La Terror Haza di Budapest: quando il terrore diventa realtà

Oggi, chi lavora nel campo museale o cura mostre d’arte si trova ad affrontare numerosi problemi di natura estetica e didattica: creare installazioni che valorizzino le opere esposte, rendere la struttura bella ma agevole al pubblico, istituire dei percorsi tematici che aiutino a comprendere gli autori e raggiungere l’osservatore medio, che intenditore d’arte non è. Purtroppo le scelte estetiche che vengono poste in atto, spesso non riescono ad avvicinarsi ai più, i quali, pur rimanendo colpiti sul momento, dimenticano dopo poco il fil rouge della mostra e, passate alcune settimane, non riescono a ricordare nemmeno le opere cardine delle collezioni che sono state esposte.

Un esempio  che contrasta con quest’ultima affermazione è facilmente riscontrabile in un noto museo di Budapest: si tratta della Terror Haza, una sorta di casa-museo nella quale vengono ricordati gli orrori e le vittime del regime comunista.

L’uomo medio che entra per la prima volta in questa struttura viene in primo luogo toccato dall’impianto stesso: una sorta di abitazione, quasi un ambiente familiare, costituito da più piani e diverse stanze. La sensazione che prevale non è quella di un classico museo, freddo e distaccato, istituzionale per così dire, ma di un ambiente raccolto, nel quale l’osservatore non si può perdere.

Il percorso che viene costruito è ad una via e ciò permette di seguire un filo logico, una strada ben definita. Il visitatore è dunque condotto in un’escalation di emozioni, ogni stanza ricorda un pezzo di storia ed è resa suggestiva sia nel gioco di luci, sia negli elementi che la compongono.

Quest’ultimi, in particolare, sono a loro volta disposti in modo da creare una sensazione tridimensionale: abiti d’epoca appesi su normali attaccapanni, scrivanie arricchite con telefoni datati, scartafacci o porta documenti del secolo scorso. L’assetto di questi elementi istituisce una sorta di processo d’inclusione, quasi l’osservatore fosse catapultato in un momento storico che non è il suo, in una realtà che riprende magicamente ad esistere e di cui si sente parte.

Tale idea è a sua volta consolidata da un espediente che rompe il gioco di ruoli: la possibilità di interagire con parte dei pezzi di storia che sono esposti, non solo di “guardare e non toccare”. Ecco che il visitatore comincia allora a giocare diversi ruoli: utilizza i telefoni per sentire la voce delle vittime, guarda filmati di testimonianze seduto tra i documenti dei condannati, osserva le minuscole celle nelle quali morivano i prigionieri. Colui che entra nella Terror Haza si sente in qualche modo parte di quel mondo, a sua volta vittima, prigioniero, perseguitato, quasi fosse stato risucchiato da una macchina del tempo.

Nel caso della Terror Haza di Budapest, dunque, l’installazione diventa in un certo senso parte di ciò che è esposto, la musica, i video, sia pure riprodotti con tecniche contemporanee, collaborano nell’impianto e anche il visitatore meno preparato comprende e viene mosso nell’animo da un groviglio di emozioni.

Forse questo esempio dovrebbe spingere a riflettere sulle scelte che vengono effettuate in diversi musei italiani. Talvolta, pur alla presenza di collezioni o manufatti di valore inestimabile, dimentichiamo di costruire un contorno che possa renderli vivi, che riesca a dialogare con chiunque e, di conseguenza, che faccia realmente apprezzare le opere.

Spesso si dice che l’arte è superata, che gli interessi contemporanei ricadono ormai su altri svaghi, dimentichi delle epoche passate. In realtà bisognerebbe chiedersi se ad essere superato non sia il modo di trattare l’opera più che l’opera in sé, il modo con cui un oggetto viene reso fruibile al grande pubblico e a colui che è davvero l’ultimo interlocutore del nostro patrimonio culturale.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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L’impressionismo a Treviso: opinioni sulla grande mostra

Il 29 ottobre scorso è stata inaugurata al Museo di Santa Caterina a Treviso la tanto discussa mostra Storie dell’Impressionismo, importantissima rassegna di pittura impressionista curata da Marco Goldin, storico dell’arte e abile imprenditore che ha fatto dell’organizzazione di importanti mostre d’arte il suo mestiere.

C’è da premettere che la genesi e lo sviluppo di questo progetto, di grande rilevanza per l’immagine del capoluogo della Marca e per il suo turismo, non sono stati per nulla facili: molti influenti personaggi del mondo culturale locale (e non solo) si sono sin dai primi tempi opposti duramente alla possibilità di affidare gli spazi del museo civico trevigiano al famoso curatore, accusato, ritengo ingiustamente, di creare mostre di bassissima qualità e di attirare grandi masse di visitatori con prodotti di basso profilo culturale e dai contenuti pressoché inesistenti. A ciò si lega il fatto che, secondo gli intellettuali di questa cerchia, il Museo di Santa Caterina necessiterebbe di lavori di sistemazione, e quindi di una maggiore promozione che ne permetta l’attuazione, senza però dover far passare la collezione permanente in secondo piano per lasciare posto a mostre come questa, che, come molti invidiosi usano riferirsi agli eventi goldiniani, vengono definite, con un semplice gioco di parole, ‘mostri’, accozzaglie di opere di artisti famosi esposte per attirare le masse. Ma come stanno le cose in realtà?

Ho visitato questa grande mostra un venerdì mattina e la prima cosa che non ho potuto fare a meno di notare è il grande afflusso di visitatori che si apprestano ad affrontare il lunghissimo percorso espositivo. È stata una sensazione piuttosto strana percorrere le sale del museo trevigiano in mezzo a così tanta gente: scolaresche, gruppi vari e soprattutto pensionati, tutti alla scoperta delle opere della grande stagione artistica francese, ma allo stesso tempo di una sede museale che, grazie alla mia esperienza di stagista nella stessa, posso garantire di non aver mai visto così viva. Dunque qui va subito ad infrangersi una delle argomentazioni di coloro che le mostre organizzate da Goldin proprio non possono tollerarle: con questo evento si è riusciti a catalizzare verso il museo una quantità di persone inimmaginabile per gli standard del complesso di Santa Caterina, una massa di visitatori che può scoprire, insieme alla mostra, le collezioni del museo. Infatti, se è vero che molte sale sono state svuotate per esporre i capolavori dei vari Manet, Monet, Renoir, Cézanne e Van Gogh, le opere più importanti del museo sono comunque disposte lungo il grande corridoio dell’ex convento dove esso è ospitato, in modo che il visitatore, spostandosi tra gli ambienti a sinistra e a destra del grande spazio centrale, è ‘obbligato’ ad ammirare anche i maggiori capolavori delle collezioni trevigiane, dipinti di Tiziano, Tiepolo, Lorenzo Lotto, Rosalba Carriera e molti altri. Come si può chiamare questa se non promozione del luogo?

A questo punto resta solo da valutare la mostra vera e propria, indipendentemente dai suoi influssi sul turismo e sulla promozione del territorio. Sinceramente, credo che anche in questo caso chi critica amaramente le mostre firmate Goldin non faccia altro che dimostrare una fortissima e apparentemente ingiustificabile invidia.

Ciò non significa che la grande esibizione sia priva di difetti: ho trovato il percorso di visita poco chiaro, colpa anche del fatto che sia disposto, nella prima parte, lungo due assi longitudinali separati dal grande corridoio del convento, cosa che rende complicata la scelta della sequenza da seguire e imponga una certa attenzione al fine di non saltare alcuni ambienti. Altra piccola critica che posso rivolgere alla mostra è quella di non avere un preciso ordine tematico o stilistico da seguire, o meglio, i temi ci sono ed è su di essi che si fonda il percorso, ma vengono a più riprese abbandonati e ripresi, seguendo essenzialmente un vago ordine cronologico che rischia però di mettere un po’ di confusione nei visitatori meno esperti. Questo è il motivo principale per cui molti puristi ritengono che queste mostre siano inutili e prive di contenuto. Ritengo tuttavia che queste affermazioni siano frutto di pura follia o, meglio, di enorme invidia. Ma poi perché mai ci dovrebbe essere invidia da parte di questi intellettuali?

La risposta è scontata: chi altro in Italia riesce a radunare in un unico evento oltre cento capolavori dei grandi protagonisti dell’impressionismo? Se anche a me è permesso fare un gioco di parole, posso affermare che questa mostra sull’impressionismo è impressionante: non ho mai visto in vita mia una quantità simile di dipinti di questa corrente artistica, una rassegna gigantesca che abbia radunato opere di tutti gli artisti che ne sono stati fautori e che presenti, per ciascun autore, dipinti di soggetti diversi, spesso accostati a quadri di soggetto simile di un altro pittore, così da evidenziarne le differenze. Penso che, nonostante l’ordine espositivo talvolta poco chiaro, visitare questa mostra sia d’obbligo per chiunque studi arte o ne sia molto appassionato, perché l’occasione di poter vedere così tanti capolavori, spesso accostati tra loro in modo geniale, e poterne valutare caratteristiche e differenze possa non capitare una seconda volta. Così come può non capitare più nella vita di vedere le singole opere ora esposte a Treviso, provenienti da musei sparsi in tutto il mondo. Daltronde, quante possibilità ci sono che mi ritrovi un giorno in Ohio a visitare il museo di Columbus? Onestamente, credo poche. Perché non approfittare allora di vedere alcune delle sue opere a Treviso, finché ci sono?

Luca Sperandio

Una mostra per i 500 anni dell’Orlando Furioso. Impressioni

Nei locali al pianterreno del Palazzo dei Diamanti di Ferrara è stata aperta il 24 settembre scorso una mostra dedicata ai cinquecento anni dalla pubblicazione del celebre poema epico di Ludovico Ariosto, l’Orlando Furioso, opera letteraria simbolo del Rinascimento italiano sia sotto l’aspetto linguistico, sia, soprattutto, sotto l’aspetto dei contenuti, inseparabilmente legati al contesto storico della corte ducale estense, nella quale sia l’opera sia il suo autore sono cresciuti. Da studioso e appassionato d’arte, sono subito stato incuriosito a visitare questa mostra per la presenza di alcuni capolavori di pittura provenienti dai più svariati musei europei, dipinti storicamente importantissimi la cui temporanea permanenza a Ferrara è già da sé una grande notizia. Tuttavia la bellezza e il valore di una mostra non si misurano esclusivamente sul valore artistico di singole opere d’arte esposte al suo interno, bensì sono il risultato di scelte accurate di oggetti che sappiano, specie se esposti mediante criteri logici ben studiati, comunicare con chiarezza allo spettatore informazioni su un artista o su un periodo storico ben definiti, oppure che permettano di raccontare per immagini un mondo ormai distante e appartenente al passato, di cui il visitatore può, per un breve periodo di tempo, riappropriarsi.

È naturale, quindi, che il successo di una mostra tematica come quella attualmente allestita a Ferrara non sia per nulla scontato. L’obiettivo dichiarato, in questo caso, è quello di restituire al visitatore le immagini e le storie che affollavano la mente di Ariosto, quelle che sarebbero poi state impresse all’interno di uno dei più grandi prodotti della letteratura italiana di tutti i tempi. Dunque una sorta di contestualizzazione per immagini, una ricostruzione dell’ambiente culturale ruotante attorno al perno rappresentato dal grande letterato, formula già utilizzata e riuscita con grande successo tre anni fa con la mostra padovana su Pietro Bembo. E qui la domanda sorge spontanea: questa mostra su Ariosto riesce altrettanto bene nel suo intento?

Devo ammettere che prima di entrare avevo un certo scetticismo. D’altronde nelle pubblicità e negli articoli online l’attenzione è puntata quasi esclusivamente sui pochi capolavori pittorici presenti, e l’aspettativa che mi ero creato era quindi quella di ritrovarmi a visitare una raccolta di capolavori legati da un filo conduttore debole o banale. Invece, tutt’altro! Appena varcata la soglia d’ingresso, mi sono trovato catapultato in un mondo di cavalieri e dame, di tornei e battaglie e di grandi uomini le cui gesta oggi ci appaiono forse ancor più eroiche di quel che sono state nella realtà. Il percorso espositivo è un viaggio all’interno di un’epoca idilliaca, una finestra aperta sul grande Rinascimento italiano, la cui lontananza temporale e concettuale viene improvvisamente ad accorciarsi. Se l’intento dei curatori è stato quello di far calare il visitatore nel mondo cavalleresco popolato da personaggi eroici presente nell’immaginazione dell’Ariosto, devo dire che essi ci sono ben riusciti.

Quella che si presenta davanti agli occhi di chiunque si avventuri nei prossimi mesi a Palazzo dei Diamanti è un’ampia rassegna di pezzi, provenienti da moltissime collezioni pubbliche e private, che appartengono a quel “favoloso” mondo cortese di inizio Cinquecento che affonda le sue radici nel Medioevo, e i cui valori rispecchiano ancora, per certi versi, quelli dispensati ed elogiati nella letteratura romanza. Il percorso della mostra si snoda tra un numero consistente di quadri, manoscritti miniati, arazzi e bellissime armi da parata. Quello che più mi ha più colpito è stato vedere, accanto ai ben noti dipinti di Tiziano, Raffaello, Mantegna e Giorgione, bellissimi disegni di questi e di altri grandi artisti del Rinascimento. Incredibile, per esempio, la presenza non pubblicizzata di un disegno di Leonardo da Vinci, anche se ho certamente apprezzato di più un rarissimo disegno di Mantegna e un altro, con la raffigurazione di un soldato, eseguito da Giuliano da Sangallo, fatto che mi ha destato sorpresa dal momento che l’autore è noto esclusivamente per essere un grande architetto. Tuttavia l’opera che, a mio parere, meglio di tutte rappresenta la tematica della mostra e l’immaginario di Ludovico Ariosto è il quadro con la Liberazione di Andromeda del pittore fiorentino Piero di Cosimo [nell’immagine, dettaglio], nel quale l’elegante figura armata di Perseo, uomo ed eroe, viene Mostra Orlando Furioso Ferrara, quadro - La chiave di Sophiaraffigurata nel momento in cui sta per sferzare il colpo fatale all’enorme mostro che occupa il centro della scena, salvando così la principessa Andromeda e ponendosi di conseguenza, nonostante le sue piccole dimensioni di essere umano, come grande protagonista della storia e come garante della virtù umana che sconfigge la bestialità del vizio e dell’irrazionalità, virtù cui viene data grande fiducia e che denota l’eroe di una cultura che, non a caso, viene definita umanista. Queste storie e queste immagini erano familiari ad Ariosto e le si rincontrano nel suo grande poema, cui questa mostra rende un grande tributo che difficilmente può non venire apprezzato.

Luca Sperandio

Mercato d’arte e prezzi folli: amore del bello o mera ostentazione?

Credo che a chiunque venga da chiedersi cosa spinge certe persone o certe società, per quanto facoltose possano essere, a spendere cifre dell’ordine dei 100 milioni di euro per aggiudicarsi un quadro o più in generale un’opera d’arte di un grande artista. A questo proposito, mi ha fatto sorridere un mio insegnante quando affermò di aver considerato “invalutabile” la famosa villa di Maser, opera di Palladio: “come si può dare un valore a un edificio progettato da Palladio e tutto affrescato da Paolo Veronese?”.

In realtà un simile ragionamento non fa che dimostrare quanto lontana sia la mentalità accademica dalla realtà spietatamente capitalista in cui viviamo. Sì, perché ci sono ben due casi recenti in cui delle ville venete di notevole valore artistico e architettonico sono state vendute: la Villa Selvatico-Emo di Battaglia Terme (edificio seicentesco tra i più preziosi del Veneto) è stata battuta all’asta per poco meno di 3 milioni di euro, all’incirca lo stesso prezzo a cui è stato venduto il Castello del Catajo, villa cinquecentesca di dimensioni enormi (oltre trecento stanze) e affrescata da uno dei migliori allievi del Veronese (Giambattista Zelotti), rimasta più volte invenduta e dunque fortemente svalutata. Ora non si può certo dire che 3 milioni siano pochi, ma cosa dire allora dei 300 milioni a cui è stato aggiudicato un dipinto della fase tahitiana di Paul Gauguin, o dei 250 milioni per i Giocatori di carte di Cézanne, o dei 170 milioni per un nudo di Amedeo Modigliani? Ha senso che un singolo quadro valga 100 volte di più di un intero edificio storico di altissima qualità artistica?

La risposta è scontata. D’altra parte è vero che un immobile acquisisce valore secondo la sua ubicazione geografica, e che i costi di manutenzione e i vincoli imposti dalle soprintendenze ai beni architettonici possono creare notevoli difficoltà alla vendita di questo tipo di edifici, con conseguente crollo del loro valore di mercato. Tuttavia non bisognerebbe chiedersi perché le ville venete costino così poco rispetto ai quadri di artisti contemporanei, ma piuttosto perché questi ultimi, pur senza vantare dimensioni notevoli o lunghi tempi di produzione, vengano venduti a prezzi che equivalgono a diverse migliaia di anni di lavoro da parte di un salariato medio italiano. Sinceramente mi viene da credere che, in particolare in questi ultimi anni, vi sia una sorta di feticcio per la singola opera d’arte, per l’immagine nota o, quanto meno, facilmente riconoscibile, tesoretto simbolo di un’epoca di cui ci sentiamo figli, bandiera di una cultura figurativa che porta su di sé tutti i segni della storia recente. Che altra spiegazione ci può essere altrimenti a una tale assurdità? Ciò va poi legato a una corsa folle al record, a un’ostentazione esasperata dei propri averi da parte dei compratori (e non è un caso che spesso si riesca a conoscere l’identità dell’acquirente, nonostante ciò non dovrebbe normalmente avvenire), a un gioco di potere in cui l’arte è solo un mezzo (anzi, l’opera d’arte è un mezzo; l’arte non viene nemmeno presa in considerazione, visto che molti di questi acquisti vedono per oggetto quadri di artisti famosi, ma troppe volte non appartenenti alla loro produzione qualitativamente migliore).

Personalmente non ho mai avuto a che fare con questi acquirenti miliardari e perciò non posso sapere con sicurezza se veramente possano considerarsi degli appassionati collezionisti, ma sono convinto che si tratti piuttosto di accumulatori compulsivi di opere che qualcun altro ha consigliato loro di comprare a qualunque prezzo, perché averle procura prestigio al loro possessore. Sarebbe comprensibile l’atteggiamento di chi compra a caro prezzo opere d’arte contemporanea come forma d’investimento, cosa che richiede oculatezza e buona conoscenza. Ma in questo caso nessuno si spingerebbe a regalare (perché di questo si tratta) cifre come quelle citate sopra. Quegli acquisti folli devono fare notizia e devono in qualche modo abbattere totalmente la possibilità che qualcun altro possa aggiudicarsi l’opera desiderata. Ovviamente, però, qui il concetto di investimento va a morire, così come muore pure il valore dell’opera in sé. Infatti, lasciando da parte l’etica e il fatto che si è disposti a spendere cifre simili per un singolo quadro, c’è anche da constatare che con quei 300 milioni spesi per l’opera di Gauguin un collezionista con un poco di senno, un buon fiuto per gli affari e una profonda passione per l’arte sarebbe in grado di creare una raccolta degna di un museo, che potrebbe vantare quadri e disegni di numerosissimi artisti famosi ma con una quotazione più “normale”, tra i quali potrebbero esserci, per esempio, Canaletto e Turner. Che nella storia dell’arte non hanno certo un ruolo di secondo piano.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]

(Il filosofo sul) viale del tramonto: appunti di Norma Desmond e simili visionari

<p>Sunset Blvd. (1950)   aka Sunset Boulevard<br />
Directed by Billy Wilder<br />
Shown center: Gloria Swanson</p>

Vi sono momenti in cui, guardando la mia libreria – infarcita, grondante, obesa di testi – mi sembra di veder le storie, e i momenti di vita, di ciascuno degli autori. Sì, sono lì, uno accanto all’altro – come se fossero tutti convenuti a un party, tutti gioviali e arguti: qualcuno beve un Martini, qualcun altro fuma una Marlboro, altri giacciono mollemente sui divanetti in porpora sparsi qui e lì nella sala. Tre tizi vestiti da pinguino suonano il Trio Élégiaque n° 2 di Rachmaninov.
Da buon anfitrione passo da un ospite all’altro salutando con aria compiaciuta e affabile: “Oh buona sera Dumas, tutto a posto? Ci vediamo dopo Tolkien! Giacomino, come stai?” – e che la festa cominci! Un attimo però, qualcosa non mi torna… due, quattro, venti, trenta… “Señor Marquez scusate, ma qui non manca forse qualcuno? Avete visto per caso la pattuglia dei filosofi? Dove sono Georg, Immanuel e Søren?” “Estàn en la otra habitaciòn, querido”.
Perché? Perché si sono riuniti tutti lì? Quella stanza l’avevo tenuta chiusa, come hanno fatto a entrare? Immagino – immagino non vogliano mescolarsi… i signori mi scusino, devo andare a recuperarli.

Quel che non sapevo è che il salotto, dove credevo si fossero rifugiati tutti i signori filosofi, era sparito. Al suo posto era comparso un lungo corridoio, freddo e fiocamente illuminato da alcuni civettuoli lampadari in vetro di Murano, inverosimilmente polverosi e ipnoticamente dondolanti… iniziai a percorrerlo, leggermente a disagio; giunsi a una porta di mogano, di quelle vecchie, intarsiate, con le maniglie alte… apro.

Mi ritrovai in un giardino che dava s’un luogo strano, una di quelle costruzioni solenni che, un tempo, inorgoglivano i grandi nobili… una casa abbandonata (soprattutto quando te la ritrovi dentro casa tua, al posto di un salotto di tappezzeria blu!) fa sempre un effetto sinistro. Questa poi!, era un rudere… aveva l’aria di uno di quei vecchi pensatori decadenti carichi di vesti damascate sdrucite e di medaglie di concorsi ormai aboliti da anni, che vivono isolati dal mondo tra gli spettri di un passato lucente. Attraversai il vialetto d’ingresso ed entrai.

Seduto sopra un tappeto sgualcito (di quelli da fachiri) troneggiava un vecchio barbuto, puzzolente all’inverosimile; attorno a lui, un pubblico eterogeneo di soggetti adoranti pendeva dalle sue labbra. Era Socrate. Guardai il tutto un po’ spaesato.
“Siete arrivato, Casagrande” disse una voce soave, alla mia destra: mi voltai e riconobbi Søren.
“Maestro” risposi “che ci fa lei qui? E perché non siete tutti alla mia festa, insieme agli altri?”
“Te lo spiegherò. Intanto seguimi, saliamo le scale.”
Giungemmo in cima alla grande scalinata, e ci affacciammo al corrimano; da quella prospettiva, la scena del piano di sotto pareva ancora più ridicola.
“Qualcosa non ti torna?”
“Maestro, sono confuso… perché voi filosofi siete qui soli?”
“I matti, di solito, non sono separati dagli altri?”
“Che domanda strana.”
“Siamo filosofi, caro mio, siamo matti per eredità propria. Cos’è la filosofia, te lo sei chiesto? Certo, e credo tu ti sia anche risposto. È una ricerca continua, una sete che non si placa mai, una vera e propria ossessione. È come vestire un abito che scopri essere cosparso di colla, e che più porti più ti si appiccica alle carni. Siamo persone inascoltate, che amano non esserlo: trasformisti per vocazione, capaci delle più impensate malinconie e delle più superbe gioie, diciamo agli altri com’essere felici e, per farlo, dimentichiamo che anche noi dovremmo cercare d’esserlo. Sciogliamo nodi che altri hanno stretto, chiedendoci: “Perché lo facciamo?”, ma che c’interessa saperlo, l’importante è chiedercelo! Disprezziamo i soldi di questa vita, perché non sappiamo che farcene, aneliamo attenzione anche se non viviamo per essa. Siamo musicisti, scriviamo sinfonie con le lettere, e detestiamo le banalità. Non siamo noi che ci siamo riuniti qui, in una stanza a parte, sono stati gli altri a cacciarci dalla festa: non siamo noi che “non vogliamo mescolarci”, sono gli altri che non vogliono essere contaminati dalle nostre chiacchiere. Perché “gli altri” scrivono senza pensare, noi pensiamo senza scrivere. Lo vedi? Siamo troppo diversi per poter stare assieme, anche se a volte, parte della nostra vita, la trascorriamo con loro.”
“Ma… perché io sono qui?”
Søren rise e iniziò a scendere la grande scalinata, e quando arrivò sull’ultimo gradino, mi accorsi che attorno a lui si era creata una folla di curiosi. Socrate stava in prima fila; poco più in là Sartre mi adocchiava, fumando. A destra c’era un gruppetto di tedeschi, al centro era Hegel, a sinistra stavano i medievali. Kierkegaard parlò ancora: “Perchè? Ma perché anche tu, come noi, sei pazzo! Non è forse la filosofia una follia? Non occorre che tu mi risponda. Sì, mio caro, hai fatto una scelta, e non si può sfuggire. Troverai mille ostacoli che ti faranno pensare di aver fatto la cosa sbagliata, quando ti desti al libero pensare, e mille volte tenterai di fuggire. Ma, amico mio! Non ce la farai! Ormai sei qui, in questo manicomio!, e questa è la tua vita, e non ne potrai mai avere una diversa. Capisci?”

Ormai non vedevo più nulla, solo gli occhi dei filosofi puntati su di me. Iniziai a discendere verso il conclave filosofico: “Sì, hai ragione… non riesco neanche a parlare, sono troppo felice! Voglio soltanto dirvi quanto sia fiero di trovarmi qui con voi! Mi siete mancati, prima ancora che vi conoscessi – e ora, ora no non vi lascerò mai più. Perché dopo questo pensiero, ce ne sarà un altro, e altri ancora! Vedete questa è la mia vita, e lo sarà per sempre, non esiste altro. Solo noi e il mondo… e nell’oscurità, gli altri a riderci addosso! Eccomi, signor Kierkegaard, sono pronto per il mio primo pensiero.”

David Casagrande

Il successo del genio

<p>Little Herr Albert</p>

Ciascun artista possiede un proprio spazio all’interno della storia, e così come nei film esistono protagonisti, attori secondari e semplici comparse, nella storia dell’arte esistono autori di maggior rilievo, cui oggi molto spesso viene associato il termine di “genio”, e artisti di via via minore spessore, fino alle centinaia di figure senza volto che lavorano dietro le quinte, nelle botteghe, all’ombra dei grandi maestri. Tuttavia, differentemente da un film, nella storia dell’arte i ruoli non sono mai costanti, e chi viene considerato un protagonista dagli occhi e dalle menti di un dato secolo viene poi, in numerosi casi, ridotto a figura secondaria dagli spettatori del secolo successivo, e così viceversa. Sono i cambiamenti storici, le rivoluzioni, la politica, la filosofia, la letteratura e molti altri fattori a determinare questi spostamenti degli artisti nella “scala gerarchica” che ne determina il peso storico e artistico.

Viene di conseguenza naturale domandarsi con quale occhio noi oggi guardiamo le opere di un pittore o uno scultore (o quant’altro), con quale metro le valutiamo e secondo quali criteri consideriamo un artista “geniale” o meno. Il concetto di “genio” emerge in età romantica e viene utilizzato ancor oggi per individuare, in ambito artistico, delle personalità in grado di trasferire la propria dirompente soggettività nell’opera, che diventa una estensione materiale della loro interiorità e pertanto, dal punto di vista dello spettatore, un “ricordo” di un’azione fortemente individuale. Basterà osservare attentamente il gusto attuale in materia artistica per rendersi conto che gli artisti più famosi e maggiormente tenuti in considerazione sono proprio coloro che più si avvicinano all’accezione romantica di “genio”, evidenziando così come la sensibilità odierna non sia di fatto molto distante da quella di circa due secoli fa.

Ovviamente l’ingresso irruento dei media nella vita quotidiana nei tempi più recenti non può banalizzare la questione a una così semplice affermazione, ma la posizione di grande instabilità e spaesamento del soggetto d’oggi si può a grandi linee accostare a quella che, tra Settecento e Ottocento, ha prodotto la concezione di arte come prodotto dell’azione di una ben definita individualità e non più, come accadeva nei secoli di Ancien Régime, come prodotto di un’intera società e della sua mentalità. Ciò non significa ovviamente che le figure geniali siano relegate alla sola contemporaneità: le caratteristiche del genio, ovvero soggettività e individualismo (molto spesso accompagnati da atteggiamenti anticonformisti e talvolta drasticamente critici), si ritrovano in numerosi artisti di qualsiasi epoca, anche ben prima del Romanticismo, e figurano sempre in coloro che oggi consideriamo unanimemente i maggiori artisti della storia. Michelangelo e Jackson Pollock, due artisti dalle caratteristiche stilistiche diametralmente opposte, condividono  alcuni tratti fondamentali del “genio”: forte personalità e grande capacità di trasferire nell’opera d’arte la propria visione del mondo, nonché una certa dose di spirito critico rispetto agli eventi epocali che segnano il loro percorso storico e artistico, dall’età del Concilio di Trento al secondo dopoguerra.

Partendo da questi presupposti, non è difficile comprendere perché alcuni artisti siano più conosciuti e più mitizzati rispetto ad altri a loro equivalenti per originalità e capacità tecnica. Perché Picasso è da tutti ritenuto il più geniale pittore contemporaneo e Kandinskij, altrettanto importante per la storia dell’arte, è molto meno conosciuto dalle masse? Evidentemente Picasso ha dato qualcosa di più: nonostante l’originalità e il forte tratto personale delle opere dell’artista russo, il suo collega spagnolo ha saputo raccontare il suo pensiero, il suo modo di vedere il mondo, le sue stesse debolezze attraverso le opere, portandole a un livello comunicativo che in Guernica raggiunge un’immediatezza e un impatto fortissimi. Il genio deve dunque comunicare la sua soggettività, deve saperla raccontare a tutti mediante le sue opere per essere capito e apprezzato, e Picasso, così come molti altri “geni”, ha sempre qualcosa di personale da raccontare nei suoi dipinti.

Forse l’esempio più emblematico di ciò è il successo globale e dirompente delle opere di Caravaggio, artista geniale per definizione, irruento tanto nella vita quanto nelle scelte artistiche. Egli rappresenta il genio per eccellenza, l’artista che da solo ha sfidato la società e pure se stesso, che ha saputo raccontare la sua storia in modo personalissimo, rappresentando la realtà attraverso le proprie esperienze e le proprie paure. Il suo successo tuttavia non poteva che giungere nei tempi più recenti: quasi sconosciuto per tre secoli, venne “riscoperto” solo a inizio Novecento, quando lo spettatore, sin dal secolo precedente affascinato da personalità titaniche, menti sublimi e storie romanzesche, ha deciso di “resuscitarlo”, dando la dignità di eroe all’antieroe e dimenticando inesorabilmente una delle più grandi muse della pittura per i secoli precedenti, il “divin Guido”, Guido Reni, artista contemporaneo del Caravaggio, accademico, “freddo” diremmo oggi, il quale, senza storie affascinanti da raccontare, non poteva che cadere sotto il trionfo del genio romantico, lume della sensibilità odierna.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]

I classici d’Autore: ‘200 – ‘300 – ‘400 – ‘500

 

Leggere è un autentico universale. Tutta la nostra esperienza è leggere.

Hans-Georg Gadamer

“Non mi piacciono i libri da vecchi: sono noiosi e pesanti. Preferisco quelli meno impegnativi, una lettura leggera che mi distragga”.

Viviamo in un mondo che non lascia spazio alla lettura di per sé, ma soprattutto che disprezza tutto ciò che appartiene alla letteratura d’Autore, quelli che a me piace ancora chiamare i “Grandi Classici”.

La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati.

René Descartes

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