Fondati dal Niente: “Che cos’è la metafisica?” di Heidegger

È il 1929: Martin Heidegger pronuncia un discorso all’università di Friburgo in Germania che inaugura la sua attività di insegnamento e di ricerca nell’ateneo e il cui testo divenne un vero e proprio classico della filosofia novecentesca, Che cos’è la metafisica?
Fine della riflessione heideggeriana è, nell’opera, offrire un’ipotesi di soluzione al problema della metafisica, vale a dire perché esistano le cose, gli enti. La domanda fondamentale della metafisica ricerca, più precisamente, il fondamento che si ritiene debba avere ciò che è – ed in questa direzione si erano mosse appunto le risposte alla questione di Leibniz e di Schelling, diverse dalla soluzione heideggeriana, basata sul nulla.

Sul nulla? No, per Heidegger quest’ultimo deve essere scritto con la lettera maiuscola, perché, paradossalmente, è qualcosa: il Niente è ciò da cui la totalità degli enti è fondata – uomo incluso. Questa, in estrema sintesi, è la risposta alla Seinsfrage, la domanda sul senso dell’essere nei termini della quale il filosofo rilegge il quesito fondamentale della metafisica e che formula con questo interrogativo:

«Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?»1.

Una risposta che, come accennato, non è priva di paradossalità, la quale però, osserva Heidegger, è tale solo in un’ottica d’analisi scientifica. Perché per la scienza, infatti, non solo è ontologicamente impossibile occuparsi del nulla, giacché non esiste, ma lo è anche logicamente, perché per pensarne o dirne qualcosa si dovrebbero necessariamente formulare enunciati dalla forma “il nulla è x”, ma questa è appunto una contraddizione logica a priori2.
La scienza ha insomma mancato di trattare la questione del nulla come necessario. Perché se lo avesse fatto avrebbe inteso che il niente non è semplicemente tale, ma Ni-ente, ciò che è non-ente – appunto il Niente3. Ciò che si rivela all’uomo nel sentimento dell’angoscia.

L’angoscia: secondo il pensatore, proprio in questa emozione il Niente si rivela all’uomo, ma non in maniera tale da poter essere compreso o espresso. La totalità degli enti in quanto tale è la causa dell’angoscia, precisa Heidegger, quindi a rigore niente ne è il motivo4: Ni-ente, appunto, ciò a cui l’uomo è rinviato proprio da quell’insieme di cose esistenti che, nel sentimento, respingono da sé l’individuo, si sottraggono al suo controllo5. Solo in questo modo la ragione riesce a comprendere che il Nichts fondi l’intero essente6.

La risposta alla Seinsfrage sembra dunque giustificata, e si rivela essere ben diversa da quella avanzata da Leibniz, che non ha analizzato con la dovuta radicalità la domanda fondamentale, sostiene Heidegger, e ciò perché non riflette con sufficiente attenzione sul nulla. L’inesistenza dell’essente, secondo Leibniz, è infatti sconfessata puntualmente dall’esperienza, l’ipotesi nullistica pertanto a priori impossibile7. La causa degli enti è dunque secondo il filosofo seicentesco un ente tra gli enti che esistono – il sommo, Dio8.

Schelling ha invece riconosciuto l’intima natura esistenziale della Seinsfrage, secondo Heidegger9. Se Leibniz ha cercato la causa efficiente degli enti, Schelling ha invece indagato la causa finale dell’essente o il senso delle cose10– proprio quel senso che gli uomini cercano a fronte della quotidiana esperienza del negativo. Il punto è, però, che anche Schelling ha cercato la risposta alla domanda della metafisica tra gli enti, finendo dunque con il percorrere lo stesso sentiero su cui si era incamminato Leibniz. Ma sul quale Heidegger non intende viaggiare, in quanto per lui la Seinsfrage interroga ciò che è altro dagli enti11 – anche se non è ancora completamente chiaro che cosa sia, “positivamente”, il Niente.

Ma questo diverrà presto chiaro: Heidegger riterrà insoddisfacente il cammino speculativo compiuto sin qui, e da una via d’accesso ontica all’essere tenterà di varcare quella direttamente ontologica. E ciò già in Introduzione alla metafisica (1935).

 

Riccardo Coppola

 

NOTE
1. M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 67.

2. Cfr. ivi, p. 41.
3. Cfr. ivi, p. 44.
4. Cfr. ivi, p. 51.
5. Cfr. ivi, pp. 53-54.
6. Cfr. ivi, p. 63.
7. Cfr. R. Morani, Essere, fondamento, abisso. Heidegger e la questione del nulla, Mimesis, Udine 2010, p. 97.
8. Cfr. ivi, p. 96.
9. Cfr. S. Givone, Storia del nulla, Sagittari Laterza, Roma-Bari 1995, p. 99.
10. Cfr. R. Morani, Essere, fondamento, abisso. Heidegger e la questione del nulla, cit., p. 98.
11. Cfr. ivi, p. 99.

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Amare Dio o amare il mondo? L’ultimatum di Kierkegaard

Søren Kierkegaard è di certo un filosofo di non facile lettura. Ma, se si riesce a penetrare nell’intricata selva della sua prosa, si possono scoprire interessanti panorami di pensiero. Una conferma del fatto che Kierkegaard sia un pensatore di primo piano ci giunge da uno dei più grandi filosofi del Novecento, Martin Heidegger, che elogiò Kierkegaard nel modo seguente:

«per quanto riguarda Kierkegaard, si deve far notare che raramente è stato raggiunto in filosofia o in teologia […] un livello di coscienza metodologica rigorosa tale quale il suo»1.

Se si vuole, queste parole possono suonare come un invito a leggere un importante scritto di Kierkegaard, intitolato Ultimatum2. Esso è contenuto in una delle opere più celebri del filosofo danese, ovverosia Aut-Aut (Enter-Eller), di cui costituisce la sezione finale.

La maggior parte del testo di Ultimatum è occupato dalla lettera di un anonimo parroco della campagna jutlandese (dietro al quale si nasconde Kierkegaard stesso). La lettera contiene una predica che è stata ideata dal parroco durante le sue lunghe passeggiate nella brughiera. La predica prende ovviamente spunto dal Nuovo Testamento, il quale suggerisce ai credenti – e agli uomini in generale – di ricercare e praticare solo ciò che è veramente “elevante” ed “edificante”, ovverosia l’amore («L’amore edifica», si legge nella Prima lettera ai Corinzi).

A partire da questo assunto, Kierkegaard, nelle vesti del parroco di campagna, svolge tutto il suo successivo ragionamento. Egli incomincia con il ricordare al lettore che «la tua vita ti porta a intessere svariati rapporti con altri uomini, ma per alcuni ti senti attratto da un amore più intimo che per altri»3. Che cosa accade, chiede a questo punto Kierkegaard, quando sorge una divergenza di opinioni tra noi e la persona che amiamo? Ovviamente, ognuno dei due, sulle prime, penserà di aver ragione e accuserà l’altro di avere torto. Ma in seguito, se ci si ama per davvero, subentrerà un altro tipo di considerazioni, dettate dall’amore per l’altra persona.

Ecco come Kierkegaard descrive questa dinamica: «Se chi è oggetto di questo tuo amare ti facesse torto, è chiaro che ciò ti farebbe soffrire; passeresti in esame con gran cura tutto ciò che concerne il vostro rapporto. […] Potresti cogliere soltanto che lui ha torto, e tuttavia questa certezza ti inquieterebbe, desidereresti di dover avere torto, cercheresti di poter trovare qualcosa che possa parlare a sua difesa […]. Andresti alla ricerca di qualsiasi suo plausibile aver ragione e, se tu non trovassi niente del genere, stracceresti il tuo resoconto per poterlo dimenticare, e vorrai edificarti con il pensiero che eri tu ad avere torto»4.

Quando si ama fino in fondo, suggerisce Kierkegaard, si fa tutt’uno con la persona amata e dunque, anche se la ragione dice che la verità sta dalla nostra parte, e non da quella della persona che amiamo, il nostro cuore non potrà che farci desiderare di aver torto, piuttosto che ferire la persona a cui vogliamo bene accusandola di essere nell’errore. Come scrive Umberto Regina commentando Kierkegaard: «se si ama, si vuole che l’aver ragione stia dalla parte dell’amato, a costo di volere aver sempre torto nonostante ogni evidenza del contrario»5.

È d’altronde vero – osserva Kierkegaard – che la persona amata è pur sempre un essere umano e dunque un ente finito, corruttibile, mortale. Quindi, se è un dato oggettivo che la “logica” dell’amore spinge l’amante a gettarsi tra le braccia dell’errore e del torto, pur di attribuire tutta la Verità possibile all’amato, non va tuttavia dimenticato che la persona che amiamo è di per sé un essere fallibile, che può cadere in errore e aver torto esattamente come noi. Scrive Kierkegaard in proposito: «nel rapporto […] con un altro uomo sarebbe ben possibile che egli avesse in parte ragione e in parte torto, fino a un certo grado torto e in un certo grado ragione, perché egli stesso e ogni uomo sono una finitudine e il loro rapporto è un rapporto finito calato in un “più o meno”»6. Come a dire che, in quanto ente finito e condizionato, nessun essere umano potrà mai detenere, e quindi essere, la totalità della Verità.

Quando ha gli occhi pieni d’amore per un’altra creatura terrena, l’uomo vede in essa la Verità totale, stabile, infinita e immutabile. Ma il punto è che nessuna creatura terrena può stare in equazione con la Verità. Il desiderio che l’amato sia la Verità si scontra con il sapere che mostra che l’amato non può d’altronde essere la Verità. Che l’uomo, per amore, elevi a Verità ciò che non è Verità è senz’altro una bella ma «inevitabile contraddizione»7, nota Kierkegaard. E tuttavia egli a questo punto si chiede: «Si potrebbe mai parlare di una tale contraddizione se invece chi ami fosse Dio?»8.

La risposta di Kierkegaard è negativa. È vero infatti che anche in questo caso l’amore che proviamo ci induce a vedere soltanto nell’amato – e dunque soltanto in Dio – la Verità, ma è altrettanto vero che se l’amato è Dio e non una creatura finita, la contraddizione che affligge il desiderio umano scompare “miracolosamente”, perché le caratteristiche proprie di Dio (eternità, immutabilità, ingenerabilità, incorruttibilità, infinità, onniscienza, onnipotenza, etc.) fanno sì che egli abbia effettivamente tutti i titoli per essere la Verità in persona. Kierkegaard domanda in proposito al lettore di cogliere la differenza tra l’Immutabile, che dimora in un superiore piano ontologico, e tutte le creature terrene che invece stanno sul nostro stesso piano esistenziale: «Colui che è nel cielo non sarebbe forse più grande di te che abiti in terra, e non saprebbe la sua ricchezza surclassare il tuo misurare, la sua sapienza sprofondarsi al di là della tua, la sua santità rivelarsi più forte della tua giustizia?»9. Se riconosci questo – scrive Kierkegaard rivolgendosi al suo lettore – allora capirai che, amando Dio, «non c’è più contraddizione fra il tuo sapere e il tuo desiderio»10.

Secondo Kierkegaard, se l’uomo, posto di fronte all’aut-aut: “amare Dio o amare il mondo?”, decide di amare soltanto il mondo, non potrà che precipitare sempre più nell’errore e nella contraddizione, perché, spinto dall’amore, riconoscerà sì di aver sempre torto, ma attribuirà l’aver sempre ragione a un ente mortale che non merita di essere la Verità. Se l’uomo ama le cose finite e divenienti, il suo amore non sarà mai veramente “edificante”, perché il suo desiderio non verrà mai veramente appagato e il suo sguardo non verrà mai innalzato a una sfera superiore dell’essere. Se invece l’uomo decide di amare innanzitutto Dio, si instaurerà un circolo virtuoso che libererà sempre più l’uomo dalla contraddizione e dalla finitezza, perché, certo, anche in questo caso l’uomo, spinto dall’amore, riconoscerà di essere sempre nel torto, ma quantomeno attribuirà l’aver sempre ragione a Chi lo merita di diritto, ovverosia a quel Dio che «dopo averci condotto attraverso il mondo con la sua mano, […] la ritrae e apre le braccia per accogliervi l’anima pervasa da anelito»11.

 

Gianluca Venturini

 

NOTE

1. M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, p. 469.
2. S. Kierkegaard, Ultimatum, a cura di U. Regina, Morcelliana, Brescia 2017.
3. Ivi, p. 44.

4. Ivi, pp. 44-45.
5. U. Regina, Introduzione, in S. Kierkegaard, Ultimatum, cit., p. 10.
6. S. Kierkegaard, Ultimatum, cit., p. 50.
7. Ivi, p. 45.
8. Ibidem.
9. Ivi, pp. 45-46.
10. Ivi, p. 46.
11. S. Kierkegaard, Due discorsi edificanti 1843. Vol. I: La prospettiva della fede, a cura di U. Regina, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 78-79.

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Il primo libro dell’Etica di Spinoza: «Deus sive natura»

Ridurre l’Etica a qualche riga è un tentativo impossibile, dunque abbiamo deciso di concentraci sul primo dei cinque libri che la compongono – il De deo – rendendoci comunque conto del persistere della difficoltà. 

Pubblicata postuma nel 1677, senza nome dell’autore e senza luogo di edizione, all’interno della raccolta Opera posthuma, l’Etica rappresenta il compimento del lavoro filosofico spinoziano.
Le reazioni che seguirono a questa pubblicazione furono d’orrore: la sua dottrina venne considerata «empia» e «pericolosa», il suo autore fu additato come un «ateo» e un «nemico della religione»1. Cosa causò una reazione così accesa? La risposta è da ricercarsi senza ombra di dubbio nell’immagine che Spinoza diede della divinità. Il Dio dell’Etica, infatti, si distanzia enormemente da quello della tradizione giudaico-cristiana, e, se letto superficialmente, questo testo può condurre ad una visione panteista, materialista o animista dell’Universo. In realtà, la questione è molto più profonda.

Innanzitutto è da sottolineare come la lingua – il latino – non abbia aiutato Spinoza nella stesura delle proprie idee, estranee a quel linguaggio, e di come l’utilizzo di concetti cartesiani, unito a quello di espressioni non del tutto “felici”, abbiano costituito fin dal principio motivi di difficoltà d’interpretazione.
Il filosofo olandese ci guida attraverso un linguaggio geometrico: definizioni, assiomi, proposizioni, dimostrazioni, lemmi e scolii si seguono e concatenano dando vita a una struttura molto complessa e articolata.

La parte De deo è dedicata alla metafisica e allo studio ontologico. Per Spinoza, sostanza è «ciò che è in sé e per sé si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare»2 e per attributo intende «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costitutivo della sua essenza»3. La convinzione del pensatore è che Dio sia l’unica e infinita sostanza esistente, formata da infiniti attributi – dei quali l’uomo può conoscerne solamente due: estensione e pensiero – e che tutto ciò che la filosofia precedente aveva interpretato come enti non siano altro che modi di quest’unica sostanza infinita.
Molto si è dibattuto sul termine “modo”4, e su cosa Spinoza volesse intendere con esso, ma non è questo il luogo per entrare nel merito della questione. Per ora basti sottolineare come questa nuova concezione degli essenti abbia messo completamente in discussione le precedenti credenze. Successivamente al primo periodo di oscurantismo, infatti, l’opera ed il filosofo olandese vennero riscoperti ed ebbero luogo interpretazioni e nuove teorie molto feconde, come ad esempio la rilettura herderiana in chiave vitalistica dell’Etica5.

Molto curiosa è la teoria della libertà spinozista: «Sarà detta libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che da sé sola si determina ad agire»6. Visto che «per causa di sé» Spinoza intende «ciò la cui essenza implica l’esistenza» e che solo in riferimento all’unica sostanza si può parlare di esistenza connaturata («L’esistenza di Dio e la sua essenza sono un’unica e identica cosa»7), ne conseguirà necessariamente che solo Dio è libero. Libertà, comunque, molto diversa da quella del senso comune dato che si tratta di una “libera necessità”. Lo afferma nella lettera 58 a Schuller e lo esplicita anche nell’Etica: «Le cose non si sono potute produrre da Dio in altro modo, né con altro ordine, da come sono state prodotte»8.

Uno dei temi più dibattuti del primo libro è la tesi secondo la quale all’essenza di Dio appartiene l’estensione, questione affrontata nell’ampio scolio alla quindicesima proposizione. L’estensione è l’essenza della materia e la tradizione era concorde nell’affermare che Dio non potesse essere esteso – come Spinoza stesso ci mostra in questo luogo – perché altrimenti diverrebbe formato da parti, e dunque non infinito, o perché non sarebbe perfetto, in quanto gli apparterrebbe la sostanza materiale divisibile. Per Spinoza, invece, «la sostanza, e quindi l’attributo che la esprime, ossia l’estensione, non è composta di parti ma è unica e indivisibile»9. Causa della scorretta interpretazione da parte dell’uomo è per Spinoza l’utilizzo dell’immaginazione invece che dell’intelletto, dato che la prima non è capace di raggiungere la conoscenza dell’infinito. Ma la tesi spinoziana è anche più radicale: «[…] anche nel caso in cui si supponga che la sostanza estesa sia divisibile, non si vedono ragioni perché essa debba dirsi indegna della natura divina “purché si conceda che è eterna e infinita”. È così compiuto il passo decisivo per arrivare alla conclusione più impegnativa della metafisica spinoziana: Dio coincide con la natura; Dio è causa immanente e non trascendente del mondo»10: deus sive natura.

Concludiamo qui questo breve commento a una delle opere più straordinarie della filosofia occidentale. L’attualità del suo autore è manifestata a più riprese da studiosi di vari ambiti scientifici che vedono in Spinoza un contemporaneo con cui potersi rapportare11. Quest’opera è certamente non di immediata comprensione e può scoraggiare, ad una prima lettura, il metodo geometrico da Spinoza utilizzato. Ma facendosi aiutare da una buona guida (come quella di Emanuela Scribano riportata in nota) siamo convinti che anche il lettore meno avvezzo a questi temi possa scoprire un nuovo mondo, sconfinato e attraente, con cui entrare in contatto.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE
1. Cfr. V. Morfino, Genealogia di un pregiudizio, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 2016.

2. B. Spinoza, Etica, P. Cristofolini (a cura di), Pisa, EDIZIONI ETS, 2014, p. 27, def. III.
3. Ibidem, def. IV.
4. Per esempio cfr. V. Morfino, op. cit. e G. Mori, Bayle philosophe, Paris, Honoré Champion Éditeur, 1999.
5. Cfr. J. G. Herder, Dio. Dialoghi sulla filosofia di Spinoza, trad. it. di I. P. Bianchi, Milano, FrancoAngeli Edizioni, 1992.
6. B. Spinoza, op. cit., p. 27.
7. Ivi, p. 53, prop. XX.
8. Ivi, p. 65, prop. XXXIII.
9. E. Scribano, Guida alla lettura dell’ETICA di Spinoza, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, p. 28.
10. Ivi, p. 31.
11. Cfr. ad esempio A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Milano, Adelphi edizioni, 2004.

[Immagine tratta da Wikipedia]

 

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L’ontologia del reale tra Cartesio e “The Matrix”

L’uno, Cartesio, è uno dei padri della scienza e della filosofia moderne, l’altro, The Matrix, è fra i capisaldi della cinematografia sci-fi di fine Novecento. Che cosa unisce un pensatore ed un film, rispettivamente vissuto e girato a secoli di distanza? Niente, sembrerebbe. E invece no: tanto Cartesio quanto The Matrix propugnano tesi filosofiche. E, per la precisione, sia il primo che il secondo trattano un problema metafisico particolare, ossia l’esistenza del reale. Pervenendo, tuttavia, a soluzioni diverse, per non dire opposte.

René Descartes (1596-1650), italianizzato appunto Cartesio, affronta il cosiddetto “problema ontologico” del reale nelle Meditazioni metafisiche (1641) e, precisamente, nella prima di esse. Così scrive: «Chi può assicurarmi che […] Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niuna figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo?»1. Ogni cosa che esiste, in altre parole, potrebbe in realtà non essere, argomenta il filosofo. Nella quotidianità, ci si avventura in una giungla d’asfalto e ne si scorgono i predatori, auto, moto, mezzi pubblici; si ammirano i cieli tersi e luminosi di maggio; si entra in contatto con famigliari, amici, colleghi, ciascuno unico nella sua ipseità. Ma tutto questo potrebbe non esistere: potrebbe essere in atto un inganno dei sensi, un’illusione creata a danno umano, sottolinea il pensatore francese, ad opera di un genio maligno2.

Che ne consegue dunque? La libertà, il bene forse più prezioso degli esseri umani, sarebbe un sogno. Per non parlare poi della conoscenza: niente. Esatto: nulla sarebbe solo ciò che, paradossalmente, esisterebbe, si inquieta ancora Cartesio. Certo, questo nel caso in cui l’illusione fosse tale. Ma come fare per scoprirlo? Il filosofo offre la sua soluzione, che inizia dal famoso cogito. È il fatto stesso di pensare a testimoniare immediatamente di esistere e che quindi non ci si sta solo illudendo di esistere. È il fatto stesso di essere a rassicurare anche sulla vera esistenza di Dio – sicché solo Dio può aver creato la res cogitans, ma se Egli non fosse chi avrebbe donato l’essere alla res cogitans? È il fatto stesso che quell’entità trascendente esista, infine, e che sia onnipotente, buona e verace a giustificare che il dato percepito dai sensi provenga da res extensae che esistono davvero – il reale3.

Ma il mondo globalizzato attuale non è quello dell’Europa seicentesca: è fortemente secolarizzato, è avvenuta la cosiddetta “morte di Dio”. Il mondo globalizzato attuale è però anche diverso da quello immaginato dai fratelli (ora sorelle, dopo la chirurgia estetica) Larry e Andy Wachowski, sceneggiatori e registi del film The Matrix (1999). È una realtà distopica del futuro, quella raccontata dalla pellicola, una realtà in cui un gruppo esiguo di esseri umani è in guerra contro intelligenze artificiali sinistre. Ma questo «mondo vero», come lo definisce uno dei personaggi centrali dell’opera, Morpheus, è celato da un’ulteriore realtà, appunto Matrix, nella quale vive la maggior parte degli uomini pretendendo di condurre un’esistenza all’apice della civiltà umana, e che è alla fin fine proprio il mondo globalizzato post-contemporaneo. Qui l’aspetto più agghiacciante: Matrix non è reale. Tale è la verità che viene appresa, dolorosamente, dal protagonista del film, Neo, che in un colloquio con Morpheus comprende che la realtà fine-Novecentesca nella quale aveva vissuto sino ad allora come Thomas A. Anderson fosse una «neurosimulazione interattiva».

Un’illusione, insomma, direbbe Cartesio. Un incubo intendono le sorelle Wachowski, un delirio di schiavitù che pretende clamorosamente di essere reale e che nasconde invece il reale sfruttamento dell’umanità ad opera di macchine incredibilmente avanzate. Perché in ultima analisi è questa la differenza: in Cartesio, l’illusione della realtà non è tale, perché essa esiste davvero come appare ai sensi. In The Matrix il mondo post-contemporaneo nel quale vive gran parte dell’umanità, lavorando per importanti software-houses o cenando in ristoranti raffinati con l’accompagnamento di dolci note d’arpa, è solo un «mondo virtuale elaborato al computer, […] per tenerci sotto controllo». Che, dunque, non esiste. E sembra, in conclusione, formularsi un’ipotesi, nella mente dello spettatore nutrito di filosofia che guardi questo film: forse che The Matrix sia un’opera nella quale le sorelle Wachowski abbiano tentato di riattualizzare il “problema ontologico” del reale perché la giustificazione metafisica della questione in Cartesio è oramai impossibile da sostenere nella post-contemporaneità? È senz’altro, questa, una domanda lecita.

 

Riccardo Coppola

 

NOTE
1. Cartesio, Opere filosofiche 2. Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 20.
2. Cfr. ivi, pp. 21-22.
3. Questo è, per sommi capi, tutto l’itinerario speculativo cartesiano nelle Meditazioni metafisiche: cfr. ivi.

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Bene e male nel genio di Fëdor Dostoevskij: può il male permettere la vita?

Il nono capitolo dell’undicesimo libro de I fratelli Karamazov di Dostoevskij è forse quello più denso di significato di tutta l’immensa opera letteraria. Meriterebbe una pubblicazione a sé stante, tanto fecondo di concetti, riflessioni, ironia e teorie. Si passa da tesi teologiche a sociologiche, da filosofiche ad antropologiche, da scientifiche a psicologiche.

L’ambientazione è quella di una stanza, in cui il personaggio di Ivan sembra avere un’allucinazione che gli mostra, seduto sul divano, il diavolo pronto a conversare con lui. Il dibattito è carico di tensione in quanto il protagonista è convinto che si tratti di un’allucinazione, in un crescendo di collera verso quel gentiluomo modesto che cerca – almeno questo è ciò che Ivan pensa – di convincerlo della sua reale esistenza. Non dobbiamo infatti aspettarci una classica rappresentazione di Satana, in quanto è quello stesso particolare diavolo (da notare che non uso la d maiuscola) a dircelo:

«In verità te la prendi con me perché non ti sono apparso in un qualche bagliore rosso, ‘tonante e rilucente’, con ali di fuoco, ma mi sono presentato con un aspetto così modesto. Ti senti offeso in primo luogo nei tuoi sentimenti estetici, ed in secondo luogo nell’orgoglio; ‘Come,’ dici, ‘da un uomo di tale statura può recarsi un diavolo così volgare?’. No, in te comunque c’è questa vena romantica […]»1.

Una delle tesi più profonde è quella relativa alla “cattiveria” del diavolo – del male – collegata all’argomento della teodicea. È sempre il diavolo a dirci: «Io per natura ho un cuore buono e allegro […]. Per una qualche predestinazione fatta prima che il tempo avesse inizio, nella quale non mi sono mai potuto raccapezzare, io sono destinato a ‘negare’, mentre invece sono sinceramente buono e del tutto inadatto alla negazione. No, fila a negare, senza la negazione non ci sarà la critica, e che rivista sarà mai senza la ‘sezione della critica’? Senza critica si sentirà soltanto ‘osanna’. Ma per la vita la sola ‘osanna’ è poco, è necessario che questo ‘osanna’ passi attraverso il crogiolo del dubbio, e così va, roba di questo genere. io, d’altronde, in tutto questo non mi voglio immischiare, non sono stato io a crearlo, e quindi non ne rispondo nemmeno»2.

Già la prima, semplice, affermazione fa riflettere: per natura il diavolo è buono e allegro. Non per scelta, ma per natura, cioè per costituzione: per definizione. L’essenza del diavolo si scontra però con la realtà: il suo destino è quello di negare, di criticare, di distruggere. La sua essenza “buona e allegra” si concretizza in azioni tutt’altro che buone e allegre. Com’è possibile?

Ma il dialogo è ancor più radicale: «E mi hanno scelto come capro espiatorio, mi hanno costretto a scrivere nella sezione della critica, e ne è venuta fuori la vita. Noi comprendiamo questa commedia: io, per esempio, esigo in modo semplice e diretto l’annientamento. ‘No, vivi’, dicono, ‘perché senza di te non ci sarebbe niente. Se sulla terra tutto fosse sensato, allora non succederebbe un bel nulla. Senza di te non ci sarebbero avvenimenti, e invece è necessario che ce ne siano.’ Ed ecco che presto il mio servizio a malincuore, affinché ci siano avvenimenti, e su ordinazione creo l’insensato»3.

La citazione dovrebbe veramente continuare fino alla fine del capitolo, perché ogni parola è dosata col contagocce in quanto a significato – sia in sé che in relazione alle altre – ma per ora concentriamoci su questo.
La vita nasce dalla costante opera di negazione prodotta dal diavolo. Cosa significa? Ontologicamente e semplicisticamente potremmo dire che sono le differenze a permettere l’esistenza. Ovvero il fatto che due enti – per esempio una casa ed un albero – possano esistere distintamente viene garantito dal fatto che quegli enti non sono lo stesso ente – una casa non è un albero – e quindi in questo modo la loro indipendenza ontologica reciproca viene salvaguardata, e ciò permette la loro determinazione.

Il punto è che qui la parola vita potrebbe non coincidere con esistenza (in senso ontologico). Ovvero si potrebbe pensare che il diavolo stia parlando proprio del dispiegarsi dei nostri “Io” nel tempo, del nostro viaggio su questa terra che inizia con la nascita e termina con la morte. In questo senso “l’insensato” potrebbe essere ciò che per l’uomo è insensato – o ciò a cui non sa dare risposta, che non è insensato perché contraddittorio o incomprensibile – ma che in realtà è proprio quello che dà sensatezza a quella che noi pensiamo essere la sensatezza. La scopriamo così intimamente dipendente da questo insensato, che non riusciamo totalmente a comprendere ma che sappiamo avere un senso da qualche parte.

E questi sono solo due superficiali inizi di possibili interpretazioni, che possono essere veramente infinite. Memorabili sono inoltre il discorso sulla specificazione dei saperi (ed in particolare della medicina), sull’esistenza o meno di Dio – è il diavolo stesso a confessare, in prima battuta, la propria ignoranza in materia –, il destino di un’ascia nello spazio, le leggende sulla Fede, il “palmo di naso”, la continua alternanza tra realtà e illusione, discorsi sull’uomo ammiccanti a Nietzsche e molte altre.

È un testo molto lungo, bisogna dirlo, ma almeno la ventina di pagine in cui consiste questo capitolo – anche se perdono qualche significato se estrapolate dall’opera completa – vanno assolutamente lette nella vita. Abbiamo di fronte un caso di Filosofia a disposizione della quotidianità che parla il linguaggio del romanzo consegnandoci alcune delle teorie e problematizzazioni – a mio modo di vedere – più belle della Storia, dobbiamo solo essere pronti a coglierlo.

 

Massimiliano Mattiuzzo

NOTE:
1. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Feltrinelli, Milano 2014, p. 882
2. Ivi, p. 875
3. Ivi, pp. 875-876

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Quando un computer ha confutato la dimostrazione dell’esistenza di Dio

<p>3D illustration. Artificial neuron in concept of artificial intelligence. Wall-shaped binary codes make transmission lines of pulses and/or information in an analogy to a microchip.</p>

La storia del pensiero filosofico dell’ultimo millennio può essere raccontata attraverso l’approccio dei diversi filosofi al celebre argomento ontologico. Da Anselmo fino ai giorni nostri passando per Spinoza, Leibniz, Kant e Gödel, grandi menti si sono date battaglia intorno alla sua validità.
L’argomento, tanto semplice quanto geniale, si compone di due premesse e di una conclusione.

  1. Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore (in perfezione);
  2. Ciò che esiste è maggiore (in perfezione) rispetto a ciò che non esiste;
  3. Di conseguenza Dio esiste necessariamente.

La fascinazione esercitata da questo argomento è dovuta al fatto che a differenza delle prove a posteriori come quelle di Aristotele e San Tommaso, e a differenza degli argomenti su base probabilistica come quella di Pascal, essa è deduttiva, ossia se corretta dimostra una volta per tutte in modo decisivo l’esistenza di Dio. Sarebbe così risolto l’enigma che più di tutti si è affacciato alla coscienza umana.

Nel dibattito contemporaneo senza dubbio la formulazione che ha riscosso maggior successo è dovuta a Kurt Gödel (1970), meglio noto per i due famosissimi e spesso male interpretati teoremi di incompletezza. La formulazione gödeliana ha il vantaggio di tradurre l’argomentazione in termini formali, ottenendo così maggior rigore ed eleganza ed evitando espressioni vaghe presenti nella versione originale che ne inficiavano l’esito.  

Un’altra storia – molto più recente – è invece quella degli automi capaci di computare, cioè di eseguire calcoli matematici o deduzioni logiche. Dall’ideale di Turing alla macchina di Von Neumann fino ai nostri computer, la semplice manipolazione di simboli ha permesso di trasformare in mille modi, alcuni più evidenti di altri, il nostro modo di vivere. La filosofia come qualsiasi altra dimensione della vita contemporanea non rimane esente dal confronto con le nuove tecnologie. Da un lato la filosofia fa ciò che le è proprio: riflette sui limiti di applicazione, sul buon uso, sulle implicazioni etiche; dall’altro se ne serve, come di utili strumenti che servono ad arrivare là dove la capacità umana di calcolo si scontra coi suoi limiti e ben oltre.

Queste due storie apparentemente così estranee si incrociano proprio a questo punto: qualcuno infatti ha pensato di utilizzare un calcolatore programmato allo scopo di verificare la coerenza della dimostrazione logica dell’esistenza di Dio da parte di Gödel. Talvolta infatti alcuni assiomi – le fondamenta sui cui si basano le dimostrazioni – si scoprono inconsistenti: ciò avviene quando derivano teoremi tra loro contraddittori.

Solo così nel 2013 un calcolatore ha derivato due teoremi contraddittori a partire da un assioma su cui si regge l’argomento gödeliano. Ciò lontano dall’essere la prova definitiva dell’inconcludenza dell’argomento ontologico, aperto sempre ad esser riformulato in modo da evitare contraddizioni, ci annuncia – in modo abbastanza appariscente – l’importanza che possono avere le nuove tecnologie di questo tipo applicate alla filosofia.

Questi strumenti, come protesi del pensiero nella sua forma meccanica e formale, possono essere d’aiuto nello svelare alcuni errori che l’uomo, anche il più esperto, può lasciarsi sfuggire. Tuttavia sarà di nuovo compito dell’uomo interpretare i risultati che ci fornisce il calcolatore, capirne il perché ed eventualmente trovare una soluzione se ciò è possibile.

 

Francesco Fanti Rovetta

NOTE:
Per i dettagli tecnici della scoperta cliccate qui.

 

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La ‘voce’ come espressione dell’unicità umana

Era il tipo di voce che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato.
(F. Scott Fitzgerald)

La voce rimane sempre in sordina, non viene mai messa in primo piano, tutti ce ne dimentichiamo eppure è il nostro più potente mezzo di comunicazione.

Quanto influisce veramente la voce nella vita di tutti i giorni?

Moltissimo. La voce, o meglio il tono della voce, fa la differenza, perché sottolinea in modo marcato l’efficacia, la credibilità, il ricordo di un messaggio e di chi lo interpreta.

La voce è un “lavoro” complesso di più parti del nostro organismo che si organizzano come un’orchestra e danno vita alla comunicazione più avanzata che l’essere umano abbia. Si pensa addirittura che anche il pensiero sia elaborato dal nostro cervello attraverso i suoni.

La voce è fondamentale in quanto trasmette emozioni e sensazioni differenti ma non deve essere incerta perché il ricevente potrebbe confondere l’intenzionalità del mittente. Questa importanza è ben conosciuta a livello politico dove il carisma si misura soprattutto dal tono della voce che può infondere sicurezza, profondità, prudenza, fascino, andando così ad “identificare” la persona stessa.

In ambito filosofico raramente troviamo riflessioni sull’elemento concreto “voce”, a fronte di innumerevoli ricerche intorno al concetto astratto di Uomo, quando invece possiamo trovare uno stretto legame tra il concetto di voce e l’ontologia, in quanto il primo ha la capacità di esprimere la vera identità di una persona, rendendola in tal modo unica.

Forse nella mitologia classica alla voce era riconosciuto un qualche potere, basti pensare alle sirene che con il loro canto cercavano di ammaliare Ulisse che si dovette addirittura legare per resisterle: in questo caso la voce ha avuto il ruolo di protagonista, in quanto le è stato riconosciuto il potere di circuire per un motivo ben preciso, visto che, come disse anche Socrate, ognuno ‘usa la voce’ a seconda dell’interlocutore che si trova di fronte, proprio perché viene riconosciuta, seppur inconsciamente, l’unicità dell’essere umano.

Il tema, però, di unicità legato al concetto di voce, non è mai stato ben visibile, seppure diversi pensatori nel corso della storia vi si siano avvicinati; un esempio è Levinas che vede l’espressione dell’unicità nel volto dell’Altro mentre l’aspetto vocale è relegato nel concetto di relazione oppure Aristotele che riconosce al logos la “vocalità” ma dà maggiore importanza al significato, considerando proprio questo l’elemento di differenza tra l’uomo e l’animale (anch’esso dotato di foné ma non di semantiké).

Socrate stesso, all’apparenza, vive per la sua vocalità, parlando nelle opere di Platone, eppure sarà proprio quest’ultimo a screditare la proprietà vocale considerandola un mero involucro da buttare perché solo il contenuto è da considerare meraviglioso.

Come si vede, la voce è sempre comparsa nella storia della filosofia ma difficilmente è stata concepita come fondamentale proprietà dell’uomo per comunicarsi.

Oggi le cose sono forse diverse e il principio del cambiamento può vedersi nel teatro già a partire dall‘800 dove il tono della voce nelle opere liriche era di fondamentale importanza per trasmettere, anche in lingue diverse, le emozioni dei personaggi che costruivano l’intera storia.

Anche la comunicazione odierna nel campo del marketing si è evoluta, andando sempre alla ricerca di una vocalità convincente, forte, carismatica per pubblicità, spot o quant’altro; così come al cinema la tonalità della voce decreta la riuscita di un film perché, come una canzone, mantiene integra nella memoria dello spettatore una battuta, una scena, un’immagine che viene raccontata.

Eppure tutto questo dovrebbe essere sempre così evidente!

La voce è il primo contatto che abbiamo con nostra madre dall’interno della pancia, un contatto sonoro che noi siamo in grado di riconoscere non appena nasciamo.

La voce è la colonna sonora delle nostre vite, ciò che è in grado di entusiasmarci ma anche di allarmarci e spaventarci, un suono che ci accompagna sempre e che aiuta le immagini, le realtà, gli eventi che vediamo e viviamo ad imprimersi nella nostra mente per sempre.

Valeria Genova

Per approfondimenti consiglio questa lettura: Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale Feltrinelli, 2003.

Una mattina a scuola…

Le cose che accadono sono molte. Quelle che possono accadere, ancora di più.

Tutto quello che riusciamo a immaginarci è ipoteticamente possibile, il modo in cui potrebbe manifestarsi è addirittura infinito.

Le cose, quando avvengono, si verificano sotto forma di eventi. Di essi ne abbiamo un vasto assortimento: dire «grazie» a qualcuno, regalare un mazzo di fiori, tirare un schiaffo, perdere un treno, rispondere al telefono, scrivere un libro, e così via.

Gli eventi, però, ci fanno pensare. A volte non sappiamo quali siano i loro confini temporali o spaziali, ma siamo certi che sono avvenuti, che stanno accadendo ora o che si svolgeranno nel futuro.

«Federico si è preso il raffreddore!». Sì, ma, quando? Dove?» 

«M’innamorerò!» D’accordo, ma esattamente quando avverrà? »

Un evento può essere semplice, complesso, universale, particolare, ma a fare la differenza è principalmente il modo con cui lo si guarda. È la prospettiva da cui lo spiamo che conta maggiormente.

Evento I, Scenario I, Visione I

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ci troviamo di fronte a un unico grande evento, con un inizio e una fine? Davvero possiamo dire che l’insegnante ha fatto lezione in un preciso luogo e in un preciso momento? E quali sono le conseguenze se considero questo evento solo da un punto di vista generale? Di certo perderò una grande quantità di elementi che mi avrebbero aiutato a comprendere meglio ciò che nei fatti è davvero avvenuto nella classe.

Già, ma cosa?

Gli accadimenti, anche quelli più semplici, non sono così innocui se si ha la pazienza di starli a guardare. Se il nostro obiettivo consiste nell’analizzare alcune dinamiche che sappiamo essere comprese all’interno di un certo evento, dunque, dobbiamo guardarci dal semplificarlo. Dobbiamo sostare fra le spaccature delle cose, dei minuti, dei secondi, dei banchi e dei gessetti, per vedere cosa funziona e cosa invece occorre lasciar andare.

Tale atteggiamento ci porta a rivalutare la nostra opinione sull’ordinarietà di certi eventi. Lo scenario I, che credevamo povero di dettagli, è invece un universo d’informazioni fondamentali per chi sa guardare, ovvero per chi sa cosa cercare.

Evento I, Scenario I, Visione II

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ma lì dentro vi è un continuo susseguirsi di eventi, di ogni tipo, tutt’altro che slegati tra loro.

A albero, B barca, C camion; la lavagna, prima vuota, ora è piena di regoline scritte.

C’è lo starnuto di Giovanna e c’è Sara che accartoccia un foglio per far canestro nel cestino.

E poi Veronica che presta un colore a Federico, ma ecco un evento diverso dal precedente: quello in cui Federico le  chiedeva in prestito il colore.

C’è Luca che parla ininterrottamente con Vittoria disturbando i compagni di banco, ma anche quello dove, penna in mano e occhi sul quaderno, troviamo tutti i bambini concentrati a svolgere le somme sui loro quaderni a quadretti.

Carolina che dà un pizzicotto a Marco e Marco che scoppia a piangere.

 Daniele che offende i compagni, e quest’ultimi che vogliono che lui la smetta.

 Margherita che chiede di andare in bagno e Lorenzo che si avvicina alla cattedra lamentandosi per il mal di testa…

Tutti questi piccoli eventi sono dei particolari ai nostri occhi. Particolari che in egual misura dovrebbero esser presi in considerazione da chi si appresti a lavorare in classe. L’apprendimento è una cosa seria. Il buon apprendimento lo è ancora di più.

Se è vero che è meno faticoso conservare una visione base di ciò che ci circonda, gustandosi la realtà per eventi generali e separati tra loro (Visione I), è pur vero che ogni maestro che si rispetti non ignora alcun accadimento e come dice (scherzando) ai bambini: ha gli occhi anche dietro la testa! (Visione II).

Giorgia Aldrighetti

[immagine di proprietà di FCB]