Le Olimpiadi e il ritorno della speranza (forse)

Dopo oltre un anno dall’inizio della pandemia, l’estate 2021 avrebbe potuto rappresentare per il mondo un primo passo verso un progressivo ritorno alla normalità, un ritorno che invece, a causa della circolazione delle varianti del virus, sembra ancora abbastanza lontano, colpa anche di una campagna di vaccinazioni ancora debole per le numerosissime defezioni in merito. Uno degli eventi estivi che, nel bene e nel male, meglio rappresentano questa fase è il ritorno dei Giochi olimpici, inizialmente previsti l’anno scorso ma rimandati al 2021 a causa del violento imperversare del Covid-19 in tutto il mondo.

Le Olimpiadi sono sin dalle loro origini un’occasione privilegiata per l’incontro pacifico di persone dalle provenienze geografiche e dalle culture più disparate. Già nell’antica Grecia si incontravano ad Olimpia atleti provenienti da ogni parte del territorio ellenico, che portavano con sé visioni socio-politiche e tradizioni culturali diversissime e talora in aperto contrasto tra loro (basti pensare alle due poleis più celebri, Atene e Sparta). Nonostante questo, per l’intera durata dei Giochi olimpici vigeva la cosiddetta tregua olimpica, che consisteva nella temporanea sospensione delle azioni belliche tra città nemiche e nel totale rispetto verso gli atleti avversari. Nel 1896 la nascita delle Olimpiadi moderne, svoltesi per l’occasione ad Atene, ricalcava in parte lo spirito presente nell’antichità: una grande rassegna sportiva che coinvolgesse atleti provenienti da tutto il mondo, che si sfidavano in competizioni agonistiche dove scaricare forza e abilità in maniera non violenta, creando così un’occasione, a quel tempo pressoché unica, per un confronto civile e costruttivo tra persone dalle culture differenti.

Negli ultimi decenni le Olimpiadi, pur mantenendo intatte queste caratteristiche che sempre le hanno rese un evento speciale e amatissimo dal pubblico, sono diventate una questione di affari di enormi proporzioni, a tal punto che i benefici dell’evento vengono spesso misurati in miliardi di dollari, accantonando invece gli aspetti che più le rendono uniche, quello prettamente sportivo e quello socio-culturale. Tralasciando in questa sede la questione più strettamente economica, sulla quale molto ci sarebbe da discutere e che a mio parere sta snaturando quello che dovrebbe essere vissuto più come un evento dedicato allo sport che un’occasione di fare politica, vorrei fare una riflessione, alla luce di queste premesse, sull’importanza di svolgere l’evento olimpico in un periodo storico come quello attuale e, d’altro canto, discutere la contrarietà di molti giapponesi sullo svolgimento delle imminenti Olimpiadi di Tokyo.

Infatti già da mesi il Giappone è vittima di una nuova ondata di contagi e un’ampia fetta di popolazione si dice molto scettica sull’effettivo svolgimento dell’evento, quando non del tutto contraria, mentre il governo, pur con qualche riserva, rimane fermo nella decisione di fare tutto come previsto. D’altronde rimandare ulteriormente le Olimpiadi non sarebbe possibile, quindi questa edizione verrebbe cancellata totalmente, con un enorme danno economico e di immagine per il Paese, ma anche con un danno morale a migliaia di atleti. Oltre alle enormi somme in campo, infatti, è proprio l’immagine che riceverebbe il maggior danno, perché le Olimpiadi sono un ottimo strumento per promuovere un Paese, i suoi luoghi, le sue tradizioni e le sue qualità gestionali e organizzative, cosa che purtroppo viene poco compresa in Giappone, non solo dai cittadini ma anche dalle aziende sponsor dell’evento, che per non rovinare la propria immagine all’interno dei confini nazionali hanno ritirato la loro sponsorship, rischiando però un maggior danno nell’immagine a livello globale.

Rinunciare alle Olimpiadi, di fatto, significa rinunciare a una serie di aspetti fondamentali, non solo per il paese che le ospita, ma anche per i numerosissimi stati partecipanti, che a un evento sportivo di questo tipo non portano solo dei grandi talenti che spendono la loro vita a prepararsi al meglio per potervi partecipare, ma molto spesso anche la loro storia, la loro cultura e tante speranze per il futuro. È proprio di tutto questo che il mondo ha bisogno in questo periodo travagliato. Le Olimpiadi portano sempre grandi storie, grandi sfide e nuove relazioni tra culture differenti, favoriscono l’integrazione e la lotta alla discriminazione. Svolgere i Giochi olimpici con le massime precauzioni contro la diffusione dei contagi è un vantaggio per tutti, in primis per gli atleti, che nella partecipazione alle Olimpiadi realizzano il sogno di tutta una carriera. E poi c’è qualcosa in più da raccontare, c’è qualcosa in più da imparare, anche aspetti tecnici di sport poco conosciuti e poco diffusi.

Chi organizza un simile evento, in questo caso il Giappone, ha la grande opportunità di ritagliarsi uno spazio privilegiato nel mondo per due settimane, perché tutto quello che succede per l’intera durata dei giochi viene visto da tutto il mondo, un po’ come se questo teatro di grandi competizioni divenisse il centro del globo, occasione per eccellenza per il confronto pacifico tra Paesi e per la rinascita di un agonismo dai toni costruttivi, che oggi ha più senso che mai. Fare un passo indietro ora significherebbe, anche simbolicamente, abbandonare le speranze e rinunciare a farsi guida motivazionale di quella ripresa globale di cui tutti abbiamo bisogno.

 
Luca Sperandio

 

[Photo credit unsplash.com]

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Contro lo sport: analisi di una passione rischiosa

«Mr. Prime Minister, what’s the secret of your longevity?»
«Sport. I never, ever get involved in it. Just whiskey and cigars.»
(Winston Churchill)

 

In realtà, non fanno per me né i superalcolici né i sigari: sono i per granduomini, le robe del genere (cioè lo erano fin quando c’erano granduomini); a ogni modo, le mediocrità devono limitarsi, per evitare la ὕβϱις (smisuratezza).

Quante cose mi separano da Churchill … una su tutte: lui è morto, io no. Però quando una ha ragione, ha ragione, e va ammesso.

Ammettiamolo, sprofondando s’un sofà all’ombra di bianche tende placidamente mosse da un verecondo soffio di un vento di morente primavera: vivere è una fatica. Già a dirlo mi sale il decadentismo, e mi trasformo gradualmente in una sorta di Jove Decadent.

Fa un caldo oggi … mi affatica persino pensare.
Ecco perché scrivo ora: scrivo quello che non penso e penso quello che non scrivo, di modo che quando non penso mi viene facile scrivere, e se sto scrivendo non sto pensando, ma non pensando sto scrivendo, o forse sto facendo entrambe le cose ma non lo so.

Una delle fortune della mia casa, è che non s’affaccia sulla strada. Così mi risparmio la fatica di vedere gente. Gente in generale eh, capiamoci. Ma in particolare quelli che fanno sport.

No scusate, sarà pure un mio limite, ma io questi proprio non li capisco: se già la vita è una sgobbata, per quale diavolo di motivo io dovrei sgobbare ancor di più, obbligando la mia persona a sudare? Perché?

Io comprendo la fatica del lavoro, quella che serve per il pane, e affermo con forza che c’è dignità in ogni mestiere, persino il più duro … Ma lo sport? Ma scherziamo? Ma dai.

E non iniziate a raccontarmi la storia che «Facendo sport vivi di più»: ammesso e non concesso, quei giorni in più che passate su questa Terra, li avrete trascorsi ad allenarvi: perché campare più a lungo, se poi in quel periodo non avete fatto altro che sgambettare, magari sotto la pioggia?

E ho visto gente (con tute talmente brutte da essere illegali persino in Nord Corea) correre su tapis-roulant, incuranti del fatto che, più correvano, più il muro innanzi a loro restava dov’era: ed esattamente lì! Ma cosa corri, che sei sempre fermo nello stesso posto?
E non è che lo sport “guardato” sia meglio di quello praticato.

 

Ma mi faccio serio.

Propongo la lettura di Sport barbaro. Critica di un flagello mondiale (M. Perelman, Medusa edizioni), un testo che espone a un’analisi voyeuristicamente ginecologica il mondo sportivo: partendo dall’architettura logistica, ne studia i sottintesi, ne svela le malefatte, ne accusa lo spirito e mostra come esso (sia nella sua forma praticata, che in quella osservata) è nient’altro che la sublimazione (elegante neanche troppo) della bestialità umana.
Una volta ci lanciavamo in testa i cocchi (e l’ultimo che crepava, si pigliava la babbuina), oggi ci sfidiamo in pista d’atletica (e per ragioni non troppo diverse).

La storia delle Olimpiadi greche, e del fatto che i conflitti venissero interrotti durante i Giochi, è la prova provata non che lo sport è pace, ma che la guerra (lungi dallo sparire) era semplicemente trasferita ad altro spazio socio-psicologico – sublimata, appunto.

Il ruolo tutt’altro che pacifico dello sport, è perfettamente esemplificato dalla Rivolta di Nikā del 532: le tifoserie dell’ippodromo di Costantinopoli (dette “Verdi” e “Azzurri”) tentarono di rovesciare Giustiniano I perché i suoi soldati avevano arrestato i loro capi (quelli che noi chiameremmo “ultras”); per una settimana, Verdi e Azzurri devastarono la Capitale, finendo poi uccisi da Belisario. Non vi suona come di “già sentito”?

E potremmo continuare parlando del ruolo politico dello sport, e della vetrina che le Olimpiadi moderne sono state, e sono tuttora, per i regimi violenti (non occorre risalire a Berlino 1936: fermiamoci a Pechino).

Ciò che più conta, al di là della politica, è che lo sport è intrinsecamente guerrafondaio e deve essere così, perché sennò non esisterebbe. Esso si basa sulle sfide, e le sfide sono guerre in miniatura, tutte. Ed è secondario che il nemico, lo si chiami avversario.
E d’altronde, con quale scusa un genitore riuscirebbe a convincere un figlio a migliorare nello sport, se non incitandolo a “superare” un proprio compagno? Il concetto di superamento, è bellico.

E, parlando della violenza come carattere intrinseco dello sport, non mi prenderò la briga di ricordare la violenza negli stadi, gli scontri tra tifoserie, gli insulti sul web tra sostenitori di scuderie diverse, ma rinvio a un altro libro di Perelman: Le Football, une peste émotionnelle.

Come Perelman, già mi immagino le obiezioni: «La tua è solo invidia, perché non pratichi sport, o meglio non hai il fisico per farlo». Può darsi.
E credo non servirà a molto dire che sto ragionando in astratto. Se non credete a me, leggete il libro di Perelman e riflettete con lui (inoltre, l’autore è un uomo con una fisicità tale che non può lasciar dubbio a doppi intenti).

Ma se questo è lo sport, e tutti lo difendono, se questa è la dittatura del mondo d’oggi, che fare?
Fatalmente, Perelman cita spesso Adorno, il quale, messo davanti alla questione di come reagire ai problemi una volta individuati, diceva sovente: “Comprendere e basta. L’intellettuale come fa, sbaglia”.

Quindi nessuna alternativa.
Neppure la mia atavica pigrizia, o la mia indubitabile misantropia, ché io non le elevo a modello.

 

David Casagrande

 

[Photo credit: “Young Decadent” di Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto (link)]

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Non solo nuoto: intervista a Federica Pellegrini

Non è mai facile fare delle proprie passioni una professione. Talvolta, degli imprevisti ce lo impediscono.
Altre volte, invece, la tenacia, i sacrifici e gli sforzi ci permettono di diventare ciò che desideriamo essere e di realizzare quel sogno che fin da piccoli ci cullava.
Nel mio caso, per esempio, il nuoto agonistico ha impastato le mie giornate dai sette agli undici anni: un pomeriggio dietro l’altro fatto di allenamenti in palestra e di chilometri in vasca. Ma ancora non era abbastanza: sentivo che avevo bisogno di altro e che non sarebbe mai diventato il mio lavoro. E mi sono arresa, abbandonando piano piano quell’attività con la quale ero cresciuta.

Oggi stimo molto chi decide di fare dello sport il proprio lavoro, trasformando la passione sportiva in un’attività professionale a trecentosessanta gradi. Lo sport infatti può insegnare molto ed è molto anche ciò che tutti noi possiamo imparare dagli sportivi: sono sicura che tutti noi, anche i più pigri e meno atletici, in un momento della propria vita abbiamo avuto uno sportivo come modello di vita, del quale ammiravamo la tenacia sperando di riuscire ad essere un giorno altrettanto determinati in qualsiasi ambito delle nostre vite.

Per tutti questi motivi siamo felici di essere riusciti a contattare Federica Pellegrini durante l’Arena Pro Swim Series di Indianapolis: è stata una preziosa occasione per scoprire cosa c’è, anche a livello agonistico, oltre ai tempi ed alla tecnica. La campionessa di Spinea ci ha infatti dimostrato in più occasioni come, al di là delle vittorie e delle sconfitte vissute nel corso della sua carriera, lo sport non sia mai stato un’attività agonistica fine a se stessa. Il nuoto, infatti, è diventato per lei un modo per conoscersi, uno specchio attraverso il quale guardarsi. Così, ci spiega in che modo il legame tra filosofia e sport diventa manifesto: non si tratta tanto di una competizione tra eguali, quanto più di uno stile di vita che consente costantemente di migliorarsi, imparando dai propri errori e assaporando il significato di vittorie, che sono frutto di passione, forza di volontà ma anche di sacrifici.

 

Ad un certo punto della tua vita, ancora piccolina, sei entrata in acqua e hai scoperto che quello era il tuo elemento. L’avevi capito subito che avresti dedicato al nuoto una buona fetta della tua vita, delle tue energie ed aspirazioni?

È stato amore a prima vista, infatti amo definirmi un pesce di acqua dolce. Complice di questa mia passione è stata certamente mia mamma Cinzia, che mi ha accompagnato in piscina a 3 anni.

Il termine “agonismo”, di cui tu sai più di qualcosa, deriva dal termine greco agòn, che letteralmente significa “lotta”. In che modo, a tuo avviso, la competizione agonistica può trasformarsi in una lotta costruttiva, piuttosto che finalizzata all’annientamento dell’altro contendente?

Io concepisco l’agonismo come momento ultimo di una preparazione finalizzata alla gara. Dai il massimo, ogni giorno, per essere pronta nel momento che conta. E’ più una lotta con te stessa che contro le avversarie: se sei preparata come meglio non potresti, i minuti della competizione sono frutto di tutto quello che hai dato in allenamento.

Posso immaginare che per te nuotare sia altrettanto normale e quotidiano del camminare; c’è però una nuotata talmente speciale che non potrai mai dimenticare?

Come decibel e calore puro tutte le gare dei Mondiali di Roma 2009. Come intensità del momento, la nuotata con cui ho vinto l’Olimpiade di Pechino resta la più speciale.

L’attività sportiva è strettamente legata ad un’alimentazione attenta ed equilibrata, tuttavia nel mondo sportivo come tu lo vivi, c’è il rischio di sfiorare l’eccesso. Tu stessa infatti, in alcune interviste, hai raccontato di aver vissuto un disturbo alimentare.
In che modo lo sport può diventare il mezzo – piuttosto che un fine – attraverso il quale i giovani ragazzi possono cercare di raggiungere un ideale di perfezione assoluto?

Una parola racchiude tutto: disciplina. Sei talmente concentrata su ciò che controlli, che vive di sottrazioni. Detto questo, sono onesta fino in fondo: faccio uno sport di tali privazioni che a tavola mi concedo più di uno strappo alle regole.

Queste problematiche sono legate a quel potere che l’immagine fisica (e perciò l’estetica) ha rispetto agli altri e, di conseguenza, rispetto a sé stessi, rischiando di oltrepassare i limiti descriventi la salute e il benessere che lo sport si incarica di promuovere.
Quanto oscilla il pendolo tra salute e malattia/ipercontrollo fisico nel campo di un un’attività sportiva quale quella del nuoto?

Sinceramente penso che superare i propri limiti, con la fatica che questo comporta, sia un concetto sanissimo. A patto che ogni limite sia superato senza additivi strani. Proprio per questo bisogno di trasparenza, pubblico spesso i referti dei controlli anti-doping.

A proposito di immagine. Sport e femminilità nel mondo d’oggi sembrano visti come due mondi lontani, per cui ci si stupisce ancora quando si vede un’atleta donna con un vestito ed un bel paio di scarpe, cosa che sembra tradire il fatto che alcuni stereotipi sono davvero duri a morire. Tu cosa ne pensi?

È vero, di strada da fare contro gli stereotipi ce n’è. Tuttavia mi sembra che nel tempo questo concetto si sia evoluto, grazie anche all’interesse crescente del mondo della moda per le atlete. Io stessa sono stata invitata a sfilare, e ho capito che gli stilisti apprezzano i valori che rappresentiamo. Poi ognuna di noi interpreta la femminilità come meglio ritiene. A me piace molto studiare i look, ricercare capi che mi rappresentano e contaminare gli stili.

In un’intervista hai detto che essere la capitana della squadra olimpica e ricevere il nostro tricolore dalle mani del Presidente Mattarella è stato per te l’onore e il riconoscimento più grande. Questo è un pensiero che oggi può risultare un po’ controcorrente se consideriamo lo scontento diffuso in Italia. Secondo te allora perché ha ancora un senso essere patriottici – o meglio, fieri italiani?

Non credo che lo scontento per le cose che non funzionano in Italia diminuisca il senso di patriottismo. Io ho avuto la fortuna di girare il mondo per il miosport, e devo dire che l’Italia mi manca sempre proprio per quell’insieme di caratteristiche che la rendono unica.

Torniamo per un’ultima volta al nuoto. Se lo potessi associare ad una sola parola o concetto, quale sarebbe e perché?

Leggerezza. Perché sentirsi leggeri è uno stato mentale impagabile ed io nuoto per amore di ciò che faccio.

Si parla spesso di filosofia di vita e tu sei riuscita a fare del nuoto la tua vita e la tua professione. Secondo te che cos’è la filosofia?

Per me filosofia è l’arte di migliorarsi, senza accontentarsi, godendo delle vittorie e imparando soprattutto dalle sconfitte.

Sara Roggi & Giorgia Favero

Ecco perché a Rio non ha vinto nessuno ma abbiamo perso tutti

28 Agosto 2016. È passata una settimana dalla chiusura della cerimonia olimpica ed ogni Paese sta tirando le somme della propria spedizione sportiva o – forse – cominciando già a pensare inconsciamente a Tokyo 2020.
L’Italia non è andata male. Nono posto nel medagliere con 28 medaglie totali, abbiamo replicato quanto fatto a Londra 2012.
Abbiamo avuto i nostri momenti di gioia e di disperazione. Una volta ogni quattro anni scopriamo l’esistenza di tanti sport oltre al calcio e – diciamolo dai – sono anche capaci di farci emozionare.
Emozioni che ogni persona del modo avrebbe avuto il diritto di provare,  specialmente i brasiliani che ospitavano i Giochi.

La realtà delle cose – purtroppo – nel Paese sud-americano è stata totalmente diversa.
Quando nel 2009 il Brasile ottenne l’organizzazione dei Giochi Olimpici, era governato da Lula ed era considerato una nazione in grande progresso economico.
Per il sindaco di Rio nel 2012, Eduardo Paes, le Olimpiadi avrebbero permesso di «mettere in relazione ricchi e poveri, di portare i servizi di base – istruzione e sanità – nelle favelas e di favorire la coesione sociale attraverso investimenti localizzati in vari ambiti della città, consentendo, quindi, di realizzare la “città del futuro”».
In realtà dove sono finiti gli investimenti? Una buona sezione del denaro è stata utilizzata per prolungare la linea della metro verso la spiaggia di Ipanema e per il ricco sobborgo di Barra Tijuca. Gran parte del “villaggio degli atleti” si tramuterà in residenze di lusso. Inoltre – per concludere dal punto di vista umano – sotto il governo di Paes più di 20.000 famiglie sono state sfrattate dalle loro case.
Insomma, le Olimpiadi non hanno fatto altro che aumentare il divario sociale e – stranamente – sono state fonte di guadagno per i più ricchi.

Ma a tutto questo – ormai – siamo abituati da ogni grande Evento e la nostra indignazione per questo genere di cose si spegne facilmente in poco tempo.

C’è – però e purtroppo – molto di più.
Già nel 2015, l’Onu aveva denunciato un “elevato numero di esecuzioni sommarie di bambini” ad opera delle forze dell’ordine, sottolineando come spesso i responsabili risultassero impuniti. In particolare – come si può leggere sulla Repubblica del 9 ottobre 2015 – il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia metteva in luce una “violenza generalizzata” da parte della polizia, specialmente contro i meninos de rua e quelli che vivono nelle favelas. La violenza nei confronti dei minorenni sarebbe particolarmente elevata a Rio de Janeiro, dove «esiste un’ondata di “pulizia” che mira a presentare al mondo una città senza questi problemi» ha dichiarato la vice-presidente del Comitato, Renate Winter.

Sempre prima dell’inizio dei Giochi, Atila Roque – direttore di Amnesty in Brasile – dichiarò che «quando nel 2009 Rio si aggiudicò le olimpiadi del 2016, le autorità promisero di migliorare la sicurezza per tutti. Invece, da allora, abbiamo visto che nella città 2.500 persone sono state uccise per mano della polizia e ben poca giustizia». (tratto da Repubblica del 26 luglio 2016)
Sullo stesso articolo si può leggere che «il Brasile è il paese con il maggior numero di omicidi al mondo, un paese dal grilletto facile in cui solo nel 2014, l’anno della Coppa del Mondo, hanno perso la vita 60.000 persone. Solo nello Stato di Rio de Janeiro morirono 580 persone per mano della polizia, il 40% in più del 2013. Nel 2015 il numero è cresciuto a 645. In queste cifre, apparentemente asettiche, rientrano le decine di bambini assassinati da chi li avrebbe dovuti proteggere. Fra loro c’è Eduardo di 10 anni, seduto sull’uscio di casa, intento a giocare con il cellulare. Una pattuglia sorveglia il quartiere, quando un agente gli punta la pistola alla testa e spara. Eduardo, come molti suoi coetanei, è fra le vittime innocenti degli squadroni della morte (UPP, Unidades de Policia Pacificadora). […] Un dato, non trascurabile, riguarda il fattore razziale: i bersagli preferiti dalla polizia sono i giovani, poveri e di colore».

Ora – mi chiedo – tutto ciò era a conoscenza di tutti prima che i Giochi iniziassero, perché nessuno ha dato qualche segnale o fatto qualcosa?
Se fossi stato un atleta mi sarei categoricamente rifiutato di partecipare, cercando ci coinvolgere e rendere partecipi tutti gli altri atleti di questa carneficina in corso e chiedendo giustizia.
Chiudere gli occhi è più semplice? Certo, ma esempi virtuosi ne abbiamo avuti – come il discobolo polacco Piotr Malachowski, che ha donato la sua medaglia in beneficenza per contribuire a salvare un bambino di tre anni affetto da un raro tumore. Mi rifiuto di credere che ogni atleta, ogni giurato, ogni partecipante dei Comitati e delle Spedizioni abbia chiuso gli occhi.
Certo, magari non a tutti è arrivata notizia di ciò che era in atto, come magari anche a me può non essere pervenuta la presa di distanza generalizzata da parte dei partecipanti. Ma il dubbio è grande: bastava una minuscola ricerca per essere informati e una reazione forte da parte di ogni delegazione avrebbe avuto – penso – grande risalto mediatico.

Ecco perché a Rio, per ogni giornata dei Giochi, decine di vite umane si sono spente.
Ecco perché a Rio lo Sport ha fallito.
Ecco perché a Rio ogni medaglia è stata una sconfitta. Per tutti.

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Risorgere con e per lo sport: la scuola delle Olimpiadi

L’Agosto 2016 verrà ricordato come l’anno delle Olimpiadi di Rio de Janeiro, l’anno delle conferme, dei successi e degli insuccessi, delle delusioni e delle scoperte.

Quello delle Olimpiadi è da sempre un evento che coinvolge tutti, chi più chi meno, sia per la passione nei confronti dello sport, sia per la venerazione nei confronti di uno sportivo sia per mera curiosità; è la conferma che lo sport unisce, appassiona ed ha la capacità di salvare.

Vorrei soffermarmi proprio su questa ultima capacità dello sport, cioè quella di salvare vite umane, dal baratro, dalla strada o dalla disperazione.

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di suscitare emozioni. Ha il potere di ricongiungere le persone come poche altre cose. Ha il potere di risvegliare la speranza dove prima c’era solo disperazione.

Nelson Mandela

La nostra epoca è caratterizzata da una presenza importante dello sport da diventare quasi una religione universale, riconosciuta e compresa da tutti; lo sport di oggi, però, è quello costretto al successo ad ogni costo, al raggiungimento dell’apice in cui tutti ti acclamano e ti venerano, alla caduta nel baratro dell’ignoto o dell’indifferenza non appena sopraggiunge un insuccesso.

Ecco che allora il gioco cede posto al risultato, il sacrificio viene superato dall’immagine e il perché e il come si sia arrivati ad essere un campione olimpico cedono il posto al becero gossip. Non importano più la competizione sana o i valori che lo sport da sempre vuole trasmettere, perché tutto si basa su ciò che il campione diventa e/o fa in seguito: pubblicità, moda, televisione o cinema, tutto ruota attorno alla figura dello sportivo famoso che fa carriera nel mondo dello spettacolo e non importa più chi è realmente e cosa ha sacrificato per arrivare fino a là.

Perché Michael Phelps è lo sportivo che più ha vinto nella storia?

Come ha fatto Anthony Ervin a vincere l’oro nei 50 stile a 35 anni?

Loro due, ma come moltissimi altri atleti di queste olimpiadi, hanno fatto dello sport la loro àncora di salvezza.

phelps168Phelps cresce senza un padre, gli viene diagnosticato il disturbo di iperattività e deficit dell’attenzione e per questo gli viene consigliato di concentrarsi su uno sport e su spinta di una delle sorelle (nuotatrice) comincia a praticare il nuoto senza alcun tipo di passione. A 14 la prima competizione nazionale e da allora il resto è storia ben nota.

 

 

Erv589029718-3696in a 19 anni oro olimpico a Sidney sempre nei 50 stile, si ritira dal nuoto dopo tre anni perché soffocato dalla pressione del successo e della celebrità; da quel momento depressione, tentato suicidio per avere ingerito una quantità di medicinali superiore a quella prescritta, cocaina, abuso di alcol: il nuoto era ormai un lontano ricordo. Si trasferisce a New York dove si improvvisa tatuatore. Nel 2007 un amico lo convince a riavvicinarsi all’acqua: la passione non era mai svanita ma solo sopita dalla disperazione. Ricomincia ad allenarsi, a Londra arriva quinto, a Rio, a 35 anni, dopo 16 anni da Sidney, torna ad essere l’uomo più veloce del mondo in acqua.

Due storie diverse, di campioni che si sono affermati con fatica, con il sudore della loro fronte e la forza di volontà di uscire dalle loro condizioni precarie.

Michael e Anthony sono solo due degli esempi di come lo sport possa riportare l’essere umano in superficie, perché è in grado di smuovere persone, idee e pensieri, facendo parte della natura stessa dell’uomo.

Lo sport è ciò che consente all’uomo di conoscere nuove situazioni, di adattarsi ad esse, di riconoscere l’imprevisto e di superarlo; inoltre lo sport, come fonte di disciplina ed autodeterminazione, consente all’uomo di sperimentare un senso di controllo personale su di sé e sul proprio corpo, di avere padronanza dei suoi stati emotivi e dell’ambiente. Queste capacità che lo sport è in grado di forgiare danno una fortissima spinta motivazionale, spingendo l’uomo a migliorare anche la propria prestazione.

La bellezza dello sport e ciò che esso regala in termini di autocontrollo e autodisciplina, stimolano la dimensione psicologica dell’individuo che si sente in grado di controllare se stesso e la realtà che lo circonda, riuscendo a vincere contro i propri limiti.

Phelps e Ervin, attraverso il nuoto, hanno compiuto un viaggio alla ricerca/scoperta della loro identità, andando a verificare che essa si stabilisce solo in relazione con l’Altro, messi a confronto con l’Altro,

L’altro siamo noi

Ryszard Kapuściński

Messi a confronto, scoprendo l’Altro l’uomo scopre se stesso; così lo sportivo riesce, in relazione con compagni di squadra ed avversari, a dischiudersi all’esistenza.

Ecco che allora lo sport è la molla che stimola l’uomo a conoscersi e a riconoscersi nei suoi limiti, nelle sue paure e nelle sue fragilità, dimostrando come la meraviglia debba essere destata non tanto dalla natura che ci circonda, quanto dall’uomo stesso che rimane mistero.

Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei fiumi, delle stelle; e passano accanto a se stesse senza meravigliarsi.

Sant’Agostino

L’insegnamento che dobbiamo ricavare guardando le Olimpiadi è di vedere tutti gli atleti  non come fenomeni da baraccone o banali vips da ospitate televisive, ma persone come noi che forse più di noi hanno sofferto nella vita e per le quali il podio olimpico rappresenta il riscatto e la frase “grazie allo sport sono risorto”.

Valeria Genova

[Immagini tratte da Google immagini]

La disumanizzazione ieri e oggi

Lunedì sono andato al cinema: “Race – il colore della vittoria”. Parla delle vicende di J. Owens, corridore afroamericano che partecipò ai giochi olimpici del 1936 a Berlino sotto il regime Nazista. Vinse quattro medaglie d’oro e diventò un simbolo della lotta alle ideologie razziste dell’Hitlerismo ma anche interne agli USA. La storia è molto curiosa e ricca di spunti interessanti; tra questi, uno che mi ha colpito e fatto riflettere è il processo di disumanizzazione perpetrato dal Nazismo che tanto sconvolge e del quale non si parlerà mai abbastanza.

La riflessione di H. Arendt nell’opera “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” punta l’attenzione anche su questo aspetto. È una delle possibilità più spaventose che l’uomo possa produrre: com’è possibile che si possa considerare un’altra persona non umana? Perché è proprio questo che permetteva ai nazisti di compiere i loro crimini. Non stavano uccidendo una persona, ma un animale. Non stavano eliminando delle vite, ma liberando il Paese da un’infestazione. Non stavano compiendo sperimentazioni contro qualsiasi etica o diritto, perché i pazienti non erano degli uomini.

Cosa avremmo fatto noi in quegli anni se ci fossimo trovati immersi in quel clima?

Avremmo osato morire per difendere una persona che magari neanche conoscevamo e che sarebbe comunque stata uccisa dopo di noi?

Avremmo rischiato la morte per proteggere degli sconosciuti invece di incassare una ricompensa per la loro denuncia?

Insomma: ci saremmo fatti anche noi contagiare dalla banalità del male, che permette di mettersi il cuore in pace spegnendo il cervello?

Eichmann, infatti, ha introdotto il pericolo dell’irriflessività: una massa di uomini normali – la stessa Arendt definisce così Eichmann quando lo vede e lo ascolta a Gerusalemme – che compivano azioni mostruose. È il trionfo della follia, spacciata per legge e “giustizia”. Il contesto ideologico all’interno del quali si era inseriti conferiva agli uomini nuove categorie di interpretazione del reale. Un gesto che prima poteva ripugnare diventava semplice e normale – anzi – forse addirittura doveroso.

Non è un discorso astratto, perché la situazione si sta ricreando – per alcuni già ha preso il sopravvento – proprio qui, in Italia. Certo, magari sono cambiati i toni (basta fare un giro su Facebook per rendersi conto che non è proprio così); forse il risultato che si vuole ottenere è diverso (idem); potrebbe darsi che questa volta si risparmino almeno i bambini (l’immagine di quel corpicino disteso inerme sulla spiaggia dovrebbe essere ancora fresca nelle nostre menti), ma il bersaglio rimane sempre lo stesso: un capro espiatorio che incarni tutti i problemi del Paese e contro il quale scagliarsi sottraendogli lo statuto di persona. La crisi migratoria ha messo in luce le reali difficoltà dell’Unione Europea nel corso degli anni, e l’accordo con la Turchia entrato in vigore il 4 Aprile ne ha sancito il fallimento. Come si può pensare che il rimpatrio in Turchia sia una scelta corretta e soprattutto etica nei confronti dei profughi? In ogni caso, la chiusura della rotta Balcanica ha riportato l’Italia a meta privilegiata di chi fugge, complicando ancora di più la nostra già precaria situazione.

I numeri dell’ondata sono impressionanti: secondo l’Unhcr – l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – nei primi tre mesi del 2016 in Italia sono arrivate 18.400 persone. Nel 2014 l’Is ha incassato circa trecento milioni di dollari dal traffico di esseri umani secondo un rapporto della Global iniziative against trasnational organized crime. Tom Keatinge del Royal united services institute afferma – però – che “non è l’Is a gestire il traffico, ma tassa chi lo fa”. «Più che la minaccia del gruppo Stato islamico, l’impegno del governo italiano è dovuto all’urgenza di fermare i migranti e tutelare l’interesse dell’Eni» queste le parole di Alberto Mucci, ripreso dal settimanale “Internazionale” riguardo all’impegno italiano in Libia. Il petrolio. Sembra inconcepibile che di fronte alla tragedia che si sta compiendo anche in questo preciso istante l’interesse sia rivolto a quel maledetto liquido nero. Eppure «[…] in Libia l’Italia ha già grandi interessi. L’Eni ha quasi un monopolio sul settore petrolifero libico: è presente nel paese dal 1959 ed è l’unica azienda internazionale a operare a pieno regime. La sua presenza in Libia ha un’importanza strategica vitale per l’Italia e, nonostante gli enormi costi per la sicurezza, è forse il principale motivo degli sforzi di Roma per pacificare il paese nordafricano, con o senza alleati. […]»: sempre parole di Mucci.

Finché l’Europa non vorrà prendere a cuore la questione in modo serio, le morti in mare continueranno e gli sbarchi aumenteranno. Ma se gli interessi principali rimangono il petrolio ed il denaro proveniente dal traffico di esseri umani invece che salvaguardare le loro vite mi viene da pensare che questo non costituisca un problema. Dobbiamo renderci conto che la disumanizzazione dei profughi è già in atto. Una differenza rispetto al passato però è individuabile: per non vedere ciò che sta succedendo non li identifichiamo come animali senza diritti come facevano i Nazisti, semplicemente facciamo finta che il loro sangue in mare sia azzurro, in modo che non ci guasti il panorama.

Massimiliano Mattiuzzo