Filosofia, pensiero critico e verità. Una disciplina antica per uno sguardo sempre attuale

La filosofia in Francia è considerata una materia fondamentale, al pari del francese o della matematica, e viene insegnata in tutti i licei (più o meno come in Italia). La novità è che, sempre in Francia, a breve potranno aderire a un progetto di inserimento esteso della filosofia anche gli istituti professionali. La motivazione? Per chi nutre stima e passione per la filosofia non sarebbe nemmeno necessario dare una spiegazione, ma la riposta di Fréderic Le Plaine è eloquente. In qualità di presidente dell’associazione di promozione dell’insegnamento della filosofia Acireph ha dichiarato su Le Monde: «Tenere gli alunni dei professionali a distanza da una disciplina come questa, che ha in sé una vocazione universalista ed emancipatrice, è ingiustificabile. A meno che non li si consideri meno capaci degli altri»1.

La filosofia è dunque un sapere che abilita gli esseri umani a pensare in modo razionale, fornendo strumenti per provare a pilotare le proprie esistenze, piuttosto che subirle. A molti può suonare incomprensibile il fatto che la filosofia abbia questo potere, infatti molto dipende anche da come viene insegnata. La storia della filosofia, come di solito si configura questa materia nei licei, può essere un trampolino di lancio verso un vasto mondo di conoscenza oppure, se insegnata senza passione, una mera sequela di “chi ha detto cosa quanti anni fa”. In ogni caso, rimane pur sempre una possibilità di aprire un sentiero verso la forma di sapere più dignitosa, come la definiva Aristotele2, in virtù del fatto di non servire a niente. E qui il gioco di parole è illuminante, perché Aristotele ci dice che non serve a niente perché la filosofia non è serva di nessuno, semmai regina e quindi siamo noi a doverla servire. Il primo servizio che dovremmo tributarle è quello di tramandarla e quindi non allontanarla dal mondo dell’istruzione. I filosofi greci hanno fondato questa disciplina come territorio della ragione contro altre forme di sapere, in primis l’opinione, che ancora oggi ci tormenta come falso simulacro della verità. Quanti ancora di noi oggi hanno problemi a distinguere le opinioni dai dati oggettivi?

La realtà in cui viviamo si è fatta estremamente complicata perché già viviamo da sempre immersi in un sistema di reti intrecciate la cui portata non siamo in grado di cogliere fino in fondo, ma a questo intreccio abbiamo aggiunto complessità noi stessi, con le nostre pratiche. Il mondo dell’informazione e della comunicazione sono ormai, per quanto artificiali, altamente complessi, perché numerosissimi individui possono perturbare il sistema globale dell’informazione. Questo diventa chiaro se pensiamo il potere che le tecnologie digitali consegnano a ciascuno in termini di comunicazione. Si tratta di un potere che può essere speso bene, per creare reti di cooperazione basate su fiducia, onestà e ricerca della verità. Tuttavia, questo potere oggi è troppo spesso usato con conseguenze nefaste. Un uso sbagliato della comunicazione confonde opinioni con fatti di verità, mescola scienza con giudizi personali, diffonde idee che allontanano dalla ricerca delle vere cause degli accadimenti. È pericoloso non avere idea di come funziona la ragione che prova a farsi strada nell’intricata rete della vita depurando la verità dalle menzogne, oggi note anche come fake news.

La filosofia insegna a discriminare le forme della conoscenza, perché non tutto può accedere al soglio della verità. Laddove la conoscenza si fa oggettiva, fattuale o empirica sappiamo che la scienza possiede preziosi strumenti per svelare la verità. È importante anche sapere dove questa disciplina si ferma per lasciare spazio ad altre forme di conoscenza. La scienza procede con un metodo rigoroso; tutti, in teoria, potremmo darle un contributo se accettiamo il suo metodo e le sue regole, che prevedono anche che la verità dei suoi contenuti possa non essere definitiva, infatti la scienza è un sapere dinamico. Potremmo dire che la scienza, in qualche modo, ha implicitamente fatto proprio il motto socratico “so di non sapere” proprio mettendo in conto che qualcosa di ignoto potrebbe emergere in futuro e smentire una teoria. Questa è una grande verità, perché la nostra capacità umana sarà, sì, sempre limitata di fronte alla potenza dell’universo, ma anche potentemente migliorabile. L’idea insita di progresso in questa possibilità di rivedere i contenuti di verità alla luce di nuove scoperte è un invito che dovrebbe condizionare tutti noi nei confronti del nostro approccio al sapere. Questa non è un’esaltazione del relativismo assoluto, ma un’esortazione al pensiero critico, che valuta continuamente di chi fidarsi. La filosofia può ancora fare molto in questo senso e insegnarla può essere una questione di giustizia, proprio come sostiene Fréderic Le Plaine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. Versione online del 2 marzo 2021.

2. cfr. Aristotele, Metafisica.

[Photo credit Michael Carruth via Unsplash]

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Perché la tua opinione non è mai “solo la mia opinione”

Immaginate di essere a cena fuori con un’amica. Ad un certo punto della serata iniziate a parlare di omosessualità (tanto per fare un esempio), al che la vostra amica dice: “secondo me l’omosessualità è contronatura, però è solo la mia opinione”. Indipendentemente dalle proprie idee sull’argomento, affermazioni di questo genere offrono uno spunto di riflessione interessante: è davvero possibile che tale opinione sia “solo un’opinione”? In altre parole, è forse possibile che una credenza di questo tipo non abbia alcuna conseguenza? In questo articolo cercherò di dimostrare perché queste domande meritino una risposta negativa. Partendo da delle osservazioni presenti nel saggio The Ethics of Belief (1877) di W. K. Clifford (1845-1879), avanzerò l’idea che ogni opinione, dalla più triviale alla più controversa, ha un’influenza sulla persona che la esprime, su chi gli sta attorno e possibilmente su tutta la società.

Iniziamo dall’opinione in sé. Questa non è mai isolata, “sospesa nel vuoto”, al contrario, essa entra a far parte di quel sistema di credenze che dà forma alla nostra personalità, cioè diventa in qualche modo parte di noi. Seguendo l’esempio fatto da Clifford, credere in qualcosa senza alcuna evidenza non è un problema di per sé, quanto per il fatto che quell’opinione infondata diventa parte di noi, rendendoci creduli e più predisposti ad accettare altre opinioni simili. Allo stesso modo, possiamo prendere come esempio l’opinione “la donna deve essere femminile”. Lontana dall’essere un flatus vocis, essa si unisce alle altre credenze di colui che la esprime, influenzandone il modo di pensare. La persona che giunge a tale opinione potrebbe, ad esempio, diventare meno disposta ad accettare idee di stampo liberal femminista, o potrebbe diventare più incline a sostenere altre credenze di natura conservatrice.

In secondo luogo, le idee di un individuo influiscono ovviamente sulle sue azioni. Come spiega Clifford, una credenza non è realmente tale se non ha alcuna influenza sul comportamento di chi la ha. L’agire di coloro che sostengono, poniamo, che “le persone di colore residenti in Italia non sono italiane” sarà chiaramente diverso da coloro che credono il contrario, i due gruppi tenderanno ad esempio ad avere comportamenti diversi verso le persone di colore che incontreranno nella loro vita, o a votare partiti diversi. Similmente, la ragazza di cui si parlava in introduzione sarà probabilmente meno disposta a votare per un partito in favore delle unioni civili.

Quest’ultima osservazione ci porta alla terza e ultima tappa del nostro ragionamento: nessuna credenza è – con le parole di Clifford – una questione privata, nel senso che nessun essere umano vive isolato, perciò le nostre azioni hanno quasi sempre delle conseguenze su chi ci sta attorno e, più in generale, su tutta la società. Si pensi a una qualunque delle opinioni prese in considerazione in questo articolo. Esse hanno inevitabilmente delle conseguenze per la vita dei gruppi di esseri umani in questione (omosessuali, donne, persone di colore), conseguenze che possono essere dirette (se entriamo direttamente a contatto con queste persone) o indirette (per esempio attraverso il partito per cui votiamo). In conclusione, qualunque credenza, influenzando prima (1) la nostra personalità e poi (2) le nostre azioni, influenzerà – dal momento che viviamo in società – anche (3) la vita di altre persone, in meglio o in peggio.

Avere una qualunque opinione innesta inevitabilmente un circolo virtuoso o vizioso (a seconda dell’opinione in questione): noi siamo parte della società, e se è vero, come ho cercato di dimostrare, che ciò in cui crediamo ha sempre qualche effetto, per quanto piccolo, sulla società, ciò significa che ogni nostra opinione ha un effetto su di noi. Credere, per esempio, alle fake news ci porta ad essere delle persone credule e ad agire come tali; le nostre azioni tenderanno dunque a rendere la società – di cui noi sono parte – un po’ più credula (attraverso, ad esempio, la condivisione su Facebook di tali notizie), rendendo, in ultima istanza, noi stessi più creduli. Cosa dovremmo fare a riguardo? Dovremmo forse smettere di avere opinioni? Ciò sarebbe fisiologicamente impossibile. Come già sottolineava Spinoza all’inizio del capitolo XX del suo Trattato, impedire ad un essere umano di avere un’opinione e di esprimerla equivarrebbe ad impedirgli di respirare. A mio dire, l’obiettivo è quello di diventare più cauti nel modo in cui arriviamo a formarci delle credenze e nel modo in cui le esprimiamo, e per raggiungerlo è sufficiente riconoscere che una qualunque opinione, anche se banale, può avere delle conseguenze esplosive. Un’opinione non è mai “solo un’opinione”. Prenderne pienamente coscienza non può che renderci dei pensatori più accorti e, in definitiva, degli esseri umani migliori.

 

Alberto Cavallarin

 

Alberto Cavallarin è laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e studia attualmente nel Research Master in Philosophy all’Università di Utrecht.

[Photo credit unsplash.com]

Perdere la bussola: disinformazione e complottismi

L’esperienza umana è costantemente immersa nella complessità, in un’interazione continua con innumerevoli fattori e variabili che sfuggono al controllo e all’osservazione; per orientarsi in questo ordine caotico, la mente rincorre informazioni e ricostruisce processi secondo gli stimoli esterni e attraverso gli schemi culturali. In poche parole, semplifica. In fondo tutto questo scomporre e mettere in relazione non è molto di più.

L’adesione a teorie di complottismi e a schemi semplicistici, nonché il giudizio di veridicità attribuito a informazioni inesatte o completamente distaccate dalla realtà, non richiama un identikit preciso, né si limita ad interessare gli strati meno istruiti della società, caratterizzando al contrario anche autori e scuole di pensiero in ambito accademico.

La mente umana è una macchina raffinata, ma inevitabilmente limitata dall’indisponibilità di un numero sufficiente di dati ed informazioni e da bias cognitivi. La ricerca della Verità è sempre stata costitutiva dell’esperienza umana, la strada da seguire mai chiara. Se la religione forniva risposte suggestive e trascendenti ma cognitivamente semplici come la mitologia cosmogonica – una divinità antropomorfa o zoomorfa ricalcata su immagini familiari, o che plasma l’universo con la creta come un artigiano – il logos e la scienza apparivano come pretenziose ed irriverenti elucubrazioni.

La ricerca di un ordine e di una ragione comprensibile per fenomeni ed avvenimenti attraverso esplorazione e conoscenza non manca di ostacoli, è anzi spesso un percorso dove la doxa prevarica l’episteme, rinforzandosi in un circolo vizioso. L’osservazione personale è dopotutto più tangibile della scienza calata dall’alto, e una spiegazione non soddisfacente di un fenomeno spinge alla ricerca di una che appaia più consona all’immagine che abbiamo del fenomeno stesso. Le risposte dell’episteme sono spesso “piccole” – ad esempio il salto di specie di un virus – per giustificare l’enormità di un fenomeno e del suo impatto sulla vita quotidiana – la pandemia. Ci serve una spiegazione semplice da comprendere, ma che costituisca una degna causa, qualcosa di grande: è un’esigenza che rafforza e rinvigorisce il complottismo. Immaginare l’allunaggio come un espediente cinematografico in risposta alle logiche dei poteri forti è un plot in apparenza intricato, ma più vicino all’esperienza umana quotidiana, al visibile e al comprensibile, come le dietrologie sull’11 settembre o le teorie terrapiattiste.

Inoltre, nonostante la conoscenza su un argomento possa aumentare il grado di competenza, non scongiura automaticamente il filtro dell’opinione, né assicura la lontananza dai complottismi. Semplificando, non è unicamente questione di istruzione, ma anche di apertura e flessibilità di pensiero, inteso come un pensiero critico che non cerca in ogni modo di arrogarsi tale, ma che si pone costantemente in discussione e alla prova, slegandosi dal pregiudizio e dal senso comune della propria bolla di opinione – o camera di risonanza. L’illusione di un pensiero indipendente contro l’informazione percepita come dogmatica e discendente rischia di essere a sua volta figlia dell’affiliazione alla propria comunità epistemica di riferimento, dove la ricerca dell’informazione negata si trasforma in ricerca dell’informazione conforme.

Dalla giustificazione divina al capro espiatorio – gli untori – le ombre sul fondo della caverna sono varie e godono di varia legittimazione. Al tempo stesso, i loro contorni non hanno la stessa definizione per tutti. Non solo la realtà percepita ha distanza variabile dal reale, ma la sua stessa forma risponde alla legge protagorea dell’homo mensura, dove entrano in gioco variabili di contesto difficilmente controllabili: l’ombra di una notizia falsa o di una teoria fallace può essere più o meno convincente per un individuo senza per questo determinare la sua relazione con tutte le altre, magari relative ad un area completamente differente in cui questi può manifestare un diverso grado di competenza. È così che anche la distinzione di Eraclito in svegli e dormienti si scontra con la sua stessa riduttività, non solo per il suo carattere dicotomico, ma anche perché questa categorizzazione dovrebbe ricalcolarsi per ogni singolo argomento.

In fondo, la stessa adesione a dogmi e logiche fallaci da una parte ci semplifica la vita, creando schemi e set di motivazioni dal vasto campo di applicazione, e sarà sempre una caratteristica umana con cui convivere con consapevolezza per informarsi in maniera appropriata e comprendere i confini a volte labili tra opinione e conoscenza. Dall’altra parte, anestetizza il nostro senso critico e irrigidisce il ragionamento. Dall’affiliazione politica a quella ideologica, dall’inconscia esigenza di unicità al rifiuto del caos e dell’assenza di controllo umano, qualunque sia la sostanza della nostra bolla, per quanto rassicurante ed a portata di mano possa apparire affidarci alle sue logiche, si rende necessario tener conto, citando George B. Shaw, che per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice, ma che di solito è anche quella sbagliata.

 

Desiré Sorrentino

Desiré Sorrentino, molisana classe 1999, torinese di adozione, studia Scienze Politiche e Sociali presso l’Università degli Studi di Torino. Scrivere è il suo personale modo per rapportarsi con la realtà, descriverla ed indagarla, i libri i suoi inseparabili compagni di strada, il cinema il suo appuntamento al buio, l’arte, la filosofia, la storia e le lingue straniere le sue terre da esplorare. Dal 2019 gestisce Periergos.org, un piccolo blog di approfondimento su temi di attualità e cultura. Nel tempo libero cerca di convincere i suoi amici dell’esistenza del Molise e di barcamenarsi nel dialetto piemontese. 

 

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L’opinione pubblica oggi: una riflessione

Due dibattiti piuttosto recenti mi hanno portato a riflettere su questo argomento: quello che si è creato al ritorno di Silvia Romano e quello sulla persona di Indro Montanelli a seguito dell’imbrattamento della sua statua a Milano. Non affronterò le questioni entrando nello specifico delle polemiche; questa riflessione ha a che fare con una dimensione più profonda del fenomeno, che contiene quelle fattispecie: l’opinione pubblica.

Vorrei partire da una domanda: cosa pensiamo, al di là di ogni ironia, dei nostri tempi? Personalmente, mi colpisce in modo particolare il fatto che ogni evento venga enfatizzato oltre ogni limite, che venga esaltato e sollevato a Unica Questione del momento. Salvo esaurirne la potenza nell’arco di qualche giorno e passare al fatto successivo dimenticandosi di ciò che prima era l’Unicità di dibattito. Questo processo è esponenziale, sia verso il fatto determinato sia per il processo in sé, e si auto-alimenta in una curva sempre più ripida.

Un primo tentativo di “limare” questa questione potrebbe essere quello di sollevare il nostro sguardo dall’interno del sistema all’esterno, provando a leggerla attraverso il filtro del tempo storico. La digitalizzazione e, conseguentemente, il dilagare dei social network sono processi relativamente recenti; potremmo, allora, ritenere che questa esponenzialità derivi dal loro carattere di novità e tentare di prevederne una normalizzazione di qui a un futuro determinato, appunto confinandola nel suo tempo storico.

In realtà, questa possibilità potrebbe essere annullata dallo stesso processo di esponenzialità: la società contemporanea, infatti, è sempre più votata alla “velocità”. Una conseguenza è che i tempi storici si stanno sempre più riducendo e questo radicalizza il problema: da un lato, si impedisce la riflessione sui mezzi nei quali si verifica il processo; dall’altro, la normatività non riesce a trovare categorie adeguate a contenere il processo stesso. La combinazione dei due potrebbe portare a inficiare la normalizzazione prima evocata e ne abbiamo una prova attraverso ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi anni: uno scontro frontale tra i colossi dei social network e le realtà statali – scontro che avviene su tutti i fronti: da quello finanziario (lo scontro sulle imposte) a quello legale (lo scontro sulle sedi) passando per quello etico (fake news, cyberbullismo, suprematismo ecc.).

Come agisce tutto questo sulle opinioni degli individui? Questo è il punto nevralgico della questione: come si dovrebbe costituire un’opinione pubblica che sia realmente tale? Un buon punto per affrontare il dilemma può essere quello di considerare il termine opinione pubblica a partire dal fatto che essa non sia altro che un nome collettivo e, in quanto tale, deve contenere e non annullare o incanalare in percorsi precostituiti le singole opinioni che la costituiscono. La mia paura è che il processo di esponenzialità che prima ho tentato di descrivere stia impedendo radicalmente questo fenomeno. E lo fa in maniera subdola, ovvero mascherando la realtà e facendo sembrare che la sana dialettica che dovrebbe contraddistinguere l’opinione pubblica non sia scalfita. Se osserviamo il dibattito, infatti, esso appare assolutamente, per lo meno, polarizzato. Recuperando i fatti di apertura di questo articolo (e semplificando): pro e contro la persona di Montanelli; pro e contro il comportamento di Silvia Romano. Ma questa polarizzazione su quale terreno si costituisce? È questo ciò che intendevo inizialmente affermando di non interessarmi delle prese di posizione in sé ma di una dimensione più profonda. Perché l’opinione pubblica sia se stessa, le opinioni private che andranno a formare quella pubblica dovrebbero essersi già costruite (o almeno determinate) prima di entrare nella dialettica. E questo avviene se esiste un terreno pubblico su cui si innesti poi l’opinione pubblica. Ciò significa che, prima che una dialettica di opinioni, dovrebbe esistere una dialettica di sistemi, di categorie, di valori che costituiscono il terreno su cui radicheranno le opinioni private che poi, di nuovo dialetticamente, formeranno l’opinione pubblica. Ciò a cui assistiamo, invece, è una desertificazione di questo sostrato vitale che porta, di conseguenza, a un indirizzamento delle opinioni. Cioè: non opinioni private adeguatamente costruite ma preferenze a poli già preventivamente delimitati, che a quel punto non faranno altro che accogliere necessariamente le une o le altre.

Non si tratta, quindi, di evocare una sorta di “età dell’oro” in cui quanto descritto non si verificasse ma di riflettere adeguatamente sulla nostra realtà partendo dal chiederci: cosa pensiamo dei nostri tempi?

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit roya ann miller via Unsplash]

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La seduzione della contraddizione

Se, come ho scritto tempo fa in Il peggior vizio filosofico qui su La chiave di Sophia, un pessimo vizio per qualsiasi pensiero filosofico è la perdita di quello sguardo curioso e innocente nei confronti del mondo, un vizio forse altrettanto grave è il sommario giudizio semplicistico che si trae di fronte a situazioni complesse solo per averne un subdolo tornaconto. Mi spiego meglio.

A chi avrà frequentato qualche facoltà di filosofia, o partecipato a qualche conferenza o letto qualche libro magari non proprio ben pensato, sarà parsa l’idea che in fondo anche per i filosofi il mondo è troppo difficile da interpretare, soluzioni definitive non ce ne sono, la cosiddetta ricerca è sempre aperta, la verità non la conosce nessuno, ecc. Ordinaria amministrazione di scenari post-moderni.

E anche se scavando un po’ in profondità e ripercorrendo le strade che poi vengono malamente riassunte in quelle massime spicciole, un certo senso quelle frasi possono anche averlo, è vero che le apparenti conclusioni scomode per i filosofi, cioè quelle aperte e sconclusionate, si rivelano in realtà a vantaggio loro e del loro ego. Ma come?

Si pensa sempre che i cosiddetti filosofi vogliano far pensare le persone per poterle portare a conclusioni o a prospettive nuove rispetto al modo di ragionare e di vivere comune. Certamente questo compete i migliori filosofi e non chiunque sia bravo a parlare. Il punto però è che spesso anche notevoli menti cascano in uno stanco discorsetto come quelli citati sopra ma solo perché, alla fin fine, nella confusione mentale generata saranno sempre loro ad essere cercati e presi a riferimento: prima ti confondo le idee, così poi verrai da me per cercare ordine.

L’intero non-sapere post-moderno funziona in modo simile: non potendoci essere un sapere stabile, un riferimento certo, sembra di aver raggiunto il punto vero di tutto il percorso culturale dall’antichità a oggi. E quindi di aver fatto un passo verso la verità, verso la sincerità della conoscenza, contro a dogmi, campanilismi, saperi obsoleti.

Al contrario però, chi si muove in quella direzione troppo facilmente non sta facendo altro che riporre tutto ciò che vorrebbe oltrepassare (verità, sapere, riferimenti) dentro se stesso anziché nel mondo. Affermare orgogliosamente che la realtà, ad esempio, è contraddittoria perché non può darsi alcuna verità assoluta che la ordini e che dunque ogni prospettiva intrapresa è ugualmente legittima, comporta inevitabilmente un giudizio di verità su quello che sto dicendo. E quindi sulla mia persona.

Nel momento in cui ogni riferimento si perde e la lancetta della bussola del mondo gira a vuoto, sarò sempre io – che ho contribuito a creare questa situazione – ad essere ricercato e interrogato, proprio grazie a quel grado di verità che comunque ho trasmesso in precedenza e che ho attribuito a me stesso. In questo modo, si compie perfettamente la congiunzione tra relativismo (solo le prospettive individuali e parziali hanno valore reale) e individualismo (dunque, io valgo perché a valere è la mia opinione). Non sapendo interpretare ciò che ho fuori, riempio me stesso: così pensa l’accentratore di pensiero di oggi, che però dimostra di avere alle spalle un deserto conoscitivo notevole.

Lo sforzo del pensiero deve sempre essere quello di giungere alla massima conclusione possibile, alla spiegazione profonda di ogni parte che sentiamo riguardi ciò di cui ci occupiamo, di superare le contraddizioni apparentemente invalicabili a costo di dover poi tacere, di non aver quasi più da pensare: un peso che smettesse di cadere all’infinito smetterebbe di essere un peso, diceva Michelstaedter, smetterebbe di essere se stesso. E così, giungere a un punto fermo del pensiero, non cedere alle seduzioni facili che ci lasciano sempre galleggiare in opinioni comode per la nostra sopravvivenza, deve poter far riflettere anche alla possibilità di non pensare più, di uscire temporaneamente dal proprio essere. Bisogna imparare a «parlar grande o tacere» diceva Nietzsche. Bisogna imparare a star dritti sulla schiena del rigore, anziché cedere (troppo) alle seduzioni facili.

 

Luca Mauceri

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Oltre il muro degli stereotipi

Osservare il mondo che ci circonda è un’attività che compiamo quotidianamente, non le diamo troppo peso perché è pressoché impercettibile, ma è di grande aiuto nella codificazione dei comportamenti delle persone e nella scelta del tipo di interazione: osservando il viso corrucciato di un amico scegliamo un approccio cauto, comprensivo, se invece i lineamenti sono distesi anche la comunicazione diventa rilassata; diversa ancora è la situazione in cui notiamo della sofferenza, automaticamente scatta in noi la volontà di sostenere, aiutare e ascoltare.
Modifichiamo il nostro comportamento a seconda delle circostanze, ed è un tratto caratteristico del tutto naturale per l’essere umano.

Cosa succede, invece, quando notiamo un approccio accentuato nei nostri confronti? Cosa pensereste di una persona che eccede nell’essere comprensiva o che esagera nel mostrare vicinanza in un momento triste? Molto probabilmente gli attribuireste un malcelato disinteresse, un voler apparire ‘amico’ nonostante la scarsa attitudine al concetto più basilare di amicizia. In poche parole vi sentireste presi in giro, e provereste diffidenza nei confronti di quella persona.
E quando invece l’altra persona dissimula molto bene il suo reale stato d’animo? O subentra la nostra bravura e la conoscenza di quella determinata persona con la quale abbiamo un legame profondo (“sorride ma so che soffre”) oppure ci fermiamo alle apparenze (“sorride, quindi sta bene”).

Nell’esatto momento in cui decidiamo di abbracciare la causa delle apparenze, ecco che nascono gli stereotipi, figure standardizzate che rappresentano comportamenti fissi, soggetti ad interpretazioni prestabilite e di conseguenza trattati in modi altrettanto fissi e standardizzati.
Non c’è via d’uscita, non c’è margine di elasticità capace di contenere variabili.

Sempre più spesso, nonostante l’aumento diffuso della sensibilità nei confronti del prossimo (specialmente i bambini, gli adolescenti e le loro problematiche, le donne vittime di abusi, ecc.), le persone – nel mondo reale come in quello virtuale – si riparano dietro il muro degli stereotipi, e da quel luogo evidentemente sicuro, lanciano giudizi, accuse, traggono conclusioni, formulano ipotesi che vogliono assumere il ruolo di somme verità.
Nulla sfugge da questo sistema, né temi delicati riguardanti gli angoli più reconditi dell’interiorità del singolo individuo, né tematiche sociali di più ampio raggio.

Esempi concreti? Il suicidio è il risultato di un’elaborazione complessa compiuta dall’individuo, ha varie forme, può essere rituale oppure frutto di reinterpretazioni fanatico-religiose, oppure può essere una via di fuga da un mondo che non viene percepito più come proprio, e non solo. Le cause del suicidio sono quindi innumerevoli, ma nel momento in cui manca la comunicazione delle motivazioni da parte della vittima, gli stereotipi fanno irruzione nella scena: il mondo alla deriva, la società senza più valori, l’egoismo, il governo che non aiuta, gli immigrati negli hotel.
Se un adolescente si droga, se risponde male agli insegnanti, se esercita bullismo o ne è vittima, il minimo comun denominatore – stereotipato – è la colpa dei genitori, la scarsa educazione, la società senza più valori (ancora), la politica (in alternativa al governo), ecc.

Per quanto riguarda le tematiche collettive invece, è nell’immigrazione che troviamo il terreno più fertile per lo sviluppo degli stereotipi: se vediamo un immigrato ridere, ballare, giocare a pallone, vuol dire che sta bene, e in aggiunta – senza alcun collegamento logico – stava bene anche prima nel suo Paese; se non è il ritratto della fame e della sofferenza stereotipata (denutrizione, segni freschi di percosse, manifestazione continua di stenti e difficoltà motorie) significa che non soffre e non ha mai sofferto.
Non solo, è qui per delinquere e ha compiuto l’attraversata del deserto e del Mediterraneo perché ha sentito nel suo villaggio che in Italia ognuno fa quel che vuole.

Stereotipiamo tutto, anche la guerra: è fatta solo di bombe, eserciti contrapposti e azioni stile Apocalypse Now; la pace: in cui può esserci solo tranquillità e forme di governo democratiche; la famiglia: che se non è composta dal binomio padre-madre crea ingenti problemi ai bambini.
Anche il pianeta, inteso come collettività di individui, siamo riusciti a stereotipare: il detto «tutto il mondo è paese» lo abbiamo preso alla lettera, e siamo arrivati a credere che in ogni angolo della Terra vi siano le stesse cose, materiali e non, che popolano il nostro paesello di cinquemila anime facente parte del contesto occidentale.

Cosa c’è quindi oltre gli stereotipi?
Un universo inesplorato fatto di imprevisti, con pianeti che ruotano su orbite irregolari, stelle sconosciute che possono essere come appaiono, oppure essere altro.
Dove gli abitanti possono sorridere perché sono felici o per sfidare la paura, le persone possono ballare per aver trovato una serenità tanto agognata, dove gli adolescenti possono sbagliare da soli nonostante la presenza dei genitori, e dove i figli crescono lo stesso anche senza un padre o senza una madre.
Dove la guerra, specialmente quella dilungatasi per decenni, è fatta anche di strascichi secondari, di carestie, di lotte quotidiane per la sopravvivenza e la pace è fatta da governi la cui caratteristica principale è la persecuzione, la detenzione prolungata con l’accusa “libera opinione” o “libero gusto sessuale”. Dove parte chi può partire, chi ha le caratteristiche fisiche per farlo, chi ha la possibilità di offrire le proprie braccia per un lavoro onesto.
Dove per certi versi «tutto il mondo è paese» e per altri non lo è.

I pericoli, i timori e la diffidenza ci accompagneranno sempre, possono vincere sulla logica perché rientra negli ingredienti con cui l’essere umano è fatto, ma totalizzare la nostra vita su concetti di tale natura, probabilmente non è il metodo più saggio per affrontarla.

Alessandro Basso

[Immagine tratta da: Google]

 

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Italia sì, Italia no, Italia…

Data siderale: giorno dopo le calende di dicembre.
Anno duemilasedici della nostra era.
Sempre meno ore all’Armageddon.

A chiunque leggerà queste righe,

ho trovato un posto sicuro, ma non lo sarà a lungo perché mi stanno cercando.
Sono dappertutto, loro intendo, quelli che ti propinano la domanda sibillina “E tu cosa voti al referndum?”, quelli che ti danno del folle o dell’eroe a seconda della risposta.
Ed io per interi mesi ho dato una risposta superficiale, l’ho cambiata più volte nella mia mente ma solo perché ho perso tempo per informarmi, per documentarmi, per cercare di capire meglio cosa sarò chiamato a scegliere.
Il punto è che non posso dire queste cose ad alta voce, devo sussurrarle qui, dove rimarrò anonimo per non mostrare il fianco ma soprattutto per confessare impunemente: ebbene sì, non so ancora dove porrò la fatidica ‘ics’; fosse per me aggiungerei un quadratino con la dicitura ‘Forse’.
Legittimo no? Lo facevamo alle elementari quando scrivevamo il biglietto alla ragazzina che ci piaceva, perché dovrebbe cambiare qualcosa? Perché sottovalutare la terza via?
A me non dispiacerebbe sapete, non dispiacerebbe esprimere il mio dubbio.
Ma come spiegarlo a quelli lì? Sì, sempre quelli che mi stanno ancora cercando e che non si daranno per vinti almeno fino a lunedì.
Quante ore sono? Ancora troppe… ancora troppe, un’infinità per un latitante.

Analizzando bene la situazione – tanto per ingannare il tempo, magari per velocizzarlo – sono pochi quelli che me ne parlano tranquillamente, che mi danno addirittura delle spiegazioni sostenute da idee. No, non sono loro a preoccuparmi, non sono loro a darmi la caccia.
Sono gli altri… voi non potete nemmeno lontanamente immaginare cosa sono capaci di fare, non vorrei avvilire queste pagine con inchiostro macchiato di calde lacrime, ma non posso nemmeno starmene zitto senza denunciare.
Ti trovano, ti parlano e dicono cose.

Hanno dei superpoteri, prendetemi per pazzo se volete ma non cambio idea, so cosa ho visto.
Il primo è quello di fare discorsi sconnessi senza capo né coda: serve a disorientare, a confondere, in modo da poter colpire più agevolmente la vittima; ma sarebbe troppo facile tramortirla immediatamente; no… il loro gioco è appena cominciato.
Gliel’ho visto fare migliaia di volte, posso considerarmi veterano in questo, e forse è il motivo per cui sono una primula rossa, un uccel di bosco, sì insomma, uno sbandato.
Rafforzano il tutto con la storia dell’enigmatico complotto architettato dai poteri forti.
Ho cercato questi poteri forti, ho trovato: cultura personale, informazione libera, obiettività, confronto. Me la sono vista davvero brutta perché a loro non andavano bene.
Loro intendevano banche, case farmaceutiche, scie chimiche, Bilderberg, gli abeti della Val di Fiemme, l’associazione bocciofila di Busto Arsizio e altre malvagità che non rammento.

Una volta ho provato a ribattere dicendo che in qualsiasi caso sarà il popolo a scegliere, e che sarà in grado di scegliere anche in futuro indipendentemente dal risultato; ho detto che ci vorrà sicuramente più partecipazione, più interessamento… ho persino detto che avremmo dovuto rinunciare a qualche spritz e che avremmo dovuto imparare ad usare lo smartphone in modo intelligente.
Mi hanno rivelato beffardamente che loro a certe cose non credono, perché “quando c’era Lui”…
Di nuovo ‘Lui’, il famigerato, onnipresente ‘Lui’, talvolta scritto LVI.
Sono arrivato alla conclusione che il più pericoloso superpotere a disposizione di costoro sia il viaggio spazio-temporale.
Vedo già la vostra incredulità dipinta sul volto, ma è tutto vero: loro possono.
Si aggirano tra noi… sì, ormai ci siete dentro fino al collo quindi uso la prima persona plurale, passeggiano da un capo all’altro della Storia e sanno molte più cose di quel che può sembrare: sanno come si viveva in un’epoca molto lontana dalla loro nascita, sanno cosa volesse dire non poter votare, o esprimere la propria opinione sotto una dittatura.
Forse sanno anche com’era Dante da vicino, anzi no, questo è sicuro visto il primo superpotere dei discorsi sconnessi; però potrebbero dirci com’era Giulio Cesare da vicino, la peste nera, i lanzichenecchi… chissà!

Tuttavia sanno cosa avrebbe votato Gandhi o Cavour; me lo vedo Gandhi presentarsi con la tessera elettorale al seggio di Pescasseroli, ma vaneggio… è sicuramente colpa della paura.
Conoscono la Costituzione a memoria – almeno così dicono – sono politologi consumati, esperti giornalisti d’inchiesta, s’intendono di diritto internazionale, diplomazia, geopolitica, calcio, cucina e ricamo.
Ma la cosa più importante è che…

Aspettate, sento dei rumori.
Sono loro.
Non mi avranno.
Non mi avranno mai.

Passo e chiudo.

Alessandro Basso

La questione del suffragio universale

In questo ultimo periodo caratterizzato da referendum e votazioni mi sono sorpreso da ciò che questi fatti producevano al mio interno: la messa in discussione della valenza del suffragio universale.
Inizialmente pensavo fosse causato dal mio orrore mentre ascoltavo i resoconti delle affluenze così basse, delle interviste e degli autorevoli pareri di esperti. Successivamente, però, mi sono reso conto che – analizzato logicamente dal punto di vista teorico – forse una discussione attorno alla sua necessità debba essere intavolata, almeno per essere sicuri di accettarlo consapevolmente e non per comune abitudine.

Il suffragio universale è uno dei capisaldi della democrazia, introdotto in Europa nel corso dell’Ottocento – nonostante per un periodo di tempo brevissimo sia stato adottato anche nella Francia post-rivoluzionaria. Esso esprime gli ideali democratici in maniera massima: ognuno vale uno, cioè ognuno è uguale, ogni opinione ha lo stesso peso, ogni desiderio ha la stessa importanza di ogni altro. Non ci sono restrizioni: non c’è ceto, etnia, censo, genere, orientamento sessuale che tenga.
Concentriamo il nostro sguardo sull’unica discriminante: è necessario aver raggiunto la maggiore età per poter esercitare questo diritto. Quindi: per votare, è necessario avere un’età minima.
Ora mi chiedo: e perché non si è presa in considerazione anche un’età massima?
La questione è molto meno banale di quello che sembri, basti osservare cosa è successo nel Regno Unito recentemente: la parte “vecchia” della popolazione ha imposto il Leave alla nuova generazione, che aveva votato compatta per il Remain (75%). Non sto esprimendo giudizi su chi avesse ragione e chi torto, sto semplicemente analizzando un fatto: chi non vedrà i risultati del proprio voto ha imposto il futuro a chi, invece, subirà le conseguenze (positive o negative che siano) di questa votazione.
Stesso discorso per quanto riguarda, invece, due non-restrizioni: il grado di istruzione e il bagaglio di informazioni. Queste due variabili, infatti, condizionano pesantemente le nostre scelte. Guardando sempre alla “Brexit” per comodità temporale, la differenza tra zone rurali e grandi città come Londra è molto evidente.
Con ciò, di nuovo, non sto dicendo che una delle due sia nella ragione ed una nel torto, sto analizzando semplicemente dei dati.

Il problema non è di facile soluzione, perché ha a che fare con il Tutto, nel suo rapporto con la molteplicità.
Inoltre, il suffragio universale, mi sembra che presupponga se stesso nella sua accettazione: una ipotetica votazione che abbia come oggetto l’adozione o meno del suffragio universale come metodo di voto deve per forza di cose essere già aperta a tutti, e quindi esso si troverebbe già ad essere il metodo di votazione.

Un inizio di soluzione può essere intravisto alla base del sistema.
La questione non è la diversità di opinione a cui il suffragio universale dà voce; anzi: essa è ciò che permette l’essere di uno stato democratico. L’anello debole della catena è la volontà subdola di creare o trasformare opinioni negli/degli altri, di allarmare, di terrorizzare, di deviare l’attenzione verso capri espiatori. Ciò fa gravemente ammalare la validità del suffragio universale, che diventa una semplice facciata: un nome per coprire gli intenti demagoghi e populisti e un mezzo per realizzarli.
La cura, a mio modo di vedere, prevede una medicina politica ed un per la società.
La prima dà voce a come sia necessario avere la capacità critica di scegliere quali decisioni debbano essere espresse dal collettivo e quali dalla rappresentanza di esso. Con il nostro voto, infatti, scegliamo i nostri rappresentati, ai quali diamo la nostra fiducia. E una delle sezioni all’interno di questa fiducia è la speranza che scelgano per noi il meglio, a fronte di una capacità politica che noi non possediamo. Questo determina delle scelte in cui la nostra voce di popolo non conta, perché è appunto espressa dalla rappresentanza, o comunque essa tenta di raggiungere i migliori risultati possibili per la collettività.
La seconda ha a che vedere con la buona informazione.
Può essere un’utopia, in un mondo dominato dalla Rete; in cui ogni notizia è praticamente istantanea e priva di filtri, in cui si fa a gara a chi pubblica per primo una notizia, in cui i dettagli non contano: ciò che importa è il titolo (al quale una buona parte del pubblico si ferma senza andare oltre).
Ma una buona informazione è uno – se non il – presupposto perché il suffragio universale sia espressione del popolo e non di opinioni condizionate.

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google Immagini]