Si può comunque passeggiare

Una sera d’inverno mi addentro incespicando nel bosco, tutto imbacuccato nel parka e travolto da mille pensieri che si affollano. Avvolto nel gelido amnio e protetto dal silenzio secolare degli alberi, combatto ancora per sedare quegli assilli inconcludenti, le voci dei morti che rammentano quel che passa senza l’intervento dei vivi. Cercano risposta, pretendono soluzione, vogliono che mi riappacifichi con le loro nenie per poter finalmente riposare in pace. Mi avvio lungo un sentiero di fango rossiccio per ammansire i tormenti con la semplicità ristoratrice di una passeggiata.

Sono colpe di quel che siamo stati, rimproveri per quel che potremo essere, sono i mesti sussurri di una storia che non ci appartiene e impera coi suoi sproloqui sulla miseria del mondo umano. La responsabilità del passato germina sulle nostre schiene, le incurva sotto il peso dei suoi fiori e ci fa ciondolare come tartarughe afflitte e incupite che vorrebbero per una volta sollevare lo sguardo. Ci toglie il diritto di vivere l’eterno presente, di sputare sulla tomba del tempo e di danzare liberi come gli animali che siamo. La libertà biologica è in catene e ci vediamo costretti a scandire l’intero arco della nostra permanenza nel mondo in brevi scadenze dal ritmo tartassante, che uccidono e innervosiscono la nostra primigenia indifferenza verso lo scorrere inesorabile dei giorni. Non possiamo più disfarci della maledizione cronologica perché portiamo gli orologi ai polsi, perché i doveri devono riempire la nostra vita anche quando si tratta di accendersi una sigaretta pur di fare qualcosa, perché le ore vengono indicate sugli schermi lampeggianti dei cellulari, sulle insegne che campeggiano per le città, la radio, la televisione, ogni dispositivo di comunicazione ci rinfaccia il ticchettare delle lancette con insistenza; persino il campanile coi suoi rintocchi ci ricorda quanto sia veloce e ineffabile questo inarrestabile fiume di secondi, che dobbiamo sbrigarci a inseguirlo se non vogliamo perdere il percorso che traccia. Non possiamo più prescindere da quest’autorità perché nasciamo in un mondo dove essa è venerata, considerata alla stregua di una divinità ambigua e amorale, un mondo che non ricorda più come quell’autorità beffarda si è conquistata il suo trono pacchiano ed è totalmente incapace di proporre una qualche alternativa al suo dominio aprioristico. Quel brulicare chiassoso della società odierna è solo l’eco amplificata di un fragore scoppiato in un passato remoto e l’ovvietà del presente ne paga lo scotto.

Nella volta inizia a brillare Venere, col suo ardore giallognolo, e sotto la luna è possibile scorgere il flebilissimo bagliore di Marte. Gli alberi anneriti frusciano e dai cespugli fuoriesce zampettando un gatto randagio, che mi avvicina miagolando e con la coda rizzata. Mi passa accanto quasi con indifferenza e si corica nell’erba alle mie spalle, fingendo di non guardarmi coi suoi occhi sornioni. Sorridendogli proseguo il cammino e m’incanalo sotto un arco di rami intricati, quando il gatto all’improvviso mi affianca strusciandomi tra le gambe e mi accompagna fedelmente lungo l’intero sentiero. Come due banali creature viventi, ognuna filtrante il mondo coi suoi parametri, silenziose e recidive che perdono tempo insieme, passeggiamo vuotamente.

La passeggiata è l’emblema della perdita di tempo, la premessa indiscutibile di una riflessione fresca e brillante, intuitiva come il più semplice dei silenzi. La passeggiata è l’espressione del minimalismo attivo, della semplicità di un agire cosciente che interagisce costante con lo spettacolo dischiuso della vita. È sincera e puntiforme, capace di uccidere il tempo e condannarne la memoria alla dannazione perché arresta il dinamismo artificiale della nostra corsa disperata. Dove il tempo ancora esiste il passato è nostalgia pura, il futuro fa vacillare le gambe, il presente è un istante inafferrabile, il nunc una leggenda utopica. Dove il tempo permane l’umanità è oppressa e avvilita, è spronata con le fruste ad affrettarsi lungo i canali di una macchina gigantesca e colossale, che sbuffa e digrigna i suoi ingranaggi sognando solamente di poter accelerare la sua corsa senza senso. Dove il tempo esiste il cuore è dominato dalla speranza e anela quindi a quel momento imminente che può esser latore di benefici quanto di malanni, la mente è indecisa, traballa su un suolo terremotato. La speranza è fomentata dall’incertezza, è imparentata col dubbio, sorge dal terrore per il fallimento e la morte, vive solo là dove è risaputo che si potrebbe stare meglio, ma altrove, in quelle mitiche zone in cui il tempo non esiste e non ossessiona, i vivi e i morti convivono senza differenze e il mondo passeggia per dare respiro a un universo più sereno, lento, e raccolto, dimentico della speranza e dei sospiri da innamorati.

Cala la notte e il buio gelato striscia tra le fronde e gli arbusti. Nell’aria risuonano le risate crudeli delle anatre e le cadute acquatiche dei loro ultimi tuffi. Il gatto mi sorpassa e sembra volermi fare strada lungo il sentiero oscurato, come uno spirito boschivo in soccorso di un vagabondo sperduto. Arrivati all’uscita che introduce al mondo luminoso degli umani, il felino sparisce dentro una baracca polverosa sgattaiolando in una fessura della parete e come pago della sua azione ‘virgiliana’ si accomiata magico e muto tornando nella selva. Il ritmo monocorde è spezzato e la vita passeggiante si rintana nell’intimità oscura, trascinando con sé lo stupore sognante e lasciandoci nelle grinfie degli ululati angosciati dei morti. Avere il tempo di dimenticarci del tempo, questo ci renderebbe finalmente felici.

Leonardo Albano

Vogliamo parlare di guerra? Eliminiamo ogni forma di finalismo: il punto di vista di Bobbio

È l’ormai lontano 1979 quando Norberto Bobbio, con lo scritto Il problema della guerra e le vie della pace, cerca di dimostrare con decisione l’insostenibilità di qualsiasi tipo di giustificazione della guerra. Con le sue pagine egli vuole affermare la necessità di un totale abbandono non solo di questa pratica, ma anche, in senso più generale, della violenza e di ogni suo tipo di manifestazione. Al centro della sua analisi vi è il fatto che gli armamenti delle varie potenze mondiali si sono sviluppati, durante il secolo scorso, fino a raggiungere un livello tale per cui, se si dovesse ricorrere al loro utilizzo, si potrebbe compromettere la stessa esistenza dell’uomo sulla terra. Un’affermazione di questo genere a molti potrebbe sembrare esagerata o addirittura infondata: è proprio questa la preoccupazione che tanto assilla Bobbio, ovvero la mancanza di una “coscienza atomica”. Il livello di sviluppo tecnico e militare a cui siamo giunti è in grado di esporci, infatti, alla possibilità di una guerra termonucleare, la quale, non potendo assolutamente essere paragonata alle guerre che finora si sono verificate, ci pone di fronte ad una vera “svolta storica”.

Perché una guerra di tal tipo è da considerare come una guerra nuova e dunque da rifiutare con assolutezza? A detta di Bobbio, non è affatto a causa dell’orrore: per lui, infatti, ogni guerra è orrenda; ogni guerra avrebbe dovuto, in passato, e dovrebbe, in futuro, essere condannata.

Le ragioni su cui si concentra il suo ragionamento ci conducono ad una riflessione molto più profonda. La guerra termonucleare, infatti, potrebbe mettere a repentaglio la vita e la storia intera dell’umanità, potrebbe distruggere tutto ciò che è esistente. Inoltre, la guerra termonucleare potrebbe non condurre a nessun tipo di risultato. Se lo scopo di ogni conflitto bellico è la vittoria (e il raggiungimento di tutti i vantaggi politici, economici e sociali che essa consente di ottenere), la guerra termonucleare, a differenza delle guerre passate, potrebbe invece non permettere una distinzione tra vincitori e vinti1.

Alla luce di queste considerazioni, mi chiedo e vi chiedo: possiamo rimanere indifferenti di fronte ad una tale eventualità? Possiamo pensarla con distacco o indifferenza? Io credo di no! Credo che ciò non sia possibile nemmeno per l’animo più bellicoso. Il motivo è semplice, ed è Bobbio stesso a suggerircelo: la possibilità di una guerra atomica ci costringe ad elaborare prima, e ad assumere poi, un nuovo e decisivo punto di vista storico: dovremmo eliminare dal nostro orizzonte di pensiero qualsiasi forma di finalismo. Ebbene sì, dovremmo spogliarci proprio di quel tipo di ragionamento che tanto caratterizza la nostra mentalità occidentale! Dovremmo imparare a vedere la storia dell’uomo non più come un processo inevitabile, connotato da un tendenziale miglioramento, ma come un susseguirsi di fatti sì inevitabile, ma sprovvisto di qualsiasi tipo di senso.

Di fronte a questo panorama, Bobbio propone un irrinunciabile atteggiamento di pacifismo attivo, il quale consisterebbe nel negare in modo totale ogni ricorso a conflitti armati, affermando così una profonda fiducia negli effetti pratici che possono discendere dall’utilizzo delle tecniche nonviolente. Questa soluzione vi lascia perplessi? Ebbene, la sensibilità disillusa di Bobbio è perfettamente cosciente della difficoltà di questo tipo di alternativa: egli infatti ritiene che essa si presenti ancora come (inaccettabilmente) distante dalla nostra realtà attuale, nella quale «l’etica dei politici è l’etica della potenza».

Ciò che gli preme di più, dunque, sembra essere l’indirizzarci ad una revisione del nostro modo di stare al mondo e del nostro modo di percepire e valutare ciò che quotidianamente ci potrebbe apparire come invece inafferrabile, come troppo grande rispetto alla nostra finitudine di singoli individui, e come troppo lontano dalla portata delle nostre decisioni ed azioni. Ciò che più conta sembra essere il gettare il seme, il delineare delle piste di lavoro, lo smuovere la sensibilità pubblica, nell’attesa, speranzosa e calma (ma non inerte) che le cose comincino a mutare dal loro profondo.

Ma le cose potranno cambiare davvero? Di fronte a ciò che quotidianamente accade nel mondo, possiamo dirci fiduciosi? Certamente ed innegabilmente, ritengo si imponga sempre più come necessaria, e con una certa fretta, una più profonda riflessione da parte di ciascuno di noi rispetto a queste tematiche; non soltanto per riscattarci dal punto di vista bobbiano secondo il quale «l’arma totale è arrivata troppo presto per la rozzezza dei nostri costumi, per la superficialità dei nostri giudizi morali, per la smoderatezza delle nostre ambizioni, per l’enormità delle ingiustizie di cui la maggior parte dell’umanità soffre non avendo altra scelta che la violenza e l’oppressione»; ma anche per prendere posizione di fronte al fatto che sebbene la guerra atomica sembri essere solo una mera possibilità “futuristica”, in realtà siamo tutti potenzialmente coinvolti e dunque tutti potenziali vittime, e questo, la Storia, non solo passata, ma anche presente, la quotidianità, ce lo hanno già dimostrato.

 Federica Bonisiol

NOTE:
1. Per non limitarsi al puro piano teorico, è Bobbio stesso che cita un esempio riguardante gli U.S.A.: «gli Stati Uniti potrebbero riprendersi in 5 anni se subissero un attacco con soli 10 milioni di vittime, mentre con un attacco massiccio che uccidesse 80 milioni di americani, la ripresa richiederebbe mezzo secolo». Queste stime sono risultate da studi antecedenti di vent’anni rispetto al saggio del 1979, e sebbene debbano essere prese in considerazione e ridimensionate alla luce del progresso tecnologico che sempre più ci impone i suoi tempestivi risultati, sono comunque utili per farci valutare il fenomeno della guerra atomica in modo più concreto.

BIBLIOGRAFIA:
Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, 2009