Inconscio e arte in Hieronymus Bosch

Hieronymus Bosch, pittore olandese attivo tra fine 1400 e inizio 1500, è noto per la complessità delle sue opere. Il suo linguaggio artistico è sicuramente singolare, caratterizzato da figure oniriche e luoghi curiosi, popolati da creature fantastiche e mostruose. Questo artista eclettico è protagonista di una mostra a Palazzo Reale (Milano) in quanto emblema di un Rinascimento alternativo, contrapposto al Rinascimento che fa perno sul mito della classicità. L’altro Rinascimento di Bosch è composto da mondi onirici, composizioni affollate, in cui loci amoeni, ovvero luoghi incantevoli, sono dipinti vicino a città incendiate e sono popolati da mostriciattoli, uomini con volti spaventosi e ibridi animali. Nonostante ciò, da lontano le sue creazioni possono sembrare ordinari dipinti rinascimentali.

Bosch è un artista davvero enigmatico: la sua vita tranquilla di uomo religioso si contrappone a un’arte in cui vengono alla luce demoni con sembianze di uomini, animali e/o oggetti. Queste figure informi passano dalla mente dell’artista alla tavola, immersi in ambienti fantasiosi e inquietanti, e sono figure che ben si inseriscono nella cultura del tempo di Bosch: rappresentano speranze e timori che si respiravano in un Medioevo agli sgoccioli. Il pittore mette in scena un mondo la cui unica certezza era la miseria di ogni singolo individuo, dovuta a una morale sempre conflittuale. Questo conflitto interno non è, però, legato solamente agli uomini di quel periodo, ma è presente in ciascuno di noi come continua guerra tra bene e male. Quello di Bosch è un monito: il male non è qualcosa di relegato all’aldilà, bensì è presente nella nostra realtà. La follia dell’umanità ci ricorda e il peccato e il male sono abissi in cui chiunque può cadere. Bosch, dunque, rappresenta le conseguenze di una vita totalmente lasciva e dedita al male, come vediamo nel Trittico del Giardino delle delizie (1480-1490).

Al di là delle motivazioni razionali che legano Bosch alla sua arte, non possiamo non pensare che egli sia un perfetto esempio di alcune riflessioni della psicanalisi sull’arte. Freud, per esempio, dedica una serie di saggi all’arte come sublimazione e come terapia. Il processo di sublimazione consiste nel rendere i nostri impulsi, anche quelli più infimi, attraverso un veicolo socialmente accettato. Gli aspetti dei processi creativi non sono mai sotto controllo cosciente dell’artista proprio perché l’arte permette di rappresentare le proprie pulsioni, anche quelle più profonde, come afferma Dalton Peggy, psicoterapeuta contemporanea. L’artista prende sempre ispirazione dal suo inconscio creando un mondo di finzione, quasi fosse un gioco infantile. E quale esempio migliore di mondi di finzione creati dall’arte se non le opere boschiane?

L’arte è, dunque, una sorta di terapia, sia per l’artista che per noi spettatori, poiché possiamo interfacciarci con il nostro io, toccando corde nascoste ed emozioni spesso messe a tacere. Freud usa il termine perturbante per descrivere ciò che si prova fruendo un’opera d’arte. Si percepisce, cioè, qualcosa di spaventoso e familiare, per usare un ossimoro caro al fondatore della psicoanalisi: si vuole tenere lontana l’opera ma, allo stesso tempo, si è attratti da essa perché rappresenta il nostro io, più nascosto e più vero. Questa contraddizione spiega chiaramente le sensazioni provate di fronte a un’opera boschiana. Bosch, infatti, è – come ciascun artista o ciascuna persona che crei arte, anche solo per piacere – «uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia» (S. Freud, Precisazione sui due principi dell’accadere psichico, 1911). L’arte di Bosch ci ha lasciato, dunque, diverse eredità: il legame tra arte e sogno o incubo ha colpito i surrealisti, che si sono ispirati particolarmente alle opere boschiane, tanto che il pittore olandese viene considerato precursore del movimento. Inoltre, grazie al suo rappresentare vizi e conflitti interiori, Bosch ci permette di riflettere sulla funzione dell’arte, soprattutto in stretto legame con le nostre pulsioni.

 

Andreea Elena Gabara

 

[Photo credit Johannes Plenio via Unsplash]

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Il dubbio nell’arte: il surrealismo psicoanalitico di Max Ernst

<p>F6EBYP Max Ernst - The Fireside Angel (The Triumph of Surrealism)</p>

Instancabile pensatore e prolifico artista, Max Ernst è una delle più eminenti personalità del XX secolo e protagonista d’una nuova e suggestiva mostra a Palazzo Reale (MI) a partire dal 4 ottobre 2022. In questo grande pittore tedesco naturalizzato francese convivono diverse sfaccettature, a partire dalla formazione filosofica che s’intreccia con la passione per la storia dell’arte e per il mondo onirico. Sotto l’influsso di De Chirico, del movimento dadaista ed in seguito di quello surrealista e dopo diversi studi su Freud e l’inconscio, inizia ad esprimere la propria vocazione artistica nei collages, nei quali convivono paesaggi onirici, figure ambigue, surreali, eterogenee.

Ernst vive tra il 1891 ed il 1976, riporta sulla propria pelle le ferite di un’epoca lacerata dalle guerre, teatri di violenza e sofferenza tanto fisica quanto psichica, che lo spingono ad immaginare una realtà inattuale, differente da quella presente da lui vissuta. A tal proposito vi sono diversi bizzarri aneddoti sulla sua vita, tra cui la sua strana passione per il mondo ornitologico nata da un episodio infantile: il suo pappagallo morì il medesimo giorno della nascita della sorellina, evento grazie al quale Ernst si convinse che l’anima dell’uccello si fosse trasferita nella neonata. Affermava persino di essere nato da un uovo d’aquila che sua madre aveva messo in un nido e nei suoi lavori appare frequentemente LopLop, una sorta di uccello supremo con cui si identificava.

Il processo creativo di Ernst trova ispirazione proprio nella capacità che i volatili hanno di abitare tra terra e cielo, facendosi trasportare da raffiche di libertà durante i loro voli. Questa metafora richiama il suo stile pittorico, eccentrico e basato su giustapposizioni di figure che prendono forma grazie ad un lessico che non può essere ingabbiato nella logica tradizionale. L’arte, per Ernst, è uno strumento che permette di scandagliare i fondali della realtà in tutta la sua arcana varietà, muovendosi sul palcoscenico della vita che mette in scena se stessa dopo essersi spogliata di quella parvenza di integrità che tenta di coprire i propri aspetti più scuri e catastrofici. L’arte è, per Ernst, ciò che permette di immergersi nel buio, andando oltre la luce; egli diceva, infatti, che «per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, ma per comprenderla bisogna chiuderli» (A. Morandotti, Minime, 1980). Solo dopo aver scoperto il buio è possibile incontrare il dubbio; non a caso questo potrebbe essere uno dei principi cardini della filosofia, l’unico in grado di porci in ascolto di noi stessi, di fermare il flusso inesorabile del tempo comprendendo che non sempre la verità risiede nell’apparenza e nell’immediatezza. Il dubbio può mettere in difficoltà l’essere umano, in quanto lo priva delle proprie certezze, ma è l’unico modo che egli ha di accettare la vita nella sua totalità e nelle infinite possibilità che gli si presentano dinanzi, parafrasando Heidegger.

L’arte di Max Ernst incarna proprio questo principio: la vita che agisce nella sua totalità secondo la logica tradizionale ma che possiede delle venature inconsce, ambigue, oniriche che possono essere riportate sulla tela. Ed ecco che l’arte si qualifica non come la raffigurazione passiva di ciò che ci circonda, ma come un metodo di approfondimento del mondo e delle sue sfuggenti sfaccettature. Come scrive Jung nella sua opera del 1964, infatti: 

«Le idee creative rivelano il loro valore per il fatto che, come chiavi, servono a dissuggellare connessioni di fatti prima incomprensibili, e consentono quindi all’uomo di penetrare più a fondo nel mistero della vita» (C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, 2020).  

 

Elena Alberti

 

[immagine tratta da Google immagini]

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Viaggiando tra i sogni interiori: Myricae di Pascoli

Il sogno e la dimensione onirica sono, come afferma in un suo saggio Fernando Bandini1, elementi portanti della poesia pascoliana, spesso caratterizzata da atmosfere decadenti e rarefatte, che hanno il sapore “dell’altrove”Leggendo, infatti, i componimenti della raccolta Myricae (1891), capita di trovarsi all’interno di paesaggi misteriosi, perlopiù notturni, dove i sensi colgono elementi indefiniti, lontani, appartenenti ad una dimensione altra. Si tratta di percezioni perlopiù uditive o visive, che contribuiscono a creare un’atmosfera carica di elementi simbolici.

Ciò si può notare in L’assiuolo, dove l’io poetico afferma: «Le stelle lucevano rare/tra mezzo alla nebbia di latte:/sentivo il cullare del mare,/sentivo un fru fru tra le fratte;/sentivo nel cuore un sussulto/,com’eco d’un grido che fu/sonava lontano il singulto:/chiù…» (9-16). Il paesaggio riflette una realtà indistinta, dove il canto dell’assiuolo si confonde tra la vegetazione, così come la sua immagine; non è chiaro quanto ci sia di vero in ciò che il poeta percepisce: parte di ciò che sente potrebbe essere immaginato, o meglio sognato. La scelta di ambientare il componimento tra le tenebre della notte contribuisce infatti ad ampliare la sensazione di mistero che pervade l’intera scena.
Analogamente, nel componimento Sogno, Pascoli immagina di essere ritornato nel suo villaggio, nella sua casa e vede che «nulla era mutato» e «ai morti ero tornato». In qualche modo, dunque, l’aspetto del sogno, secondo il poeta, ci mette in contatto con un mondo sospeso, in parte interiore, dove riscopriamo legami antichi, che dentro di noi sono rimasti intatti.

Il sogno, sotto altri aspetti, diventa una porta di accesso che ci permette di viaggiare, forse addirittura nell’aldilà, dove possiamo ritrovare i nostri cari defunti. Sotto questo punto di vista, esso costituisce una sorta di medium, si carica di un ruolo fondamentale nella vita dell’individuo: quello di collegamento tra due mondi da sempre separati. Pascoli realizza dunque una rivalutazione del sogno, agli albori delle teorie psicanalitiche di Freud, che di lì a poco affronteranno le tematiche dell’inconscio.

Ciò non deve far pensare, tuttavia, che il ruolo cruciale attribuito al sogno elevi quest’ultimo ad una situazione di privilegio nell’immaginario pascoliano; esso, al contrario, è perlopiù un sogno di angoscia, di dolore, che viene rievocato da suoni o da visioni lugubri, come dal «pianto di morte» dell’assiuolo. Sembra quasi che l’io poetico tema questi incontri, come se il viaggio dentro di sé, attraverso l’onirico, desti paura, destabilizzazione.
In Paese Notturno, ad esempio, l’oscurità della notte suscita l’immaginazione del poeta, che non distingue le capanne attorno e si chiede se siano un «tempio dell’antico Anubi». La campagna circostante si veste di ombre che l’io non riesce a comprendere e perciò prova una certa paura, di fronte a qualcosa che è apparentemente sconosciuto. È come se il soggetto si fosse immerso in un mondo altro, interiore, dove esistono lati non noti nemmeno a sé e tutto ciò gli suscita timore. Si percepisce inevitabilmente, in questi componimenti, l’influenza freudiana, nello spazio che il poeta lascia all’espressione dei propri sentimenti, in questo caso costruttori dell’esterno, partendo dall’interno.

In definitiva, ciò che emerge dai componimenti della raccolta Myricae ci riporta ad una visione del sogno quale elemento centrale della nostra quotidianità: porta di accesso verso altri mondi o verso noi stessi, al contempo espressione profonda delle nostre paure e della nostra interiorità. In questo senso Pascoli ci ricorda che è importante ascoltarsi, anche nei momenti in cui sogniamo, perché tutto fa parte di noi, e la realtà non è altro che l’espressione di quello che siamo, anche quando non siamo coscienti.

 

Anna Tieppo

NOTE
1. Cfr. F. Bandini, Sogno e visione onirica nella poesia di Giovanni Pascoli, in V. Branca, C. Ossola, S. Resnik, I linguaggi del sogno, Sansoni Editore, Firenze, 1984.

 

[immagine tratta da pixabay]

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“Sto pensando di finirla qui”: il rimpianto nel ritratto grigio di Kaufman

È con un’idea semplice, ma dalla duplice valenza che si apre Sto pensando di finirla qui (2020), l’ultimo film del visionario Charlie Kaufman. Il regista e sceneggiatore statunitense che grazie a pellicole come Anomalisa, Synecdoche, New York, Se mi lasci ti cancello ci aveva regalato profondi reticoli onirici non sempre di facile lettura, ha firmato per Netflix un film tratto dall’omonimo romanzo di Ian Reid.

Sto pensando di finirla qui”: queste sono le parole che la protagonista Lucy si ripete nella testa fin dalle prime scene. Una frase che rivela tutti i dubbi che la ragazza nutre nei confronti della relazione sentimentale con il compagno Jake. Nonostante la storia tra i due sia iniziata da poche settimane, la giovane sembra non essere convinta di voler proseguire. I due vengono ritratti in macchina, durante il viaggio verso casa dei genitori di Jake. Dalla fisica alla poesia, la coppia sembra avere diversi interessi in comune, ma nonostante questo dai dialoghi si intravede una certa distanza emotiva. Lo spettatore riesce a percepire i pensieri nella testa di Lucy e lo stesso Jake in alcuni momenti sembra riuscire a sentirli, risultandone quasi infastidito.

Ben presto un anziano bidello dalla camicia a quadri e dallo sguardo malinconico entra nella pellicola. Scena dopo scena, riusciamo a ricostruirne i tratti fondamentali: deriso dalle ragazze del liceo in cui lavora, il vecchio conduce una vita semplice ed apparentemente non sembra essere connesso con la vicenda principale dei due innamorati.

La campagna deserta e innevata si intravede dal finestrino dell’auto, mentre Jake e Lucy proseguono il viaggio verso casa del ragazzo. Ben presto però i personaggi si intersecano e ognuno sembra perdere la propria identità per rivelarsi in quella dell’altro. Come in Synecdoche, New York (2008), per Kaufman i personaggi diventano un pretestoLucy, Jake, l’anziano bidello, i genitori di Jake: non è questo ciò che conta. L’identità non è che un artefatto per narrare una condizione universale, quella dell’essere umano. E se in Synedcoche, New York era la vita di Caden Cotard, regista teatrale solo e ansioso a far luce sul senso della vita e su tutti quegli aspetti che ne caratterizzano l’esistere, qui è l’amore romantico per una donna ideale ad essere funzionale alla narrazione del rimpianto.

Ciò che è rimasto indefinito, irrealizzato nello spettro dell’esistenza si impersonifica e diventa incubo, inconscio, visione. I personaggi si perdono per ritrovarsi in un’idea più grande di loro e tutto sembra rivelare ben presto il suo carattere effimero: “la vita non è sempre bella in una fattoria”, dice Jake dopo aver raccontato un triste aneddoto alla ragazza.

Mentre l’animale vive solo nel presente, è l’essere umano, in equilibrio precario tra il passato e il futuro, ad essere gettato nell’inevitabilità della morte, un confine e una consapevolezza che non può cancellare dal suo orizzonte. Kaufman tratteggia un dramma esistenziale di straordinaria potenza, così come il cinema riesce a ricostruire: un ritratto che attraversa la vecchiaia, la solitudine e il rimpianto per ciò che non è stato, ma che rimane possibile e agognato fino alla fine dei giorni.

“Alle persone piace pensare di essere come puntini che si muovono nel tempo, ma io credo che possibilmente sia il contrario. Noi siamo fermi e il tempo passa attraverso di noi, soffiando nel vento freddo, rubandoci colore, lasciandoci congelati e screpolati, morti” dice Lucy in uno dei suoi monologhi. Tra le rughe dei volti, nella camminata stanca dell’anziano bidello: è qui che si cela lo scorrere degli anni e l’inevitabilità delle scelte sbagliate.

Qui siamo lontani dell’amor fati nietzschiano. Avrei sempre voluto domandare a Nietzsche qual è il segreto del superuomo, la ricetta per accettare e amare ciò che accade per l’eternità. Più ci si prova più le visioni grigie di Kaufman sembrano descrivere al meglio quel che veramente siamo e possiamo essere: umani, nient’altro che questo. Così, una scelta precisa che facciamo nella vita fa cadere il sipario su tutto ciò che poteva essere e non è stato. Così, la società appare distante dal singolo e decadente, il riconoscimento dato dallo sguardo altrui si rivela essenziale per vivere, anzi, per non diventare invisibili. La speranza qui è una chimera, una costruzione prettamente umana creata per celare tutt’altra verità.

Solo alla fine del film, forse, apparirà chiara l’altra possibile lettura di quell’idea così semplice che fa capolino nella testa di Lucy/Jake fin dall’inizio del film: la possibilità di “finirla qui”. Ancora una volta una creazione di Charlie Kaufman capace di lacerare per la struggente lucidità e l’intensità dei ritratti psicologici narrati. Un altro magnifico esempio di come la potenza del cinema possa manifestare così chiaramente l’interiorità umana, abitata anche dal grigiore dei rimorsi, rimpianti e desideri rimasti inespressi nel tempo.

 

Greta Esposito

 

[In copertina: fermo immagine dal film]

 

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Un viaggio nell’arte del surreale

Ogni viaggio che si compie porta inevitabilmente a delle riflessioni, siano esse in merito a un dato stile di vita oppure a ciò che vediamo per le strade e le piazze, nei musei e ovunque possa nascondersi qualcosa che stimola il nostro interesse. La visita alla città di Madrid è stata per me senza dubbio una delle più fruttuose in questo senso, specie se prendo in considerazione i suoi grandi musei, veri e propri monumenti all’arte spagnola e non solo. Ma se da una parte ciascun grande museo europeo può facilmente stimolare l’interesse e l’attenzione nei confronti di qualche particolare autore o di una specifica corrente artistica, i due principali musei madrileni, il Prado e il Reina Sofia, riescono con successo a unire le loro forze per restituire al visitatore, tra le altre cose, una sorta di compendio della pittura del surreale, o, meglio, un percorso tematico che dalle prime immagini fantastiche e visionarie assimilabili all’irrazionale conduce fino alla corrente artistica e letteraria che di questi principi ha fatto il suo manifesto, vale a dire il Surrealismo.

È il Museo Reina Sofia a offrire al visitatore un’ampia carrellata di opere dei due tra i più grandi esponenti di questa importante Avanguardia, Salvador Dalì e Joan Mirò. Profondamente influenzati dalla lettura dei testi di Freud e Jung, nonché vicini all’opera letteraria di André Breton, fondatore del movimento nel 1924, e all’opera pittorica di alcuni colleghi, in primis René Magritte e Max Ernst, essi hanno sviluppato autonomamente due poetiche dalle caratteristiche estetiche molto diverse ma dalle basi concettuali ovviamente simili.

Loro obiettivo è quello di rappresentare in pittura e in scultura visioni oniriche che volutamente non hanno alcun senso, e che sono quindi definibili come totalmente irrazionali e assurde. Tuttavia queste complesse immagini sono talvolta pregne di simboli dai connotati spesso grotteschi, che, se adeguatamente interpretati in relazione l’uno con l’altro, riconsegnano un significato non banale celato dietro l’intera composizione. La creazione di queste opere, d’altronde, avviene non senza un’ampia conoscenza alle spalle dell’autore, che, una volta assimilate le teorie della psicanalisi, consapevolmente perde consapevolezza del suo essere razionale per stimolare in sé, mediante numerose tecniche, pensieri e immagini appartenenti alla sfera dell’inconscio, i quali, elaborati con estrema libertà e disinibizione, vengono prontamente trasformati in pittura o scultura. Si ottengono così composizioni dall’aspetto straniante e assurdo, marcatamente contrapposte alle ricerche figurative dell’arte tradizionale e delle altre avanguardie storiche, tendenzialmente legate a un forte senso di razionalità (soprattutto Cubismo e Futurismo).

Va detto, però, che nella storia dell’arte occidentale non mancano alcuni rari ed eccezionali episodi di manifestazione dell’irrazionale e dell’inconscio precedenti all’esperienza surrealista, e proprio a Madrid, spostandosi di qualche centinaio di metri dai capolavori di Mirò e Dalì, si trovano alcuni degli esempi più eclatanti in questo senso, capolavori pittorici dalle caratteristiche uniche, conservati all’interno del Museo del Prado.

Il capostipite, il precursore inconsapevole del surreale nella pittura figurativa è senza dubbio Hieronymus Bosch, artista fiammingo attivo tra la fine del Quattrocento e il 1516, anno della sua scomparsa. Al Prado sono presenti alcuni dei suoi maggiori capolavori, primo tra tutti il Trittico delle Delizie, che quanto a figure surreali, scene assurde e immagini fantasiose riesce sicuramente a superare persino l’estro unico e irripetibile di Salvador Dalì. Quel che si para di fronte agli occhi dello spettatore è un ampio giardino popolato da decine e decine di figure in preda al delirio, al piacere più sfrenato, alla follia. Alcune creature mostruose o animali dalle proporzioni totalmente irreali accompagnano il grande turbinio che anima la composizione e il tutto è condito da numerose scene che vanno da quelle di un erotismo deviato presenti nel pannello centrale a quelle apocalittiche del pannello laterale.

Se confrontato con le opere di Dalì, questo dipinto può facilmente essere indicato come un’anticipazione dei soggetti del Surrealismo. Tuttavia l’opera è una grande allegoria di difficile interpretazione, spesso indicata come rappresentazione dei vizi umani, e pertanto ha poco a che vedere con la poetica surrealista del Novecento: le immagini presenti nel dipinto hanno esclusivamente funzione simbolica e, nonostante siano frutto di una fervida e invidiabile immaginazione, non possono essere del tutto assimilate alle immagini dell’inconscio presenti nelle opere dell’Avanguardia, caratterizzate da un forte taglio individuale, strettamente legato alla personalità dell’artista.

Le stesse considerazioni possono essere fatte sul più grande dipinto esistente del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio, la Festa di San Martino (anch’esso al Prado), inclemente raffigurazione della bestialità umana che risente della lezione di Bosch. Questi capolavori presentano immagini irrazionali, grottesche e di straordinaria visionarietà, che tuttavia fungono da mezzo per trasmettere messaggi razionali e in genere condivisi dal contesto culturale nel quale essi sono stati creati. Di conseguenza, nonostante la loro vicinanza estrema alle opere del Novecento del Museo Reina Sofia per quanto riguarda l’approccio alla visione surreale, mostruosa ed estraniante, è il tipo di lettura e, dunque, il loro fine ultimo a decretare una distanza in realtà incolmabile con i capolavori della corrente surrealista.

Altro discorso invece va fatto per la serie di 14 dipinti noti sotto il nome di Pitture nere, realizzati da Goya nei suoi anni estremi (1820 circa) e originariamente eseguiti ad olio sulle pareti della sua casa (la “Quinta del sordo”). Trasportati poi su tela alla fine dell’Ottocento, sono oggi visibili tutti insieme in una sala loro dedicata all’interno del Museo del Prado. Eseguiti in un’epoca in cui già esisteva una marcata sensibilità nei confronti dell’irrazionale e dell’onirico, questi dipinti rappresentano forse il vertice insuperato e insuperabile dell’arte del surreale, in quanto autentiche e pure rappresentazioni delle spaventose visioni del vecchio Goya, ormai sempre più vicino alla fine dei suoi giorni. Rappresentazioni macabre e visionarie, frutto dei terrificanti pensieri dell’autore, incubi a occhi aperti, caratterizzati dal medesimo caos disturbante che regna nei nostri sogni più ambigui e ansiogeni, una vera e propria trasposizione materiale dell’inconscio dell’artista, da lui gestito con lucidità e sincerità, senza le inibizioni e le censure imposte all’operato degli artisti quando non lavorano per sé stessi.

Mancano qui le immagini fantasiose e surreali di Dalì e Mirò, ma, d’altro canto, a essere surreale è l’umanità che vi è rappresentata, l’atmosfera generale in cui queste scene sono pensate e il significato stesso delle raffigurazioni. Nessuno prima di Goya si era davvero avvicinato così tanto alla poetica e ai concetti che il Surrealismo avrebbe manifestato circa un secolo più tardi. Tuttavia, qui c’è qualcosa che va addirittura oltre: non vi è alcuna sovrastruttura culturale dietro queste opere, nessuna lettura freudiana, nessuna intenzionalità, ma un uomo solo di fronte al proprio destino, con le sue paure, le sue debolezze, il suo mondo interiore.

Nulla di più coerente e significativo per concludere un viaggio all’insegna dell’irrazionale e dell’inconscio, che unicamente nella capitale spagnola può trovare così numerosi e straordinari spunti di riflessione.

 

Luca Sperandio

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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La musica che trascende spazio e tempo: intervista ad Alcesti, band trevigiana

Alcesti nasce nel 2013. Rappresenta un luogo ideale dove poter assemblare esperienze musicali affini e distinte per raggiungere un suono ed un fine comune. Mattia Quaglia, Marco Ferrante e Stefano Cocco iniziano a suonare insieme senza voler etichettare i loro suoni, lasciando semplicemente scorrere attraverso i loro strumenti ciò che più sente la necessità di essere espresso.

Sotto forma di musica nascono idee contaminate da ogni esperienza individuale: dal disegno alla lettura, dai paesaggi ai viaggi, dalla poesia e dai sogni. Il risultato è un rock fresco, che spesso cavalca le onde del post-rock fino ad infrangersi negli scogli più crudi del rock alternativo italiano.

I testi in italiano sono racconti a tratti reali e sensibili, a tratti onirici e disorientati di ciò che ci circonda, senza la pretesa di coglierne un senso ma con l’ambizione di riviverne il momento.

La band ha all’attivo un singolo, “Navigherò il tuo ventre” e un demo-ep intitolato “Invertebrati”, con i quali ha iniziato a farsi conoscere a critica e pubblico.
Il gruppo è tra i fondatori di Sisma, organizzazione nata nell’estate 2014 con l’intento di promuovere la musica underground ed indipendente della scena italiana e locale. Fin da subito ha collaborato con i Sotterranei di Padova e coinvolto le etichette indipendenti più importanti ed attive della regione. Ad oggi il collettivo ha potuto ospitare band come C+C=Maxigross, Captain Mantell, Altre di B, Norman.

12615562_1057605454260099_3225204667855393876_o Un disco che ha un titolo duplice, Nell’esistente e nell’onirico, o che si completa nell’unione di entità opposte. Quali sono i punti in comune che risiedono nell’esistente e nell’onirico?

Il vero punto che lega queste due dimensioni è la coscienza. Osservare, sentire, percepire prendendone semplicemente atto, arrendendosi al mistero, accentandolo qualsiasi esso sia. Perchè nei nostri testi l’uomo ha un bisogno viscerale di arrendersi, di lasciare andare l’assoluta ragione, perchè priva di soddisfazione.

E’ solo la musica l’arte attuale che può meglio descrivere e accogliere i valori a cui fate riferimento?

Crediamo che qualsiasi forma d’arte se accettata come tale possa ergersi traghettatrice di qualsiasi valore. La musica leggera lo fa con le sue armi, il suono, la poetica, la metrica e le liriche. Pensandoci comunque la stessa parola “valore” potrebbe suonare sbagliata per le nostre intenzioni. I nostri sono pensieri arresi al tempo, che siano anni o secondi, senza la pretesa di divenire valori, al massimo nostre prospettive di verità. Ognuno dovrebbe averne una nel rispetto delle altre.

Riguardo il processo creativo, la ricerca e la scelta delle parole e dei concetti trattati si è svolta più nell’esistente o nell’onirico?

Entrambi, l’uso della metafora ci permette di distaccarci dalla realtà paragonandola a qualcosa di più ampio. Di conseguenza l’intento è quello di dondolarci tra queste due dimensioni, cogliendone emozioni e sensazioni da tutti e due i fronti.

Come le idee di Platone risiedevano in una dimensione estemporanea e particolare, così le vostre canzoni parlano di momenti e vicende non collocate nel tempo. Questo perchè i concetti descritti sono affini ad ogni epoca storica? 

Ci piace scrivere testi che non siano legati al tempo e allo spazio. Sono le due gabbie più grandi dell’essere umano, non siamo in grado di comprendere nulla di reale al di fuori di queste. L’intenzione è quella di spargere pensieri che possano essere talmente arresi e leggeri da planare al di sopra di ogni dimensione. Non è egocentrismo ma resa, davvero. Questo è ciò in cui credo, lo colloco qui, tra terra e cielo, tra sogno e realtà, se ti va prendilo e plagialo con dei tuoi significati, altrimenti puoi lasciarlo li.

cover frontSe ‘Nell’esistente e nell’onirico’ fosse una corrente filosofica, quale sarebbe?

Fenomenologia.

Per Kant spazio e tempo non sono né una realtà oggettiva in se stessa, né semplici relazioni tra oggetti, ma piuttosto forme a priori della sensibilità umana. Esse condizionano ogni nostra esperienza sensibile in quanto le cose ci sono presentate sempre all’interno di uno spazio e di un tempo. Da un lato questi dunque operano solo in presenza dei dati dell’esperienza, ma dall’altro sono ricavati per astrazione dalla sensazione. In che modo le parole delle vostre canzoni trascendono spazio e tempo? Possiamo veramente trascendere queste categorie?

I testi delle nostre canzoni non sono situati in un arco temporale ben definito, anche se chiaramene hanno delle radici forti nel nostro presente. La dimensione onirica e dell’immaginazione sicuramente ci ha aiutato a trascendere lo spazio fisico del presente e a volare avanti e indietro nel tempo, ma non abbiamo mai perso d’occhio il qui e il dove: ecco perché la duplicità del titolo dell’album.

Credo che nell’arte la capacità di trascendere il tempo e lo spazio sia uno dei criteri grazie ai quali un’opera scritta o musicale possa dirsi davvero grande. D’altronde cosa sono i classici? Opere del passato che in qualche modo riescono ad avere un valore anche nel presente e ispirare le persone in epoche storiche differenti.

Platone diceva che la musica è una legge morale che dà un’anima all’universo, le ali al pensiero, uno slancio all’immaginazione, un fascino alla tristezza, un impulso alla gaiezza, e la vita a tutte le cose. Per voi che cos’è musica? Quali sono gli ingredienti che fanno sì che una canzone possa considerarsi una bella canzone?

Per noi la musica è prima di tutto una necessità, qualcosa che nasce dal profondo e che trova in questo canale artistico la sua forma di espressione prediletta. Non so se per puro diletto suoneremmo con la stessa motivazione e tenacia, ma io credo di no. Poi ovviamente ci sono altre componenti nel nostro mix personale di “cos’è la musica”, dal brivido di suonare ai concerti al senso di libertà che ti trasmettere creare un pezzo nuovo, ma direi che il senso di urgenza espressiva è l’elemento fondamentale.

Per fare una bella canzone non esistono chiaramente formule magiche predefinite, però gli elementi più importanti, almeno per noi, sono sicuramente la melodia e la complementarietà con l’arrangiamento strumentale. Poi questa cosa si può mettere in pratica in tanti modi: con una chitarra e due accordi oppure con una band di otto componenti che fa prog, o con tutte le diramazioni che ci stanno in mezzo e oltre. Le combinazioni sono infinite, a noi sta il compito di coglierle.

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Un’opera concepita assieme a Sisma e alle realtà musicali emergenti – e non – del Veneto. Cosa le unisce? Si può quindi fare squadra nell’esistente, e anche nell’onirico?

E’ stato un sogno e poi è diventato realtà, ma se i sogni sono reali allora siamo a cavallo, e più generano conseguenze reali più esse genereranno sogni immensi. Ci si autoalimenti e si sogna, finchè la realtà ce lo concede.

Raccontateci come avete vissuto, prima, durante e dopo, il vostro release concert a Treviso di pochi giorni fa.

Siamo in sala prove tre volte alla settimana, potessimo viverci lo faremmo. Prima del concerto eravamo parecchio carichi, ma sempre a piccole dosi, ci piace percepire l’adrenalina ma anche credere di saperla controllare. Del concerto abbiamo pochi ricordi, è sempre così, qualche fotogramma del mare di amici presenti sotto al palco e qualche foto reale. Siamo totalmente immersi da non renderci conto del tempo e dello spazio appunto. Dopo il concerto si sta bene, si respira a pieni polmoni, si abbracciano gli amici, si è più vivi che mai.

Che cosa significa per voi Filosofia?

Significa porsi le domande giuste, senza la pretesa di darsi delle risposte coerenti o definitive, ma con lo scopo di stimolare la conoscenza di ciò che ci circonda e di ciò che ci sta dentro. E’ un po’ quello che facciamo anche con la musica: cercare di esplorare nuovi territori mettendo in discussione le nostre certezze. E’ un modo per crescere come persone e come artisti.

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Ascolta le canzoni: qui

La redazione

[immagini concesse da Sisma]