfida dell’enigma, il percorso tortuoso e sfiancante della conoscenza, la cui insidia è quella di far smarrire o divorare l’essere umano mentre tenta di emanciparsi dalla sua animalità attratto dall’ammaliante possibilità di elevarsi a dio attraverso il possesso della conoscenza. La tensione dialettica tra le polarità apparentemente inconciliabili della bestialità e della tensione al divino, è il filo, dionisiaco, che conduce alla sapienza.

Chi era il sapiente? «Essere sophos significava essere radicato nell’Assoluto, essere attraversato dall’eternità, ed essere-uno… con l’origine di tutte le cose»2, come nel caso di Eraclito, Empedocle o Pitagora, o tutti gli altri che si collocano prima dello spartiacque: Socrate, l’ultimo sapiente prima che l’impresa della conoscenza si depositasse nella scrittura. La scrittura è percepita come un potenziale inganno perché il sapere è materia viva, dinamica e fluida, si presta al lavoro del confronto, si arricchisce nello scambio umano, con il dialogo e la critica. La filosofia nasce invece come forma letteraria fondata sulla logica raziocinante e rifugge dall’oscurità enigmatica dei sapienti.

La nascita della filosofia si congiunge al declino della sapienza perché se la razionalità tende a essere calcolante e produttrice di ordine, si allontana dal lato oscuro della mente umana, spalancato all’abisso del caos, dove gli opposti convivono e lottano tra di loro. Il sapiente sa sfidare questo abisso e uscirne arricchito, ma esiste una possibilità anche per tutti gli altri. Questa è nel dionisiaco che si offre attraverso pratiche collettive di culti e misteri in cui la condivisione tra adepti consente quella fuga dall’individualità funzionale alla visione liberatoria che il sapiente raggiungeva attraverso percorsi conoscitivi diversi.

Dove la collettività sperimenta rituali di condivisione e fuga dal quotidiano, ma anche quando il singolo abbandona la propria configurazione individuale e temporanea per ricongiungersi al tutto, lì appare il dionisiaco. Di tutto ciò non possiamo che constatare un’enorme assenza, visto il nostro esser consegnati alla logica della ragione senza spazi istituzionali, al di fuori della religione, per coltivare la dimensione più intima, ma collettiva, del nostro io. Questa dimensione è talmente sconvolgente che l’io sparisce, perché in fondo al tunnel c’è l’uno, il tutto, la miscela incendiaria degli opposti. Solo nell’esperienza mistica possiamo ritrovare qualcosa di simile oggi, ma lungi dall’essere un’esperienza collettiva, essa perlopiù rimane qualcosa di individuale.

Alla fine, Dioniso è il filo conduttore di una storia lunghissima, albeggia in civiltà remote e si dissolve nel Cristianesimo, tuttavia non è scomparso nelle trame delle religioni orientali. Egli è sempre pronto a svegliarsi grazie al suo potere: quello di legare tutto assieme e offrirci un momento di liberazione attraverso pratiche che attendono solo di essere cercate e che potrebbero forse lenire la diffusa malinconia della nostra società.

Sull’esempio di Alice nel Paese delle Meraviglie, osate passeggiare sul prato dove nasce la filosofia e poi tuffatevi nella prima cavità per un viaggio nel suo sottosuolo!

 

Pamela Boldrin

 

NOTE:
1. G. Colli, La nascita della filosofia, 1975, p. 25.
2. A. Tonelli, Sulle tracce della sapienza. Per una rifondazione etica della contemporaneità, 2009, p. 33.

[Immagine a cura dell’autrice]

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Equilibrio tra idee e corpo: Giangiorgio Pasqualotto sulle filosofie d’Oriente

Mi sono avvicinata al mondo orientale nel modo più classico con cui lo può fare un ragazzino occidentale: tramite i manga e quelli che qui, in modo quasi sprezzante, chiamiamo ancora “cartoni animati”. Eppure, anche da quelle finestre colorate, chiassose e un po’ assurde, filtra chiaramente qualcosa di quella società per molti versi affascinante che è il Giappone. Crescendo mi sono accorta di quale buco ci sia nell’istruzione e nella cultura italiana (ma oserei dire occidentale) sul mondo orientale: dal salto in lungo sul capitolo di storia dedicato alla formazione dell’Islam e all’espansione araba nel VII secolo, sino alla comparsa delle massime di Confucio esclusivamente all’interno dei Baci Perugina. Eppure un confronto curioso e aperto con pensieri e forma mentis diverse a noi occidentali (oggi forse più che mai) farebbe più che bene.

Sono cresciuta e ho studiato architettura e arte, altre discipline in cui s’ignora ciò che sta dall’altra parte del mondo (ma anche sotto di noi). Ho voluto scoprire davvero che cos’è questo zen con cui tutti si riempiono la bocca e così, incrociando l’arte e la filosofia, sono arrivata ai testi del professor Giangiorgio Pasqualotto, esperto di filosofie orientali e per molti anni docente di Estetica e Filosofia delle culture presso l’Università degli Studi di Padova. È stato un grande onore poterlo intervistare e poter accogliere un suo scritto all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello: in questo numero volevamo indagare non tanto il significato di bello quanto piuttosto le esperienze che facciamo della bellezza, vagliare il suo carattere esperienziale e generativo. Nella risposta dell’estetica giapponese, raccontata dal professore, ho trovato lo spunto più interessante e profondo di questa nostra ricerca.

 

Professore, molti dei suoi libri si propongono come strumenti e invito ad avvicinare culture diverse: basti pensare a Per una filosofia interculturale (Mimesis 2008) o il più recente Alfabeto filosofico (Marsilio 2018), che racconta alcuni concetti filosofici chiave spiegandoli da entrambe le prospettive. Per quale motivo ritiene urgente questa comparazione tra mondo occidentale e mondo orientale e che cosa s’intende per filosofia interculturale?

L’urgenza è data dal fatto che ormai va considerata conclusa l’epoca del predominio assoluto delle culture occidentali, anche perché non possono più vantare primati e monopoli in settori cruciali come quelli delle tecnologie avanzate e degli investimenti finanziari internazionali. Di qui la necessità di conoscere e di confrontarsi con principi e valori diversi da quelli che hanno sostenuto per secoli le culture occidentali. Se questa necessità non viene riconosciuta, l’alternativa sarà fatta di nuovi conflitti, probabilmente assai peggiori di quelli finora sperimentati.

A partire da tali constatazioni, le filosofie occidentali devono innanzitutto cominciare a conoscere approfonditamente quelle orientali; in secondo luogo devono confrontarsi con esse senza pregiudizi, ossia senza più considerarsi superiori, ma aprendo un dialogo costante sui temi cruciali dell’esistenza umana e delle condizioni ambientali che la rendono possibile. Questo dialogo non dovrà limitarsi ad un semplice scambio di opinioni, ma dovrà porsi come un dialogo radicale, ‘socratico’ o – come l’ha denominato Ramon Panikkar – ‘dialogale’, dove nessuno degli interlocutori pretende di possedere, a priori, la Verità. In tal senso l’orizzonte della filosofa interculturale non coincide con la prospettiva della filosofia comparata, ma la include come momento e strumento preliminare.

 

La sua formazione e il principio della sua vita accademica l’hanno vista impegnata nello studio e approfondimento dei filosofi della Scuola di Francoforte e di Nietzsche. Che cosa l’ha portata da questo alla filosofia orientale?

Durante gli anni ’80 del secolo scorso mi sono convinto che oltre le ‘vette’ – tra loro assai diverse, quasi opposte – raggiunte da Hegel e da Nietzsche, la moderna filosofia occidentale non esprimeva più alcunché di originale. Non solo: anche quando essa ha tentato di farlo, è sempre rimasta a livelli esclusivamente intellettuali. Per un po’ di tempo, quindi, ho smesso di occuparmi di filosofia europea, ed ho cominciato ad esplorare più a fondo due filoni del pensiero orientale che avevo conosciuto superficialmente e frammentariamente: il taoismo filosofico (Dàojiā, 道家) e il Buddhismo in alcune sue fondamentali espressioni: la Scuola Theravāda e le Scuole zen (Rinzai e Sōtō). L’intento principale era quello di scoprire come pensieri astratti possano avere consistenza e significato in relazione a fattori corporei elementari come, per esempio, l’attenzione alla respirazione richiesta in ogni forma di meditazione. Ho potuto verificare come questo intreccio fecondo tra pensiero e corpo, tra riflessione ed azione sia il punto di riferimento basilare di molte pratiche artistiche (ed artigianali) presenti nella cultura giapponese: della calligrafia (shodō), del tiro con l’arco (kyudo), della poesia haiku, della ceramica raku, del bonsai, dell’ikebana, dei giardini secchi (karesansui), del teatro Nō, dell’architettura tradizionale, ecc.

 

Da studiosa di arte ho letto con molto interesse i suoi studi nel campo dell’estetica, soprattutto orientale, che ha anche gentilmente raccontato nel suo contributo per la nostra rivista La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello. In un mondo sempre più globalizzato, ritiene possibile il mantenimento di una fruizione del bello così personale ed “esistenziale” come da tradizione (nello specifico) giapponese?

Non solo penso che sia possibile, ma ritengo che sia necessario, proprio per resistere e sopravvivere alle spinte sempre più violente verso ogni tipo di omologazione. Il problema sta nel fatto che tali spinte sono talmente forti e pervasive che tentano di appropriarsi anche dei prodotti creati sulla base delle tradizioni spirituali d’Oriente, e cercano con ogni mezzo di trasformarli in oggetti di consumo di massa. Il grave è che, in questa trasformazione mercantile, opere e manufatti perdono il loro ancoraggio ai pensieri ed alle discipline da cui e per cui sono nati: in tal modo diventano oggetti senza radici, alla pari di una basilica di S. Pietro in miniatura usata come fermacarte, o degli affreschi della Cappella Sistina usati come sfondo di una palla di vetro con neve finta.

 

L’uomo occidentale sembra apparentemente volersi avvicinare sempre di più alle tradizioni orientali, a volte tuttavia scivolando in pratiche definite “New Age” che sembrano banalizzare il senso profondo con il quale nascono: dallo yoga per bambini al proliferare dei mandala da colorare fino ai manuali per il riordino; in generale si percepisce un certo abuso del termine zen, associata ad un’infinità di cose diverse e a volte poco attinenti (persino una linea di vestiti per la pratica dello yoga ad esempio). Secondo lei a cosa è dovuta questa tensione spasmodica all’orientalismo?

È vero, diverse suggestioni orientali condizionano oggi molti aspetti delle mode occidentali (dai cibi agli abiti, dall’arredamento all’oggettistica); ma questo, in qualche misura, è sempre accaduto: basti pensare alle suggestioni indiane e cinesi nella Francia e nell’Inghilterra del XVIII secolo, o a quelle giapponesi nella Francia di fine ’800. Del resto, in tempi e per aspetti diversi, è accaduto anche il contrario con l’influsso dell’Occidente nei paesi orientali: basti pensare all’introduzione del cemento armato in tradizioni architettoniche abituate all’uso quasi esclusivo del legno, in particolare del bambù; o ai modi occidentali di vestire, di costruire macchine e meccanismi elettronici. Senza parlare degli influssi occidentali più macroscopici come l’economia capitalistica, il parlamentarismo e il socialismo. Questi fenomeni di influsso reciproco costituiscono la normalità dei rapporti tra culture diverse: nessuna cultura si è mai sviluppata allo stato puro, senza contaminarsi. Certo, le semplificazioni alla New Age possono far sorridere o anche irritare. Ma è anche probabile che, tra migliaia di individui ipnotizzati dal suono di un mantra o dalla visione di un mandala, ci sia più di uno che comincia ad approfondire i loro significati e le loro funzioni, scoprendo le straordinarie visioni del mondo da cui provengono.

 

Parallelamente uno studio serio e approfondito (anche all’interno delle università) della cultura orientale non sembra particolarmente incoraggiato e ogni tipo di ricerca e di sapere ha il suo perno nel mondo occidentale. Riterrebbe utile che nelle varie facoltà fosse inserito come obbligatorio l’insegnamento della cultura orientale? Intendo letteratura indiana/cinese/giapponese/coreana per le facoltà di lettere, arte indiana/cinese/giapponese/coreana per i beni culturali e così via.

Questo è un problema assai complesso. Lo studio di un argomento a livello universitario comporta lo specialismo. Quindi, ad esempio, lo studio della filosofia indiana o cinese comporta, prima di tutto, lo studio delle lingue in cui sono state scritte le opere di quelle filosofie. Quindi, concretamente, in un Dipartimento di studi filosofici non si potrebbe rendere obbligatoria la conoscenza delle filosofie orientali senza rendere nel contempo obbligatoria la conoscenza delle lingue orientali corrispondenti. Ciò detto, va però denunciato il fatto che, per esempio, negli insegnamenti universitari di Storia della filosofia non si fa mai nemmeno cenno all’esistenza di pensatori indiani o cinesi, con il presupposto e nella presunzione che la storia della filosofia sia soltanto storia della filosofia occidentale. Lo stesso vale per la storia delle letterature occidentali: per esempio, quando si parla di letteratura medievale, non si ricorda, nemmeno a titolo informativo, che uno dei capolavori della letteratura mondiale, Genji monogatari, è stato scritto in Giappone da una donna, Murasaki Shikibu, all’inizio dell’XI secolo.

 

Il buddismo ha tra i suoi fondamenti il concetto di vacuità. Che significato può assumere e quale prospettiva può dare questa visione all’interno della cultura odierna basata invece sull’abbondanza?

Il termine ‘vuoto’ traduce in realtà il termine buddhista anattā che significa letteralmente ‘non sé’, ovvero “privo di autosufficienza”. Quindi quando nel Dhammapada si trova scritto “tutte le realtà sono vuote” ciò significa che nessuna realtà può esistere in modo isolato. Questo significato fondamentale si conserva anche nel buddhismo più tardo (buddhismo Mahāyāna) che usa i termini śūnya (vuoto) e śūnya(vacuità). Pertanto il ‘vuoto’ buddhista non indica il nulla o l’assenza di tutto, ma la relatività di ogni cosa, nel senso che ogni cosa, per esistere, ha bisogno di qualcos’altro di diverso da sé. L’interesse che tale idea può avere per noi oggi è dato dal fatto che stiamo da tempo verificando i disastri umani ed ambientali a cui conducono visioni del mondo fondate su idee opposte a questa, come quelle di ‘identità’, ‘purezza’, ‘autonomia’, ‘divisione’, ‘separazione’ che sono tutte – in modo più o meno consapevole – alla base di ogni sorta di conflitto, da quelli di carattere personale a quelli di natura sociale e politica.

 

In uno dei suoi ultimi libri ha avuto modo di spiegare come ci siano delle somiglianze molto evidenti tra il metodo socratico e quello utilizzato dai maestri zen. In cosa consiste questo interessante parallelismo tra due giganti del pensiero geograficamente molto distanti?

La somiglianza consiste nel valorizzare al massimo l’idea del “sapere di non sapere”, ovvero un atteggiamento critico e non dogmatico nei confronti di ogni verità. Socrate ha insegnato questo mediante il suo incessante porre domande; i Maestri delle tradizioni zen mediante l’uso di paradossi linguistici (kōan) e di comportamenti paradossali.

 

In che modo secondo lei la filosofia può avvicinarsi e mostrare la sua decisiva importanza per la vita quotidiana di ciascuno di noi e della collettività? Ritiene che le discipline orientali siano state in grado di mantenere con più evidenza questa aderenza alla vita quotidiana?

La filosofia occidentale dovrebbe ritrovare l’equilibrio tra le idee e il corpo, tra il pensare e l’agire ritornando alle proprie radici greche, in particolare a quelle di Eraclito e di Epicuro. Questa direzione, nell’Europa contemporanea, è stata indicata con forza da Nietzsche, ma la sua è rimasta una testimonianza drammaticamente fallita.

Non c’è dubbio che in Oriente questo equilibrio è invece perdurato a lungo ed è ancora presente, anche se appare sempre più minacciato da alcuni modelli di pensiero e di azione importati dall’Occidente. E’ tuttavia da precisare che si è sviluppato (e si sta ancora sviluppando) un movimento in senso contrario, ossia un diffuso influsso di conoscenze e di pratiche orientali nelle culture occidentali (ovviamente con i rischi di superficialità e di commercializzazione che comportano simili trasposizioni).

 

La domanda forse più difficile di tutte: che significato ha per lei il termine filosofia, detto in due parole?

Esercizio critico ed autocritico della ragione.

 

 

Non posso che ringraziare di cuore il professore per il suo tempo e gli interessanti spunti di riflessione offerti.

Giorgia Favero

 

[Il ritratto in copertina è stato fornito dall’intervistato]

Il mondo è bello perché è vario

“Chi sa non parla”, diceva Lao-Tzu, e per molto tempo sono stato propenso a credere fermamente in questa asserzione. Ma come ogni altra cosa le idee sono mobili e le convinzioni sempre opinabili, giacché è difficile incontrare nel mondo terreno un essere dalla mente stolida e onnisciente. Il sapere – o almeno l’autostima che questo malleabile sistema psichico-emotivo suscita in chi crede di possederlo – si configura nel continuo e instancabile movimento delle sinapsi e della volontà, la quale orienta l’interesse della persona verso questa o quell’altra direzione a seconda delle necessità di una data coordinata spazio-temporale. In questo senso il sapere non è mai definitivo, sia perché noi per primi siamo esseri limitati da un’architettura fisiologica e culturale che rende numerabile la qualità dei nostri pensieri, sia perché una congettura non è mai separabile dall’interferenza strumentale e precritica del soggetto considerante, al punto che capita ogni tanto che qualcuno capisca solo quel che vuole capire.

Considerato ciò, diventa difficile, se non ipocrita, dogmatizzare il sapere come una competenza astratta, completa e sempre giusta, cui ci si può comodamente appellare dopo qualche anno di studio; esso è invece sempre diveniente e irrequieto, sempre curioso di scovare altre domande da porre e di scoprirne le possibili risposte, dal momento che una sola è spesso insufficiente. Ne deriva che l’essere umano, in quanto animale razionale capace di astrazione e pensiero associativo che creano almeno delle parvenze di sapere, è un essere in fieri, sempre spossato dall’incompletezza, per il quale fermarsi a venerare un unico idolo equivale in un certo senso alla morte storica e produttiva, alla stanchezza morale. L’essere umano si significa continuando a camminare, a intervenire, a indicare il proprio male per porvi rimedio, e sebbene si pensi che la saggezza più ammirabile si riscontri, ad esempio, nel raccoglimento pacifico di un tempio tibetano, in realtà la sola interiorizzazione rischia di compromettere radicalmente la propria prassi significante del mondo, quella prassi che cioè evoca sempre formule inedite per esercitare un dominio operante e partecipe della nostra civiltà.

Occorre precisare che la succitata frase di Lao-Tzu è da inserirsi nel suo particolare contesto, in quanto il silenzio del saggio è per il filosofo dovuto all’inesprimibile e parossistica dialettica di vuoto tutto e pieno nulla che da sola orchestra l’intero universo. In questo senso l’assoluto metafisico diventa solo materia di astrazione, di opinione, di filosofema insignificante, in quanto ogni tentativo di nominarlo cadrà nel fallimento. E non si può che dargli ragione su questo proposito, se non fosse per il fatto che ciò non debba comportare meccanicamente l’abbandono di qualsiasi speculazione. Lao-Tzu disse anche che “Chi non sa parla”, e pure questa è una grande verità, sebbene, lungi da quel che si può credere, è svuotata di qualsiasi carica accusatoria. Nessuno di noi sa, e tutti quanti noi parliamo per comunicare il nostro punto di vista e la nostra esperienza al fine non solo di cercare di organizzare la nostra persona, ma anche di esternarla agli altri e di accogliere in noi le altrui personalità. Se poi interpretiamo la massima nel senso di un consiglio spassionato a coloro che credono di sapere, allora questa si tinge di peccato e svogliatezza, poiché trasforma l’intelligenza in un esclusivismo auto-erotico. L’intelligenza non è premessa della propria elitarietà, bensì responsabilità continua e vacillante che deve soccorrere i naufraghi ispirando i rematori con le migliori direttive. In questo senso, il silenzio del saggio, di colui che sa e che può aiutare, diventa colpa e illusa emulazione di un egoismo divino che di per sé non esiste. Come le particelle atomiche che non sono osservabili se non durante l’interazione tra loro, così anche noi esseri umani nel nostro isolamento restiamo latenti e inconoscibili.

Si può affermare che la Via innominabile di cui parlava Lao-Tzu sia l’eternità; dunque cercare di spiegare l’eternità è cosa impossibile. In effetti non possiamo giungere a una definizione esauriente di questa poiché, di fatto, essa comprende qualsiasi tipo di spiegazione, e quindi nessuna. L’eternità diventa così una specie di noumeno kantiano mancato. Il punto è che l’eternità è l’ambizione atemporale dell’essere umano, il suo amore senza tempo, tanto platonico quanto concretamente stimolante. L’essere umano è volontà trascendentale di eternarsi, qualunque sia l’idea che un individuo si faccia di eternità, e l’impossibilità di raggiungere questo stato è ciò che gli permette di generare interi mondi culturali. L’eternità in questo senso è un cenno continuo, un tentativo tormentato di nominare l’armonia di ogni cosa, e l’afflato speranzoso che vuole solo riscattare le sue colpe, ma che invece non approda mai, definitivamente, da qualche parte. È come la caccia alla balena bianca che ci logora la vita e che può portare un individuo al suicidio qualora non fosse capace di restare coi piedi per terra.

Il cenno è la nostra realtà e la nostra condizione, e l’eternità, l’assoluto e la Via, quelle fantasmagorie fatte di sogno che in virtù di ciò non si realizzeranno mai. Ma in questa dicotomia sta anche quel che permette lo sviluppo ribelle della vita, che invece di deprimersi continua a interagire con la propria terrenità e spiritualità per imparare a conoscersi e accettarsi. Così insistendo si emancipa dalla pigrizia dei morti e debella così il rischio sgomentante di anticiparsi una insensata fine del mondo, quella fine cioè che se da una parte è morte assurda e priva di ragione che sprona seducente a negare la propria prassi domandante, dall’altra è l’apocalisse radiosa di un saggio imperturbabile che nel suo piatto e cosmico silenzio guarda la gente annegare e le stelle collidere.

 

Leonardo Albano

 

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Combinare etica della cura e poesia: intervista al chirurgo Vincenzo Caronia

A volte abbiamo l’impressione che i medici, in particolare i chirurghi, siano come dei meccanici: senza farsi travolgere dalla tragedia umana della malattia e del dolore, loro valutano, aprono, chiudono. Dichiarano decessi. Hanno studiato e lavorato per anni, acquisendo livelli di conoscenza per noi altri apparentemente inarrivabili, e quindi ci affidiamo. Ci affidiamo e a volte non accettiamo che esista un loro lato umano, sensibile e fallace.

Leggere i componimenti poetici scritti da Vincenzo Caronia, classe 1959, chirurgo operante presso l’ospedale di Oderzo, ti scalda il cuore. Ti fa rivalutare tutta questa questione dell’infallibilità e del freddo temperamento scientifico dei medici, e di questo probabilmente abbiamo un gran bisogno. Abbiamo bisogno di sapere che i medici possono essere, come Caronia, appassionati di letteratura e di cinema, di viaggi e di poesia: un fatto da non trascurare, perché è proprio da questi interessi che si può sviluppare quel pensiero etico che è ormai imprescindibile dalla medicina. Ecco perché in questa intervista parliamo anche di corpo, di dispositivi medici e del valore fondante della fiducia. Ed in parallelo però parliamo anche di poesia, perché la sua raccolta di haiku (Haiku per un anno, 2012), in particolare, è un piacere da leggere. L’haiku è un componimento giapponese di tre versi capace di suscitare, con poche parole, delle forti suggestioni; è particolarmente piacevole lasciarsi abbandonare alle delicate note ed immagini da esso evocate, anche nella lingua italiana.

A tutto questo è possibile, evidentemente, combinare  la medicina. Perché anche la medicina, dal lato del medico e dal lato del paziente, è fatta di uomini. Scopriamo allora insieme che cosa ci racconta Vincenzo Caronia di questo mondo.

 

La filosofia ha piano piano segnato la strada per l’affermazione della disciplina bioetica e dell’etica applicata. In che modo, secondo il suo parere di chirurgo, la pratica filosofica può essere attualizzata in ospedale?

Credo che l’etica possa variare da persona a persona. Da un punto di vista medico, se una persona sceglie di fare il medico, lo fa perché unisce la passione per le materie scientifiche con il rapporto umano che si crea con le altre persone. Il discorso etico è fondamentale, ovvero il fatto di avere presente che si lavora con, su e per altre persone. Persone con una storia, dei sentimenti. Ricordo la prima volta che assistetti ad un’autopsia. In particolare, si stava analizzando il cervello di un defunto. Ricordo chiaramente di aver pensato che qualche giorno prima quello che stavamo analizzando era un cervello vivo di ricordi, di passioni, di vizi. Anche questo mi faceva pensare. Anche se con il tempo la pratica medica mi ha insegnato a curare e sistemare ciò che sta biologicamente dentro quel cervello, non dimentico mai la storia di cui può essere intrisa. Si tratta sempre di una persona.

Quale ritiene sia il rapporto tra mente e corpo? Una tende forse a prevalere sull’altra?

Ritengo che non esista una separazione netta in termini cartesiani tra mente e corpo. La psicopatologia ha una sua componente fisica, ma ha anche una sua componente psichica, legata alla mente. Nelle patologie psichiatriche la componente della mente è molto più importante rispetto a quella fisica; in un cancro al colon, è l’esatto contrario. Tuttavia, non c’è una completa lontananza tra le due. Basti pensare anche agli anziani, al loro lasciarsi andare nel decorso di una malattia. Il volere andare avanti malgrado una malattia non è un imperativo, c’è chi ce la fa e trova al forza, e chi invece si tira indietro. Il contatto mente e corpo quindi c’è ed esiste: l’una influenza l’altra.

Oramai in medicina si è affermato un sistema basato sul valore della centralità del paziente. In che modo, secondo lei questo sistema, fondato e finalizzato sul  patient-centered care, può entrare in dialogo con la complessità e l’artificialità della evidence-based medicine, ovvero con il progresso tecnico scientifico dell’ingegneria medica? In altre parole, come la sfera oggettiva e quantificabile dell’approccio clinico coopera con la sfera più prettamente “umana” della pratica di cura? 

Sono cose che non si allontanano mai l’una dall’altra. Oggi si lavora con internet e il pc per tante ragioni. È su questo che ci si deve basare: su realtà comprovate dai fatti.

Il paziente però è al centro dell’attività sanitaria. Io devo cercare di dargli la cura al meglio delle mie possibilità e in questo mi baso sulla evidence based-medicine. Le due sono correlate. L’una interseca l’altra.

Possiamo affermare che nel corso degli ultimi decenni la medicina abbia fatto dei passi da gigante nel campo degli interventi a cuore aperto, in particolare anche parlando di impianti di dispositivi ventricolari, in grado di permettere la sopravvivenza dei pazienti. Un paese come l’Italia ha la fortuna di beneficiare di alcuni centri VAD molto forti. Cosa pensa di questa nuova svolta del progresso scientifico in ambito ospedaliero? E, a tale proposito, ha qualche osservazione da proporre circa il rapporto tra durata biologica della vita, quantificabile in anni di sopravvivenza in seguito ad un impianto, e qualità della vita, talvolta segnata da sacrifici, sofferenza ed effetti collaterali?

Oggettivamente abbiamo visto negli ultimi quarant’anni un veloce incremento dell’aspettativa di vita delle persone. Questo grazie all’ evoluzione delle conoscenze scientifiche acquisite a livello mondiale, che comprende anche lo sviluppo della bioingegneria, quindi di dispositivi tecnologici biomedici.

Questi dispositivi, per chi ha una patologia cardiaca, hanno aiutato la sopravvivenza ma anche il miglioramento della clinica; inoltre, hanno permesso di portare il paziente ad un eventuale trapianto di cuore oppure ad un impianto di protesi sempre più tecnologicamente avanzate, per migliorare all’outcome del paziente. La tecnologia è diventata necessaria per sostituire la parte malata con qualcosa di meccanico che però possa rendere le stesse funzioni dell’organo ora malato. Tutto però è gestito e controllato dal cervello, quindi dall’uomo. Di conseguenza, ciò conferma quello che abbiamo detto precedentemente circa il rapporto tra mente e corpo, in cui l’una influenza l’altra. Ormai la tecnologia ci ha permesso di sostituire parti del nostro corpo in modo tale da poter continuare a vivere allo stesso modo. Certo, ciò non significa che possiamo giustificare una società in cui si possano cambiare i “pezzi” del corpo umano come nulla fosse, per quanto necessario: una visione “etica” del problema rimane fondamentale.

Sicuramente, durante la pratica medica, è sempre opportuno porre attenzione sulla relazione medico-paziente, la quale non può non essere fondata nella fiducia. Che significato darebbe a questo concetto? Si è mai trovato di fronte a casi in cui la fiducia trovava degli ostacoli difficili da superare?

Certo, la fiducia è un valore fondamentale. Se un paziente viene da me è perché ha fiducia del mio operato. È importante però considerare il fatto che siamo tutti uomini, perciò siamo tutti fallaci. Possiamo sbagliare. Così come ci sono situazioni che possono creare dei problemi indipendentemente dalla bravura del medico e dalla disponibilità del paziente, le così dette complicanze. Queste non sono errori del medico, ma avvenimenti che possono presentarsi ed essere comuni in tutta l’attività medica. È necessario quindi non confondere la complicanza con un errore: cosa questa che potrebbe essere intesa come un “tradimento” alla fiducia.

Vorrei infine ricordare e rimarcare la differenza tra “cura” e “guarigione”. Un medico può curare una patologia senza riuscire a guarire il paziente. Confondere le due cose talvolta può minare il rapporto di fiducia instauratosi tra medico e paziente. Un esempio possono essere le patologie infiammatorie dell’intestino, malattie croniche a lenta evoluzione che solitamente interessano il paziente per molti anni. Ci sono dei farmaci recenti che migliorano moltissimo la qualità di vita. Però la malattia c’è, non è guarita. Può migliorare, presentare periodi di remissione, ma non risolversi. Cento anni fa erano pochissime le malattie che si riuscivano guarire. Oggi la scienza permette di guarire da più patologie.

Spesso si sente lo stereotipo del medico votato alla scienza ed alla medicina e che spesso trascura le materie umanistiche. Lei invece ha pubblicato alcuni libri di poesie, dimostrando quindi di saper fuoriuscire una sensibilità che è tipica umana. Come si è avvicinato alla poesia? E come, in particolare, ha scelto di cimentarsi con gli haiku

Il primo approccio con gli haiku fu quando ero bambino. Mio padre aveva dei libri sulle grande religioni e sfogliandoli, nei capitoli dedicati alle dottrine orientali, c’erano degli haiku. Li lessi e ricordo che ne rimasi colpito. Poi iniziai a scrivere delle poesie, e ne lessi anche molte. Piano piano crebbe anche la passione per l’Oriente. Ora, la poesia è qualcosa che viene e va, un po’ come l’amore: ci fu quindi questo periodo in cui scrissi molto e altri in cui molto poco, o nulla. Nel 2000 iniziai a scrivere haiku un tipo di poesia che non avevo scritto prima, e pare con buoni risultati, almeno stando a quanto mi viene detto.

haiku-per-un-anno_caronia_intervista_la-chiave-di-sophia-01Crede che gli haiku, anche nella sua forma e temi tradizionali, possa rappresentare un messaggio dell’uomo all’uomo circa il rapporto che esiste o dovrebbe esistere tra esso e la natura?

Sono convinto che l’haiku tenti di ristabilire un contatto con la natura, un contatto che ciascuno di noi può sentire, può vivere. E ci spingono così a riflettere.

Anche per le altre tipologie di poesia che ho scritto, credo che si tratti sempre di un riflesso di ciò che sentiamo, che proviamo, e che cerchiamo di rendere in forma poetica. L’haiku è la stessa cosa ma presenta delle caratteristiche precise. Intanto è estremamente semplice, quasi scarno; la cosa bella è che questa loro semplicità crea un ponte diretto con la natura, o con qualsiasi sia l’ oggetto della poesia stessa, oltre che per il poeta anche per gli altri, c’è spazio per trovare qualcosa anche per il lettore, è diretto. Cosa che, forse, nella poesia tradizionale, si trova in forma minore.

Ciò che mi piace è questo: il significato, il senso dell’ haiku è un ponte verso la persona che lo legge. E anche il fatto che non ci sia un titolo è indicativo dell’ apertura che l’ haiku propone.

Ha mai combinato la scrittura o la lettura della poesia con la sua attività in ospedale? Ritiene che possa portare qualche tipo di beneficio? 

Secondo me c’è un modo di coniugare questi due mondi. Parliamo sempre di uomini. Lavorando in ospedale, è necessario estraniarsi dalla situazione, dal dolore delle persone che devono essere curate. Ciò al fine di rendere la pratica di cura più efficace. È necessario comunque creare dei momenti di distacco in cui si parla anche di altro. Ed è lì che al rapporto interpersonale, tra medico e paziente, ma anche tra operatori sanitari stessi così come tra paziente e paziente si lega tante volte il concetto di fiducia. Si può avere un approccio molto umano nel corso di questi momenti.

La scarnificazione del superfluo, la riduzione dell’immagine all’essenza, la semplificazione del pensiero e raziocinio umano per adattarsi al flusso morbido e delicato della natura: l’haiku in particolare ma spesso anche la poesia più in generale sembra porsi agli antitesi della profonda ricerca di significato che sottende alla filosofia. Lei ritiene che esse possano avere comunque qualcosa che le accomuni?

Credo che la filosofia cerchi di dare spiegazione a quella che è la realtà. Alla fine si va sempre a definire un concetto finale. La filosofia si pone il problema del “Che cos’è?”. Nell’haiku non c’è questa ricerca, è immediato. Nella forma è sintetico, non è un trattato.

C’è chi concentra al massimo per dire il tutto. L’haiku, nella sua forma breve, così come altre forme di scrittura, non è altro che il rappresentare un attimo che si ha vissuto; si esprime un’impressione immediata. Probabilmente è questo il concetto filosofico dell’haiku: esprimere e dare senso a quella sensazione, in quel determinato momento.

 

La Redazione

 

 

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Tu scendi dalle stelle

<p>Teddy Sczudlo via Getty Images</p>

Quando durante un’omelia del maggio 2014 Papa Francesco aveva scherzosamente sostenuto che la Chiesa avrebbe dovuto battezzare anche un marziano, qualora lo chiedesse, per “non chiudere le porte a nessuno”, la frase era stata accolta per quello che era: una semplice iperbole per far passare un concetto. Al momento in cui però, lo scorso 22 febbraio, la NASA ha reso nota la scoperta di Trappist-1, un sistema solare con sette pianeti, tre dei quali potenzialmente abitabili, il quesito ha assunto una dimensione se non del tutto nuova comunque concreta: come reagirebbero i sistemi teologici e culturali all’eventuale scoperta di vita extraterrestre, specie se senziente?

Nonostante l’apparenza, la questione non è certo secondaria, specie considerando che, quando Giordano Bruno teorizzò, in De l’infinito, universo e mondi del 1584, l’esistenza di altri mondi abitati oltre alla Terra, l’affermazione gli costò un processo per eresia che si sarebbe concluso con la sua morte sul rogo nel 1600. A ben guardare, però, il problema potrebbe essere tale solo da una prospettiva cristiana: per le grandi religioni orientali, infatti, il ciclo dell’esistenza non è affatto legato ad una dimensione terrestre, almeno non esplicitamente, e la presenza di altra vita senziente non scalfirebbe affatto una sensibilità che da sempre si professa universale. Anche l’ebraismo non riscontrerebbe particolari difficoltà: se da un lato alcune scuole cabaliste hanno riconosciuto in Trappist-1 il corpo celeste Neberu che, come profetizzato nel Sefer ha-Zohar, precederebbe l’avvento del Messia, per le altre (maggioritarie) scuole teologiche la vita extraterrestre sarebbe del tutto irrilevante in quello che rimane una relazione tra Dio e il popolo ebraico solo. Anche l’islam, che nella prima sura del Corano loda il “Signore dei mondi”, non avrebbe troppi problemi ad accettare l’esistenza di vita aliena, che come ogni altra rientrerebbe nel dominio di Dio.

Il cristianesimo, però, con la nascita, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, è indissolubilmente legato alla storia terrestre, e la presenza di altre creature senzienti su altri pianeti porrebbe lo scomodo problema di una rivelazione ripetuta: Gesù si sarebbe incarnato anche su altri pianeti? Il Suo sacrificio si sarebbe ripetuto tante volte quanti sono i mondi abitati? Vista così, la prospettiva di una civiltà aliena ripropone, “in grande”, gli stessi problemi che la Chiesa cattolica e, di lì a breve, quelle protestanti dovettero affrontare all’inizio del XVI secolo, quando le spedizioni spagnole provarono l’esistenza di un continente sconosciuto, abitato da altri popoli ed altre civiltà, che non avevano giocoforza mai conosciuto Cristo e il Suo messaggio. La prima reazione non fu esattamente esemplare, se passarono anni prima che si riconoscesse a indios e nativi il semplice status di esseri umani; fu l’impulso di Ignazio di Loyola a fornire una soluzione, pragmatica come da stile gesuita, del problema: Cristo non era stato nel Nuovo Mondo, perché era compito e missione dei cristiani del “vecchio” evangelizzarlo. L’impulso della Compagnia di Gesù non solo evitò una crisi teologica senza precedenti, ma dette portò nuova linfa alla cristianità, permettendole di espandere i propri confini come mai prima di allora, sopravvivendo ai colpi potenzialmente mortali della Riforma protestante.

Al momento, qualsiasi dibattito su come e se la religione cristiana uscirebbe dall’incontro con forme di vita extraterrestri rimane, ovviamente, nel regno della pura congettura, un esperimento mentale che però aiuta a capire se e quanto la specie umana sia preparata ad una nuova rivoluzione copernicana. Rimane il fatto che, indipendentemente da ogni altra considerazione, qualsiasi notizia ci porti ad alzare nuovamente lo sguardo verso le stelle è più che benvenuta.

Giacomo Mininni

[Immagine tratta da Google Immagini]

Occidentali’s Karma: chi è la scimmia nuda?

C’è poco da fare, d’ora in poi capiterà spesso di avere nelle orecchie il motivetto del brano vincitore del festival della canzone italiana. Una di quelle canzoni che entrano in testa senza chiedere il permesso, prive di riguardo. In molti si ritroveranno a canticchiarla, più o meno consapevolmente.

Critica in musica pop degli aspetti controversi della società digitale, Occidentali’s Karma dichiara sin dal titolo di voler riflettere sul destino della civiltà occidentale, su quello che l’uomo moderno potrà raccogliere, considerati i semi che sta seminando.

Lo fa cospargendo il suo testo di un retrogusto intellettuale: attinge con ironia al linguaggio delle filosofie dell’ovest e dell’est, all’arte e alla letteratura, costruendo una costellazione di easter egg colti.

A chi non è capitato di provare un misto di invidia malcelata e di fastidio per la saccenteria, davanti a qualcuno che con naturalezza riesce ad accostare al proprio pensiero le citazioni di personaggi illustri? Sapevatelo, oggi Gabbani regala a tutti la possibilità di sfoggiare una folta sequenza di rimandi culturali.

Ecco l’origine del significato di dieci riferimenti presenti in Occidentali’s Karma, dieci punti da leggere per cantare la canzone, citando responsabilmente:

1.
Essere o dover essere
Il dubbio amletico

Il principio della canzone si spiega da sé: richiama l’opera, anche se tralascia l’autore. Ma la fama della citazione è tale che la spiegazione suona quasi superflua: è naturalmente il «To be, or not to be», tratto dall’Amleto di William Shakespeare, la battuta che apre il soliloquio in cui il protagonista pondera sull’indecisione tra azione e inazione.

2.
Comunque vada panta rei

Pánta rêi: aforisma greco che si traduce come “tutto scorre”. È l’espressione utilizzata per riassumere il pensiero del filosofo greco Eraclito, il filosofo del divenire, che concepisce il l’esistenza del mondo che ci circonda come un continuo mutare, un flusso sempre diverso in cui la realtà di ogni istante è in perenne evoluzione.

3.
And singing in the rain

Con pánta rêi, fa rima e c’è, stacce, direbbero Lillo e Greg. Riferimento proveniente dall’ambito della settima arte. È il titolo del film e della canzone protagonista della pellicola: stiamo parlando di Cantando sotto la pioggia, il film del 1952 diretto e interpretato da Gene Kelly. Inserito nel testo di Gabbani, richiama anche un’altra celebre frase, attribuita all’artista Vivian Greene: «Life isn’t about waiting for the storm to pass… It’s about learning to dance in the rain».

4.
Lezioni di Nirvana
C’è il Buddha in fila indiana
La folla grida un mantra
Occidentali’s Karma
Namasté Alé

Carrellata di terminologia in sanscrito, la lingua dei testi classici della religione e della filosofia indiana. Uno per uno in fila (fila indiana, appunto):
Nirvana: Associato ai significati di “estinzione”, “libertà dal desiderio”. È lo stato finale dell’esistenza professato dalla dottrina buddhista, lo stato di cessazione di ogni dolore.
Buddha: Significa “risvegliato”. È l’essere che ha raggiunto il più alto grado dell’illuminazione.
Mantra: formula verbale rituale, composta dai versi tratti dai testi sacri dell’induismo, recitata con una funzione mistica, di preghiera o di meditazione.
Karma: traducibile come “azione”, si riferisce all’interpretazione induista del principio di causa-effetto, a cui è associata una connotazione morale.
Namaste: saluto di origine indiana che significa “mi inchino a te”.

5.
Per tutti un’ora d’aria, di gloria

Ricorda le parole profetiche rese celebri da Andy Warhol: “Nel futuro, ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità”.

6.
L’evoluzione inciampa

Seconda delle tre grandi umiliazioni inferte all’umanità e alle concezioni che descrivono il posto dell’uomo nel cosmo (assieme a quelle firmate Copernico e Freud). La teoria dell’evoluzione, del naturalista inglese Charles Darwin, fissa l’origine della specie umana nella realtà animale dei primati.

7.
La scimmia nuda balla

Nel 1967 lo zoologo Desmond Morris pubblica il saggio La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo. Nel testo descrive l’uomo come una delle 193 specie di scimmie esistenti, primate tra i primati, animale nella sua essenza, e diverso per lo più per il fatto che la sua pelle è sprovvista di peli. Per questo appare nudo rispetto alle bestie sue simili.

8.
Piovono gocce di Chanel
Su corpi asettici

Questa volta l’ambito è quello della cultura generale, che rievoca la risposta di Marilyn Monroe alla domanda di una storica intervista. Al quesito del giornalista: «Cosa indossa per andare a letto? Un pigiama? Una camicia da notte?» rispose «Due gocce di Chanel N°5».

9.
Coca dei popoli
Oppio dei poveri
 

Karl Marx, autore del Manifesto del partito comunista accosta la pratica religiosa all’assimilazione di sostanze che confondono l’intelletto. Scrive in una delle sue opere: «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli».

10.
Quando la vita si distrae cadono gli uomini

In questo ultimo passo possiamo intravedere una reminiscenza delle parole del filosofo Friedrich Nietzsche, che in un passo di Cosí parlò Zarathustra, il testo dove viene espressa la dottrina del superuomo, scrive: «Io amo coloro che non sanno vivere anche se sono coloro che cadono perché essi sono coloro che attraversano».

I versi della canzone attingono a un patrimonio di sapere che attraversa le epoche, le culture e le regioni del mondo. Forse nel successo di questo brano si può intravedere un desiderio inappagato di profondità culturale, compensazione della pratica continua della superficialità che tanto critica il testo di Occidentali’s Karma. O forse è stata innalzata sul podio solo perché ci piace vedere una scimmia ballare su un palco. Probabilmente le due cose non si escludono.

O forse ancora, se l’essere è, e il non essere non è, è semplicemente perché Sanremo è Sanremo.

P.S. La scimmia nuda, sei tu.

 

Matteo Villa

 

Link YouTube per riascoltare la canzone

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La tensione tra infinito e sostenibilità del limite

Daniel Callahan, cofondatore con Willard Gaylin dell’Hastings Center di New York e Direttore dell’International Programin, critica tre approcci della pratica medica nella medicina occidentale. Innanzitutto la volontà di dominare e asservire la natura, aspirazione in base alla quale anche la stessa morte costituisce un semplice e anonimo difetto biologico suscettibile di correzione e destinato ad arrendersi ai poteri dell’egemonia della scienza; in secondo luogo, considera la sua tensione a proporsi orizzonti irraggiungibili, illimitati, non ammettendo la sola possibilità di un ‘punto d’arrivo’ soddisfacente. Infine l’autore fa luce sull’aggressivo espansionismo sociale, una tendenza invasiva ad insinuarsi in ogni aspetto della vita umana (sfociando, così, nella ‘medicalizzazione’).

Parlando di ‘medicina sostenibile’, Callahan propone uno slittamento progressivo di enfasi clinica alle cronicità, alla prevenzione sociale, dalla ricerca di una salute eterna al raggiungimento di un più maturo equilibrio tra le esigenze della natura e le prospettive della ricerca: propone, cioè, il recupero di una medicina tradizionale umanizzata. In Callahan vi è uno slancio verso un ritorno della comunità internazionale ai valori della convivialità, della sobrietà, di una medicina capace rispettare i naturali limiti biologici della dimensione umana e spirituale nella relazione terapeutica. Nel mondo della medicina di Callahan si promuove sistematicamente la stabilità, nella tensione a scongiurare la morte prematura e proteggere tutti i cittadini in maniera equa dalle malformazioni fisiche e mentali. L’autore si pone un quesito riguardo il rapporto, il legame che àncora la vita alla medicina: si chiede cioè se l’individuo debba modificare la propria concezione della medicina o piuttosto la propria concezione riguardo la vita. Callahan sostiene che una radicale revisione, riguardi e debba riguardare entrambe queste realtà in quanto:

«[…] Una vita che dipendesse per il proprio significato dai puntelli e dal progresso della medicina non […] sembrerebbe vita, a dispetto del fatto che il […] corpo continuerebbe a vivere per un po’. Una medicina che promettesse continuamente nuovi miracoli, nuovi corpi e nuovi io per veder finanziata la propria ricerca e per giustificare i propri colossali investimenti […] sembrerebbe una medicina che ha perduto la retta via, dimenticando di non essere affatto la via di accesso alla vita felice»1.

L’autore si batte contro le distorsioni introdotte da un approccio esclusivamente scientifico dell’applicazione medica, la cui fragilità risiede anche nel non dare ascolto ai punti di forza delle tradizioni e delle pratiche antiche.

«La mia tesi è che le società moderne […] hanno bisogno di una medicina “sostenibile”[…], una medicina che, sul terreno della ricerca non meno che su quello dell’assistenza, aspiri a conseguire una condizione di stabilità a un livello economicamente sopportabile, equamente accessibile e nello stesso tempo psicologicamente sostenibile, ossia tale da soddisfare la maggior parte […] dei bisogni e delle aspettative ragionevoli concernenti la salute. Quello a cui penso è un cambiamento sul terreno degli ideali e delle speranze della medicina, non solo su quello dell’organizzazione e dell’erogazione dell’assistenza sanitaria ai malati»2.

Una medicina economicamente sostenibile sarebbe, necessariamente, una medicina del razionamento e dei limiti la quale, tuttavia, si serve di essi per salvaguardare l’equità: essa porterebbe così l’individuo all’accettazione di una realtà continua e permanente del rischio (quale, per altro, si configura la natura umana), della malattia tentando di elaborare una prospettiva attraverso cui ‘proporsi’, presentarsi ed adattarsi nel miglior modo possibile. Al contrario, l’attuale espansionismo medico, sempre più emergente e senza controllo, è causa di una crescente insoddisfazione: se da un lato, infatti, l’uomo non è ancora riuscito a dominare e piegare la natura alle proprie materiali aspirazioni attraverso la medicina, dall’altro gli stessi successi dal suo progetto di dominio hanno generato una serie di nuovi problemi. La medicina moderna, nella convinzione per cui nella ricerca della salute risiede il segreto del significato della vita, ha portato a ritenere che anche la mortalità stessa, ben lontana dal dovere essere integrata e compresa in una visione equilibrata dell’esistenza, va semplicemente combattuta e rifiutata: la lotta della medicina contro la morte, l’invecchiamento e l’infermità rappresenta addirittura la sola fonte del  significato umano.

«[…] La medicina sostenibile è necessaria non solo perché non possiamo permettercene una diversa, ma anche perché essa può aiutarci a fare piazza pulita della medicina incontentabile e priva di scopi precisi prodotta dal progresso e dall’abbraccio con il modernismo. Una medicina sostenibile ci costringerà a riconsiderare il corpo e la mente, il significato sociale di medicina e assistenza sanitaria, nonché il rapporto tra la medicina e le culture di cui fa parte. Questa è la sola direzione capace di far sì che la medicina economicamente sostenibile lo sia anche psicologicamente»3.

Per Callahan l’uomo deve rendersi consapevole della necessità di modificare i propri valori, le proprie speranze e le proprie aspettative: i cambiamenti del suo modo di pensare devono investire tanto la sua capacità e possibilità di far fronte al fisiologico e inevitabile invecchiamento quanto alle malattie che minacciano la sua sopravvivenza, che incombono e costellano l’esistenza dell’individuo.

«Due sono le frontiere su cui si deve agire: una si estende lungo l’asse temporale dell’invecchiamento, e l’altra lungo quello dei bisogni individuali. Il primo e più importante passo nell’istituzione di queste restrizioni è riconoscere che entrambe le frontiere sono aperte ed infinite e che quindi non potranno mai essere definitivamente conquistate: esse infatti non ammettono alcun limite naturale conosciuto, sebbene se ne siano presi in considerazione alcuni possibili»4.

Callahan, nel sostenere la necessità di stabilire dei limiti, intende evidenziare l’importanza di tenere presenti alcune potenti tensioni, come quella che si crea tra l’accettazione della finitezza della persona in quanto tale e la umana aspirazione al progresso infinito, tra le più disparate esigenze individuali e quelle del bene comune, tra il proprio peculiare perseguimento della salute in quanto valore individuale e l’imprescindibile necessità di destinare le risorse anche ad altri settori. Oggi bisogna lavorare entro ambiti e limiti ben delineati, per stabilire priorità chiare ed inderogabili: uno spiccato senso del limite evidenzierà proprio la necessità di queste priorità.

Riccardo Liguori

NOTE:
1. Daniel Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna, tr.it a cura di Rodolfo Rini, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pag.18.
2. Ivi, pag. 24.
3. Ivi, pag. 319.
4. Ivi, pag. 223.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Apologia del vuoto

Una sera di tante sere ero distesa sotto le coperte ad aspettare un sonno che non arrivava. C’era la testa che brulicava incessantemente di pensieri scomodi e nello stomaco una sensazione di dolorosa pienezza con relativo senso di nausea, seppur leggero, che mi dava ulteriormente da pensare. Quella sera di tante altre sere ho voluto indagare di più queste sensazioni, arresa al fatto che il sonno non osava presentarsi all’appello.

Per quanto riguarda la testa, si trattava di un groviglio di preoccupazioni che vanno attualmente a finire sullo stesso capo: la tesi. La tesi che per ora è ancora meno di una pagina vuota. Per lo stomaco, si trattava di quel classico cliché per cui sostanzialmente si mangia nel tentativo di riempire un vuoto interiore.
Pieno e vuoto, opposti ma anche continui. Una vita piena di attività ma inaspettatamente priva di emozioni realmente felici, un’apparente assenza di problemi che invece cela miriadi, costellazioni di problemi, una vita di stenti punteggiata di quotidiane magre soddisfazioni. Così vicini, il pieno e il vuoto, che sembra un attimo passare dall’uno all’altro, come con un semplice passo.

E invece no: viviamo nella convinzione costante che ‘vuoto’ non vada bene. Per esempio, un’alimentazione ‘con’ sarà sempre preferibile ad una alimentazione ‘senza’, e non importa se magari in quel ‘con’ c’è qualcosa che ci fa del male, perché l’importante è avere: traiamo la nostra soddisfazione dalla semplice, banalissima idea di non doverci privare di qualcosa. È la nostra deformazione occidentale, la nostra cultura del ‘sempre di più’, della frenesia; e poi ci sono le filosofie orientali, i cantori del poco, dell’essere felici senza volere altro, beatamente ignoranti della nostra contrapposizione secolare dell’essere e del non-essere.

Rovesciamo i luoghi comuni, proviamo a pensare che il vuoto non è solo tale, che non necessariamente il vuoto è nero e fa paura: pensiamo piuttosto al mu (in giapponese), il vuoto orientale, che non è veramente vuoto, non è propriamente non-essere ma un essere in potenza, un’assenza contingente, è energia; è la pagina bianca prima che vi si scriva una parola, l’intervallo tra due note musicali, lo spazio tra le mani che stanno per scontrarsi in un applauso. Come l’universo, che sembra vuoto e invece a quanto pare pulsa di energia invisibile.

Nella dottrina zen (declinazione giapponese di un ramo del Buddhismo nato nel VII-VIII secolo) si va ancora oltre: il vuoto costituirebbe l’essenza stessa e naturale delle cose, visibile solo con il raggiungimento dell’illuminazione. I maestri zen la rappresentano con un cerchio (ensō, in giapponese), simbolo del fluire della vita e dell’universo, un segno morbido con un vuoto (o pieno?) al centro: il vuoto e la forma sono dunque una continuità, un tutt’uno, per cui nello zen cogliere con immediatezza il vuoto significa anche cogliere la forma che vive insieme ad esso.
Anche in Occidente qualcuno, su questa straordinaria idea, ha deciso di rifletterci un po’ su. Yves Klein ha riempito tele e tele di una omogenea pittura blu, solo blu, e nel 1958 ha svuotato la galleria di Iris Clert a Parigi e ha rivestito tutto di smalto bianco, come a dire “Non è semplicemente vuota”; infatti c’è andato anche Albert Camus, che è rimasto impressionato da quel «vuoto pieno di potere». Poi c’è John Cage, che una volta nel 1952 ha dato un concerto per pianoforte in tre movimenti: si è seduto allo strumento, si è sistemato sullo sgabello, e per 4 minuti e 33 secondi non ha fatto niente; poi si è alzato e se n’è andato. Ma quel silenzio non è stato silenzio: si è riempito del rumoreggiare del pubblico in sala, delle imperfezioni sonore dell’ambiente, per cui il vuoto di musica non è stato un vero vuoto. Il vuoto è sempre pieno di qualcosa.

Queste storie dell’arte mi hanno molto suggestionata perché mi sembra di aver passato davvero troppi anni a lottare con questo vuoto che sentivo – che sento ancora –, cercando continuamente di riempirlo: con la vita quotidiana, con le canzoni, i film, i musical, l’arte, i libri, le serie tv, i romanzi e sì, persino con i biscotti; prendo in prestito brandelli di vite e di emozioni da parti e mondi esterni per sentirmi dentro qualcosa, perché sono incapace di percepire che dentro ho già qualcosa, il che significa che non so apprezzare tutto quello che ho, e nemmeno l’assenza di qualcosa che inconsciamente mi alleggerisce. Per esempio, è soprattutto il vuoto che ci dà la possibilità del nuovo: il vuoto è di per sé una ricerca del futuro. E invece continuo a soffrire della mancanza, mi struggo, urlo, non ne so uscire. Sono occidentale, niente mi basta mai. Mi sforzo ancora, cerco di vederla – di vedermi, in effetti – in modo più ‘orientale’: alla continua ricerca della pienezza nel mio vuoto.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Google Immagini, opera di Hakuin Ekaku (1686-1769)]

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