Martin Heidegger e l’origine dell’opera d’arte

Martin Heidegger ha sempre privilegiato momenti alternativi a quelli dell’argomentazione filosofica tradizionale, quali la meditazione sul linguaggio e sull’esperienza della verità nell’arte. Questo atteggiamento trova espressione nel saggio L’origine dell’opera d’arte, che risale agli anni Trenta ma che viene pubblicato nel 1950. Nello scritto si trova il cuore della riflessione heideggeriana sull’arte attraverso l’indagine sul nesso tra arte e verità, anche se il suo contenuto viene rigorosamente determinato dal problema dell’essere. L’essere rimane infatti la questione da pensare sia nel “primo”, che nel “secondo” Heidegger e la posizione di questo saggio è di fondamentale importanza, poiché in esso il filosofo scopre un luogo concreto in cui poter fare esperienza dell’essere in quanto tale, nonché del suo carattere epocale (svelante).

per Heidegger l’opera d’arte, che si tramanda di epoca in epoca, non è riducibile a un unico significato, ma, al contrario, si può tradurre in modi sempre diversi. Persino la totalità dei significati assunti in tempi diversi non può racchiudere il suo senso ultimo, altrimenti non avrebbe più niente da dirci. Nell’opera d’arte non vi è mai nulla di completamente chiaro: luce e oscurità, velatezza e dis-velatezza, tra loro inscindibili, sono i caratteri che la rendono vibrante e che dispongono l’uomo all’ascolto e alla meraviglia di fronte ad essa. È importante ricordare che il titolo L’origine dell’opera d’arte non deve essere inteso come l’annuncio di una ricerca per determinare ciò da cui l’opera d’arte ha origine; esso indica piuttosto che l’opera d’arte è un’origine, nella misura in cui è il mondo che essa stessa apre e illumina. Heidegger tenta dunque una considerazione alternativa rispetto all’estetica tradizionale, che interpreta fenomeni quali bellezza, poesia e arte solamente in riferimento all’uomo come soggetto, levandogli portata ontologica.

Intraprendere la ricerca dell’essenza dell’opera d’arte, seguendo le opinioni comuni accettate, conduce a quello che Heidegger nei primi paragrafi chiama “un circolo vizioso”, da cui però il filosofo non intende uscire, ritenendo coerente sostare in esso e nella contraddizione da esso evidenziata: «Dobbiamo quindi muoverci nel circolo. Ma non si tratta né di un riepilogo, né di un difetto. Nel percorrere questo cammino sta la forza del pensiero»1. Per comprendere l’essenza dell’arte, Heidegger parte allora dal concetto di “cosa”, dato che l’opinione comune considera l’opera d’arte come una cosa, dotata, in più, di valore estetico. Successivamente il filosofo passa alla nozione di mezzo, che sembrerebbe intermedia fra quella di cosa e di opera, per poi scoprire che non è la comprensione della cosa a spiegare l’opera d’arte, ma, al contrario, è la comprensione dell’opera d’arte che permette di capire il significato della cosa.

Heidegger abbandona quindi le opinioni correnti sulla cosità dell’opera d’arte, poiché è la stessa opera d’arte che rivela l’essere cosa della cosa ed è sempre in virtù di essa che si svela l’essenza del mezzo. La tesi di Heidegger è che, nello stesso momento in cui si è in presenza di un’opera d’arte, le cose cessano di funzionare e appaiono nella loro cosalità, ovvero nel loro essere cose. Possiamo affermare, a questo punto, che l’arte è il porsi in opera della verità: «È così venuto in chiaro, quasi di soppiatto, ciò che nell’opera è in opera: l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità»2. Se l’arte ha dunque fondamentalmente a che fare con la verità, di conseguenza la meditazione sull’arte assume i lineamenti di una speculazione ontologica che realizza una riformulazione del problema dell’essere e dell’ente. L’arte, secondo il filosofo, è un evento che fonda la verità come accadimento, ovvero come qualcosa che si dà storicamente. A ben vedere, allora, l’opera d’arte non appartiene semplicemente a un mondo, ma lo istituisce ed è alla base della sua fondazione.

Questa fondazione o apertura, però, rappresenta soltanto uno dei due momenti, inscindibili e correlati tra loro, di quell’evento di verità che è l’opera d’arte, quello che Heidegger chiama “Mondo”. Infatti, nel suo semplice schiudersi e venire alla luce, l’opera d’arte porta con sé il suo mondo storico e il suo fondamento, ciò che chiama “Terra”. La Terra è il chiuso rispetto all’aperto del mondo, attorno al quale si dispiegano i rapporti che costituiscono l’abitare storico: «Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo»3. Il rapporto tra Mondo e Terra viene visto da Heidegger come una lotta. «Sarebbe però una banale falsificazione di questa lotta se la si intedesse come contesa e rissa»4 poiché entrambi gli elementi occorrono l’uno all’altro per potersi manifestare: il Mondo necessita del terreno su cui edificarsi, mentre la Terra, per potersi indirettamente svelare, abbisogna del Mondo.

Questa lotta tra Mondo e Terra, che si gioca nell’alternarsi di nascondimento e di svelamento, costituisce, secondo il pensatore tedesco, l’essenza della verità. Si tratta della verità intesa come non-nascondimento, «nel ripensamento della parola greca a-lètheia»5 o, secondo il termine tedesco che usa Heidegger, “Lichtung”: verità nel senso di spazio illuminato all’interno di una zona oscura. Nell’uso heideggeriano del termine “Lichtung” c’è il rimando metaforico alla radura del bosco rischiarata dai raggi del sole e alla foresta buia. Infatti Heidegger insiste non solo sulla luminosità, ma anche sull’oscurità che la circonda.

 

Umberto Anesi

 

NOTE:
1. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, p 4
2-3-4-5. Ivi, p. 23, p. 31, p. 34, p. 36

[Photo credit unsplash.com]

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L’artista: esecutore o creatore? Il caso di Canova

Nell’arte contemporanea la sempre più diffusa pratica, da parte degli artisti, di creare grandi installazioni che talvolta modificano persino la percezione di un paesaggio (si pensi, per esempio, ai Floating Piers di Christo) implica automaticamente che l’artista sia via via diventato, in tempi recenti, il progettista di un’opera d’arte, il suo creatore concettuale, che dà il compito ad esecutori specializzati (a seconda dei materiali e del funzionamento) di realizzare ciò che lui ha pensato e disegnato.

Per molte persone questo fatto ha portato alla perdita, da parte dell’artista, del suo ruolo storico di esecutore e di vero e proprio creatore dell’opera, plasmata non solo dal suo ingegno ma anche dalle sue eccezionali abilità manuali. Tuttavia vi sono numerosi casi storici di grandi artisti, oggi ritenuti fautori di una bellezza ormai perduta nell’arte, che nella realizzazione dell’opera finita, sia un grande affresco o un gruppo scultoreo, non hanno nemmeno dato il loro contributo concreto, oppure sono intervenuti in prima persona in quantità ridottissime. D’altronde non si può pensare che un immenso affresco, come quelli che occupano soffitti di saloni o di chiese per decine di metri quadrati, venga completato da un solo artista: egli è il maestro, ha un ruolo guida nel cantiere e decide, sulla base dei suoi disegni preparatori, eventuali correzioni e modifiche, lavorando alle aree più delicate (le figure umane) e lasciando ad aiutanti e collaboratori l’esecuzione di elementi di minore impegno. Nel caso della scultura si ripete il medesimo discorso, specie se si parla di opere dalle dimensioni grandiose, come, ad esempio, la Fontana dei Fiumi in Piazza Navona a Roma, di Gian Lorenzo Bernini.

Ma proprio nella scultura c’è un caso eclatante che si distingue da tutti gli altri, vale a dire quello dell’artista veneto Antonio Canova, considerato il maggiore esponente del Neoclassicismo in Europa (insieme ai pittori David e Ingres) e il più grande interprete dell’estetica di età napoleonica. L’attività di Canova, infatti, si configura essenzialmente come quella di un imprenditore, il cui lavoro è vendere ai facoltosi clienti creazioni scultoree dal gusto anticheggiante, che richiamino i fasti dell’antica Roma (erano state da poco rinvenute Pompei ed Ercolano) e che diano lustro al loro committente. Il grandissimo successo dei suoi lavori (soprattutto dalla fine del Settecento) gli procurò una clientela vastissima ed esigente, che egli certo non avrebbe potuto soddisfare da solo. Il suo fare arte divenne perciò una specie di impresa, in cui l’opera era solo il risultato finale di un processo in cui egli si occupava quasi esclusivamente dell’ideazione: egli sviluppava uno o più modelli in terracotta che descrivessero l’opera nelle sue linee fondamentali; veniva poi costruito, sotto la sua direzione, un modello in gesso, che fungeva da prototipo dal quale ricavare poi l’opera finita; questa, infine, veniva scolpita su marmo (o bronzo, a seconda dei casi) da una serie di allievi e apprendisti, che avrebbero seguito scrupolosamente le proporzioni del gesso, non obbligando l’artista a intervenire se non nella definizione degli ultimi dettagli. Quando oggi vediamo un’opera di Canova, quindi, vediamo essenzialmente un prodotto delle mani dei suoi collaboratori. Tuttavia, ciò non cambia il valore dell’opera in sé e la sua autenticità: si tratta comunque del frutto della mente e dell’immaginazione creativa dell’artista, cui senza dubbio mancava più il tempo che l’abilità (ben evidente negli eccezionali modelli preparatori in terracotta). L’opera finita, fedelmente tradotta dal gesso (nella cui lavorazione Canova svolgeva una parte attiva ma non solitaria), mantiene tutte le caratteristiche e la qualità da lui desiderate, cosa che ne fa un suo prodotto a tutti gli effetti, non molto differentemente da quanto i Floating Piers sono in tutti i sensi un’opera di Christo, che ne ha sviluppato i progetti e seguito la produzione in prima persona.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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“L’Arte come scintilla che muove l’universo”: intervista a V Spartacus

Le domande e risposte che seguono sono un estratto di un’intervista all’artista V Spartacus inserita nella mia tesi di laurea. I suoi discorsi radono al suolo il mondo dell’arte, e più che provocazioni sono verità gettata in faccia, io sono un inguaribile ottimista e quindi vedo in questa distruzione le fondamenta per il nuovo percorso dell’arte. Che poi, c’è un percorso? Penso più tosto che il primitivo che dipingeva sulle pareti della caverna e Picasso appartengano alla stessa specie quindi stesso cervello, e stessa tendenza a creare usando il pollice opponibile e qualche strumento… dalla selce al mouse. quindi no percorso, e allora dove porta la filosofia dell’arte? forse solo a girare su se stessi a perdersi, dopo la vetta… perché il punto più alto non è il cucuzzolo della montagna, ma le nuvole.

Come definisci il tuo lavoro?

L’ARTE per me è la scintilla che fa muovere i meccanismi dell’universo. Nel momento in cui cessassi di percepire la “magia” nel vissuto, tramite l’osservazione con tutti i sensi a mia disposizione, non avrebbe più senso esistere. Da questa mia profonda concezione dell’espressione, opero tramite critica ed autocritica, verso il miserabile e casalingo ruolo che ha l’arte nel nostro tempo. Tutto il mio operato, è la mia personale rivisitazione del ridicolo che mi viene proposto sotto forma di ARTE. Il SISTEMA ARTE. Credo che tutti ormai siamo al corrente di determinate dinamiche che definirei MAFIOSE grazie alle quali una persona diventa o meno nota, in ambito gallerista o museale. Si comincia pagando per esporre e poi lascio il resto all’immaginazione…Le opere che ho presentato allo Subsculture fanno parte della serie GALLERIA DELL’ARTE ACCIDENTALE. Cinque “opere” casuali, realizzate inconsciamente, ma che se ricontestualizzate, potrebbero benissimo essere inserite in una qualsiasi galleria d’arte contemporanea. In più’, ho creato una performance sul luogo: ho rovesciato un cestino di cartacce ed ho messo un quaderno vicino all’OPERA per avere delle critiche dal pubblico. Un successone…mi é’ stato pure proposto di esporre da altre parti. Ho riso di questa offerta con amici e parenti.

“Provoke the universe for business”, come vedi il mercato dell’arte attuale?

PROVOKE THE UNIVERSE FOR BUSINESS è una delle mie MISSION, possiamo dire. È uno slogan legato al mio progetto CONTROVERSY RECORDS, sotto questo marchio produco t-shirts, musica ed altri gadgets in cui appunto la provocazione è il filo conduttore. Attraverso varie chiavi come l’ironia, il sesso e l’attualità, lancio messaggi contraddittori al fine di far pensare. È una provocazione nella provocazione, dal momento in cui provoco per creare reazione e dunque energie positive nella contrapposizione. Non avrei mai creduto in un ritorno economico, vista l’ipocrisia del tutto, lo cominciai come esperimento sociale, ma invece il progetto dopo un primo momento di semplici boutade (come avevo ipotizzato all’inizio) comincia a dare frutti in un senso (seguito e scontro con le entità insultate) e nell’altro (ho cominciato a coinvolgere artisti emergenti eliminando la critica a se stante per creare grafiche costruite sulla realtà e sul pensiero). Sul serio non riesco a smettere con questa cosa, mi diverto troppo. Un giorno ho pure litigato con la segretaria di Prince per i diritti del nome Controversy Records (Accusa caduta con tanto di scuse…). Per quanto riguarda il MERCATO ARTISTICO purtroppo ho conosciuto solo i confini di tale COSTRUTTO D’IPOCRISIA. Sul serio, dopo svariate esposizioni, ho rigettato il meccanismo in cui stavo entrando. È una sorta di percorso alla Scientology o quelle aziende a struttura piramidale. Ho visto gente uscire dall’accademia con mostre in tutta Europa già organizzate (cocchi di qualche prof…) ho visto gente investire risparmi per pagare partecipazioni a mostre mercato su mostre mercato. Ho visto gente praticamente prostituirsi accompagnandosi con persone anagraficamente non compatibili pur di assicurarsi un posto in galleria. Poi vedi Jeff Koons sputare per terra e farsi quotare lo sputazzo 9 milioni di euro. Leggi lo stesso Cattelan dire che “se non sei simpatico a quei cento investitori milionari nell’arte non sarai nessuno”. Cosa penso del mercato artistico? Ho lo stesso parere per Cosa nostra e la Camorra.

Come consideri la mercificazione del prodotto artistico?

La mercificazione. Ho due diversi modi di vedere la cosa legata all’arte.

1.La mercificazione dell’OPERA unica, la ritengo bieca ed artefatta. Guardiamo i fatti: come si può dare un valore al pensiero di una persona? Anni fa’, fui ripreso da “colleghi” artisti perché alle collettive mettevo “Offerta libera” dietro alle opere in vendita (esiste un prezzario in base alla misura, mi fu’ detto…). Sul serio, non ho saputo mai dare un valore all’opera singola. L’espressione in ambito contemporaneo dovrebbe essere funzionale al progresso, al futuro, ai costumi ed alla cultura in genere. La produzione in questo settore dovrebbe essere esposta gratuitamente, in luoghi appositi, perché TUTTI possano “arricchirsi interiormente” con messaggi o visioni. L’artista dovrebbe impadronirsi di nuovo del ruolo di protagonista nella storia del genere umano e non di prostituta intellettuale (inserisco anche gli artisti che hanno lavorato su commissione nella storia conosciuta). Forse l’ultimo artista in questo senso é stato un uomo di Neanderthal.

2. La mercificazione dell’arte utilizzata negli (e sugli) oggetti di consumo invece, la ritengo NECESSARIA. Necessaria per tutte le persone incastrate in questo sistema iper-capitalista e consumista. La creatività aiuta a combattere la standardizzazione, se ricercata e ben applicata. Lo stesso meccanismo sistemico soffocante che sacrifica vite alla divinità economica, ci mette nelle condizioni di diventare dei professionisti nell’applicazione creativa sulla produzione industriale. Ho sempre ammirato gli artisti impegnati sui grandi marchi. È sicuramente più sincero di esporre per quei tre gatti che ti prendono l’opera e la murano nel loro museo personale. Nell’industria un artista lavora per tutti (o tanti). È paradossale, ma svegliarsi la mattina e vedere un’opera di Liu Wei sul barattolo del caffè mi dà vibrazioni positive. È un idea condivisa e confrontata con milioni di persone.

Come sei entrato in contatto con Subsculture?

Sono stato scelto dal direttivo. O almeno da alcuni membri. I ragazzi che hanno organizzato fanno parte anche di altri progetti, con cui ho collaborato in passato. In particolare FOETUS rivista. FOETUS rivista è una fanzine che raccoglie scrittori, fumettisti, musicisti, stilisti e molto altro, tutto a livello underground. In seguito a questa collaborazione Lenny Lucchese (noto fumettista) ha realizzato due t-shirts per CONTROVERSY RECORDS (“No violence? Wrong choice!” e “What?”). Penso sia stato lui il mio massimo sponsor in Subsculture. Lenny dà un nuovo significato allo stereotipo di ARTISTA POLIEDRICO.

Che ruolo ha l’esposizione nel tuo fare Arte?

Mi sono sempre fatto tanti amici alle esposizioni, conosciuto nuovi collaboratori. Alla fine sono un utilitarista. Però l’avvenimento in se mi annoia. Mi sembra di essere un venditore di frutta al mercato. Infatti sono parecchio evanescente in questi casi. Mi presento il giusto per conoscere gli altri artisti in esposizione e fare le chiacchiere SUFFICIENTI coi visitatori. Anche tra i visitatori ho conosciuto elementi interessanti. Molte volte venute li per criticarmi. Però è utile per farsi conoscere. Esporre OPERE è così, invece con altre forme d’arte tipo le tshirts mi trovo molto più a mio agio. Le indossano le persone come un virus. Mi diverto quando capita che in un determinato luogo qualcuno indossa una mia t-shirt, ed altri commentano. Puoi raffigurarmi come un voyeur dietro una tenda che spia la vicina mentre si spoglia. È calzante.

Che peso hanno la storia dell’arte e la critica d’arte nel tuo lavoro?

La storia dell’arte per me è fondamentale. Parlo degli artisti del passato o contemporanei come parlo dei mie compagni di bevute. Ma come per la storia ufficiale so perfettamente che a noi non sono arrivate tutte le informazioni che ci dovevano arrivare. La storia la fa’ chi vince no? E non vince sempre chi dovrebbe. Per i critici invece, scrissi quello che penso di loro in un articolo del mio blog (Artburner) e te lo riporto:

[…] Immaginatevi un uomo primitivo, rozzo, sporco e scimmiesco, con i capelli arruffati e nessun gusto nel vestire. Immaginatelo intento a raffigurare il prodotto di una fantasia, un sogno od una visione con rudimentali colori sulla parete della sua caverna. Un colpo di genio, uno slancio espressivo, ciò che in futuro verrà denominato PITTURA RUPESTRE, una rivoluzione per l’umanità che continua tutt’ora ad essere praticata in svariate forme…e nessuna novità, ma questo è un altro discorso… Torniamo al nostro uomo preistorico, preso dall’enfasi di rappresentare ciò che ha dentro, aggredendo quella parete di pensiero colorato. Immaginatelo con alcuni membri della sua tribù dietro ad esultare, per questa stupefacente novità, producendo una serie di gutturali versi… Ora, sempre con quest’immagine in testa, osservate l’omino preistorico alla destra dell’artista. Piccolo, più peloso degli altri. Non ride, non esulta, non grida. Le donne della tribù non lo considerano, gli uomini non gli affidano nemmeno il giubbotto durante le risse. Di lui nella tribù dicono: “grgrfggfrgrg rgrgrfgfrgrf” (che tradotto sarebbe << Come non capisce un cazzo lui, non lo capisce nessuno>>). Ecco, riuscite a raffigurarlo? Ebbene, un secondo dopo il termine dell’opera da parte del nostro artista primate lui sentenzierà: ” ggrghrg rghrgrhgr” (Tradotto <<Sei molto immaturo come artista>>). Questo primo critico d’arte della storia ho ragione di credere sia stato massacrato a colpi d’osso e pietra, ma qualcuno in maniera infausta fu’ subito pronto a raccogliere in segreto la sua eredità, continuando questa stirpe maligna fino ai giorni nostri. Ora il mercato é in mano a persone che con la loro critica al niente condizionano carriere e creano enormi merde snob. La cosa é peggiorata parecchio dai tempi della Preistoria… […]

A conti fatti esporsi ti rende soggetto a giudizio e sarebbe infantile evitarlo

Come vedi il triangolo artista- museo/critico d’arte- spettatori ?

Diciamo che in parte ti ho risposto nelle precedenti domande, però aggiungo che ho sempre tentato di evadere da questo triangolo. Un esempio: mi sono sempre relazionato ai miei spettatori come un Geova che li deve convertire. Li voglio convertire in artisti, per l’appunto. Ho una fissa per scoprire e far sviluppare il lato creativo delle persone. Forse perché arricchisce il mio. Altra forma di evasione la sto progettando in questi giorni: si tratta di un opera collettiva potenzialmente infinita (o non-finita). Comincerò un opera su supporto e poi la darò da continuare ad un amico che dipinge o comunque produce artisticamente. La regola è che potrà fare e farne ciò che vuole ma deve documentarlo ad un indirizzo mail. Così avremo uno storico, finché si riuscirà. Ecco due esempi ma ho sempre tentato nuove forme alternative al convenzionale. Non rinnego completamente l’esperienza gallerista o museale, sia come artista che come spettatore ovvio, ma mi piacerebbe vedere molta più varietà di strutture e situazioni in un ambito in cui é un caposaldo l’immaginazione e la fantasia.

Per te cos’è la filosofia?

Per me la Filosofia è il collante dell’esperienza vita. La Filosofia come materia è il resoconto di uomini e donne straordinari che nel corso della loro esistenza si sono fatti qualche domandina. Addirittura, mi interessa più la vita dei filosofi rispetto ai pensieri degli stessi. Si perché, mettere in pratica o rapportarsi al reale dopo aver teorizzato cose altissime, dice tutto sulla vera natura dell’uomo stesso. Vera o veritiera. Nel corso delle mie letture di Filosofia Amatoriale, mi sono appassionato a più periodi ed a più FIGURE…da Talete a Foucault, da Marco Aurelio a Baudrillard, da Rousseau a Debord. Ma come dimenticare il grande Cratete da Tebe, che voleva suicidarsi dopo essersi fatto sfuggire una rumorosa scurreggia durante un orazione. (In realt`a Diogene lo istruì da Stoico e gli fece conoscere il lato affascinante della dissolutezza.). La vita va presa con filosofia…

Gianluca Cappellazzo

Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Oslo, 23 gennaio 1944)

 

La poetica di Munch è direttamente o indirettamente collegata con il pensiero di Kierkegaard, che soltanto nei primi decenni del Novecento comincerà ad essere conosciuto in Germania: si deve dunque a Munch, che soggiornò più volte in Germania, la spinta “esistenzialista” che farà nascere l’Espressionismo, che è nato infatti nel nome e sotto il segno della sua pittura.
Giulio Carlo Argan

Edvard Munch è stato il pittore che più di ogni altro ha anticipato il movimento Espressionista, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo, città estranea ai grandi circuiti artistici che in quegli anni gravitavano soprattutto su Parigi.
Si può considerare l’artista dell’angoscia: gli unici temi che lo interessavano erano la passione, la vita e la morte. Lui stesso, infatti, disse:

Senza paura e malattia la mia vita sarebbe una barca senza remi.

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Che cosa fa di un oggetto, “un’opera d’arte”?

 Di tutte le cose, oggetti o prodotti con cui entriamo in contatto ogni giorno, ne notiamo alcuni per la loro bellezza, altri per la loro bruttezza, altri ancora ci rimangono indifferenti. Solamente di alcuni, però, possiamo dire essere delle “opere d’arte”. A chi non è capitato di entrare in un museo o in una galleria d’arte e dinanzi ad una tela squarciata o di fronte ad un’istallazione di semplici sedie da tavolo, chiedersi: perché tale realizzazione viene considerata opera d’arte? Le opere d’arte si possono riconoscere per qualche proprietà specifica? Sono tali in modo indipendente o perché deciso da esperti? E ancora, sono tali in ogni epoca storica o sono frutto del loro tempo storico?

Domande che diventano ancora più rilevanti se consideriamo opere quali la famosa Fountain firmata R.Mutt, di Marcel Duchamp, del 1917, un semplice orinatoio, o ancora 100 Brillo Boxes di Andy Warhol, costituita da una serie di scatole contenenti spugnette abrasive utilizzate per pulire le pentole, o più in generale tutti i ready-made che pian piano si sono insediati in diversi musei del mondo.

È chiaro che si tratta di oggetti qualsiasi, selezionati dalla realtà quotidiana, opere puramente concettuali, che aboliscono qualsiasi valore alla manualità e tecnica dell’artista. La bellezza in questione non è più, dunque, qualcosa di percepito tramite i nostri sensi, ma è qualcosa che va oltre le nostre proprietà sensibili e percettive.

Ciò che alla fine fa la differenza tra una scatola Brillo e un’opera d’arte che consiste in una scatola Brillo è una certa teoria dell’arte 

scrive Arthur Coleman Danto, filosofo analitico e artista;

è la teoria che la assume nel mondo dell’arte, e la preserva dal ridursi all’oggetto reale che è.

Quello che Danto intende dirci è che, l’oggetto, una volta “trasfigurato” in un’opera d’arte, assume precise proprietà relazionali, che sono strettamente connesse con ciò che Danto chiama “Mondo dell’Arte”, costituito da istituzioni, storia e teorie. L’opera d’arte è definibile solo in rapporto a quelle determinate teorie e istituzioni, e a coloro che hanno acquisito competenze di rilievo in quella particolare epoca storica.

È proprio nell’individuazione delle proprietà relazionali che si rende possibile l’interpretazione che ha strettamente a che fare con la nostra capacità di porre giudizio.

Il giudizio del bello, cui tutti noi facciamo largo uso nella nostra vita, per esempio di fronte ad una foto, ad un quadro, quando guardiamo un film o un’opera teatrale, o semplicemente di fronte ad un oggetto naturale, è suscitato dallo “stato d’animo del libero gioco della fantasia e dell’intelletto” che si genera “dall’accordo della libertà dell’immaginazione con la legalità dell’intelletto” scrive Immanuel Kant nella Critica del Giudizio. Il bello non è una proprietà oggettiva ma scaturisce dall’incontro tra il nostro spirito che contempla la “forma” dell’oggetto e l’oggetto stesso. Il bello è qualcosa di puro, un piacere universale, libero da ogni interesse e condizionamento.

La domanda da cui siamo partiti, potrebbe ora essere sostituita più correttamente con la seguente: può un nostro giudizio individuale definire un’opera d’arte?
Certamente no, a meno che non siamo parte di quel Mondo dell’arte fatto di istituzioni e teorie cui Danto fa rifermento.

Ciò non toglie la grande capacità che un’opera possiede di suscitare emozioni, sensazioni, ricordi, positivi o negativi che siano, propri per ciascuno di noi, indifferentemente dal fatto di essere critici d’arte o professionisti, definendo quello che è il nostro mondo dell’arte.

Elena Casagrande

[immagini tratte da Google Immagini: opere di Duchamp e di Piero Manzoni]