In lapsus veritas

La scuola freudiana, e la psicanalisi in generale, con i lapsus va a nozze. Un bambino che chiama la maestra “Mamma”, suscitando le risate dei ben poco compassionevoli compagni di classe, tradisce un’identificazione delle due figure femminili autorevoli della sua vita. Un uomo che sbaglia il nome della compagna con quello di un’amica o di una ex avrà modo, se sopravvive all’errore, di pensare a quali siano effettivamente i suoi sentimenti nei confronti della seconda. Il lapsus linguae, in sintesi, sarebbe un barlume di schiettezza e verità sfuggito al controllo rigoroso del Super-Io, un errore che tradisce il vero pensiero, sentimento, umore di chi parla, rivelandolo contro quanto imposto dalle norme sociali, dalla buona educazione o, come nel caso del nome della ex, dalla pura e semplice autoconservazione.

Andrebbe quindi dato il giusto peso anche a lapsus più illustri, come quello dell’ex Presidente USA George W. Bush che, in occasione di una conferenza stampa dello scorso 18 maggio, si è lasciato sfuggire una gaffe non da poco. Parlando del conflitto in corso in Ucraina, Bush ha rimarcato con convinzione: «Condanneremo sempre e senza mezzi termini la brutale e totalmente ingiustificata invasione dell’Iraq!» – momento di imbarazzato silenzio degli astanti, attimo di realizzazione, correzione – «Volevo dire, dell’Ucraina».

«Scusatemi, ho 75 anni», si è giustificato l’ex Presidente, ma Freud e i suoi allievi non si berrebbero una simile giustificazione. A distanza di vent’anni dal conflitto che ha definitivamente destabilizzato buona parte dell’area mediorientale, con il pretesto delle armi di distruzione di massa nascoste dal dittatore Saddam Hussein definitivamente rivelato come una spudorata menzogna, con tutti i documenti desecretati durante lo scandalo WikiLeaks, i parallelismi tra l’invasione dell’Iraq da parte degli USA e quella dell’Ucraina da parte della Russia sono lampanti, e il subconscio di Bush dev’esserci arrivato prima del suo Ego cosciente.

In entrambi i casi, assistiamo alla soverchiante prepotenza di un super-stato troppo forte per poter essere fermato, che si beffa perciò del diritto internazionale, che accampa scuse insostenibili alla prova dei fatti per la propria condotta, che schiaccia beatamente sotto i cingoli dei propri tank civili non combattenti in nome di sicurezza, giustizia, democrazia. In entrambi i casi, i movimenti pacifisti sono stati messi a tacere, l’opinione pubblica è stata ignorata, gli interessi nazionali sono diventati l’unica norma da seguire in spregio a qualsiasi mediazione, le responsabilità delle conseguenze dell’attacco neanche troppo velatamente scansate.

Un lapsus del genere non dovrebbe essere ignorato, anche perché rivela qualcosa che buona parte del resto del mondo già sa da tempo. Non è un caso che siano pochissimi gli stati che hanno accettato di imporre sanzioni alla Russia, con un grandissimo numero di rifiuti soprattutto tra i paesi del cosiddetto terzo mondo. Prima ancora che motivazioni ideologiche, quel che spinge i neutrali o addirittura i filorussi a rifiutare il supporto all’Ucraina è l’ipocrisia delle potenze occidentali, che adoprano due pesi e due misure per giudicare condotte assolutamente analoghe a seconda di chi le fa proprie, che divinizzano democrazia e volontà popolare solo quando non sono i loro interessi ad essere in ballo, che ignorano il diritto internazionale ogni qualvolta si prospettano profitti, salvo poi ribadire di appartenere al “blocco delle regole” se a fare lo stesso sono paesi al di fuori della propria cerchia ristretta.

Chi ci rimette, in questo gioco di verità taciute e rivelate, è al solito la vittima designata, il cui fato interessa poco agli attaccanti quanto ai difensori. La popolazione ucraina soffre e muore sotto le bombe, i civili vengono violentati, torturati e uccisi, i campi devastati, le città distrutte, le strade minate. Il supporto manca (anche) perché buona parte del mondo si è stancata dei soprusi, dei giochini neocoloniali e delle imposizioni di USA ed Europa. Si è stancata di un’ipocrisia che ha vissuto sulla propria pelle e che è chiara da anni. Da ben prima che a George W. Bush “scivolasse la lingua”.

 

Giacomo Mininni

[Photo credit Levi Meir Clancy via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Abitare la fragilità oltre la “cultura dello scarto”

Nelle intense pagine di Malattia come metafora, Susan Sontag si batte contro l’idea, molto diffusa al tempo della pubblicazione del libro (il 1977), che il cancro, del quale l’autrice era malata, fosse una malattia alla quale erano particolarmente inclini le persone psichicamente più fragili, chiuse, represse. Argomentazione simili venivano sostenute anche per l’Aids.

La critica di Sontag si spinge molto oltre la difesa della dignità della persona, per rivolgersi a tutta un’intera storia culturale occidentale che ha letto la malattia come metafora delle dinamiche psicologiche profonde del malato o dei comportamenti di interi popoli. La tubercolosi, nell’Ottocento, è stata, ad esempio, considerata la malattia dei consunti di spirito; così come la peste, nel Medioevo, era ritenuta un castigo dovuto al decadimento dei valori morali.

Una mappa dei territori esplorati dalla letteratura su questo tema è proposta nel volume, curato da Stefano Manferlotti, La malattia come metafora nelle letterature dell’Occidente: dalla prime formulazioni di Ippocrate e dalla descrizione della peste in Tucidide, alla malattia maschile per eccellenza, l’impotenza; dal mal d’amore, in cui l’euforia si lega all’inquietudine, alla “necrosi della memoria” che colpisce con il morbo di Alzheimer.

«La malattia è il lato notturno della vita – afferma, invece, Sontag –, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese» (S. Sontag, Malattia come metafora. Cancro e Aids, 2002, pag. 3).

L’autrice, nel testo, non descrive la malattia, «ma le fantasie punitive o sentimentali» (ibidem) costruite intorno ad essa, che rendono impossibile al malato di «prendere residenza nel regno dei malati senza lasciarsi influenzare dalle sinistre metafore architettate per descriverne il paesaggio». «La malattia non è una metafora» (ibidem) scrive a un Occidente “scientifico” che coltiva l’illusione dell’oggettività, ma concepisce il “reale” all’interno di processi culturali connotati in senso metaforico. Ed è così che la malattia diventa per il malato «colpa della degenerazione della sua vita e, per traslazione, metafora della degenerazione politica e sociale» (U. Galimberti, Una lunga battaglia culturale. La morte di Susan Sontag, “La Repubblica”, 29 dicembre 2004).

Per uscire da questa prigione culturale, funzionale al pensiero dominante, Galimberti suggerisce di «demetaforizzare la malattia» (ibidem). Il rischio di questa operazione è però il riposizionamento di una nuova prevalenza medica, o comunque specialistica, e l’aggiornamento dei dispositivi di potere.

Questa riflessione sull’umano e sulla malattia, sul modo di comunicare e di utilizzare le parole, si coniuga, invece, con la fragilità di ciascuno di noi e tiene conto della fragilità degli altri. Si coniuga con la fragilità delle parole e con il mistero della condizione esistenziale.

Per Andreoli la fragilità è «il fondamento dell’umanesimo»; è «la condizione umana che ha bisogno dell’altro» (V. Andreoli, L’uomo fragile, Lectio magistralis al Convegno Amci e della Piccola Casa della Divina Provvidenza “L’uomo fragile. La condizione umana tra resa e resistenza”, Torino, 26 ottobre 2013). La fragilità comporta il bisogno dell’altro, è la precondizione dell’apertura relazionale, di uno scambio, del cambiamento, del non bastare a se stessi. Tutto questo non è retto dal dominio, ma dalla condivisione e dalla reciprocità.

È per questa ragione che per superare le aporie della “cultura dello scarto”, di cui parla Papa Francesco, occorre ri-educare alla fragilità come dimensione esistenziale, «forma di vita mediatrice di valori» (E. Borgna, Le parole che ci salvano, 2017, pag. IX); riappropriarsi di essa, come individui e collettività, abitarla, viverla e comunicarla attraverso parole – non metafore –, parole anch’esse fragili, rispettose, «portatrici di significati inattesi e trascendenti, luminosi e oscuri, umbratili e crepuscolari» (idem, pag. 9); parole che si accompagnano «al linguaggio del corpo vivente, del sorriso e delle lacrime, degli sguardi e dei gesti, e anche al linguaggio del silenzio» (idem, pag. 82).

La fragilità non è patologia e non è neppure debolezza. La debolezza si misura con la forza e con il potere, la fragilità esprime, invece, “la visione dell’altro, non come qualcosa da allontanare, […] di drammatico, di pericoloso” (V. Andreoli, L’uomo fragile, op. cit.), ma come qualcuno da incontrare, con il quale entrare in relazione. Le nostre fragilità possono aiutarsi, sostenersi, assistersi.

Se il potere ha bisogno dell’altro per imporsi e dominarlo, la fragilità è la misura della possibilità di essere uomo e di dedicarsi agli altri uomini.

 

Massimo Cappellano

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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L’arte di amare da Dante a Fromm

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inferno V, v. 103): ho sempre trovato questo celebre verso dantesco incredibilmente forte quanto spiazzante. Il poeta afferma che Amore (in adnominatio, essendovi tre parole con la stessa origine etimologica, Amor, amato, amar) a nessuno (come è preferibile intendere quel nullo nel senso latino del termine nullus e non considerare come latineggiante l’intero costrutto cioè a nullo quindi “da nessuno”) se è amato risparmia, condona come se fosse una condanna, il fatto di riamare a sua volta. Se fosse così sarebbe troppo facile e troppo triste secondo me, impari a vantaggio di chi ama, non ci sarebbe scelta, solo questione di fortuna: chi viene amato non potendosi sottrarre al dardo di Amore, quasi come un automatismo, potrebbe solo sperare – verbo che a mio parere andrebbe relegato al mito di Pandora e mai più usato – di essere amato da qualcuno da cui si sente attratto e innamorato a sua volta.

Di certo tutte le creature hanno un bisogno assoluto di amore, nel senso passivo del termine, cioè di “essere amati”, ma si tratta come spiega Erich Fromm1, nel suo saggio, caposaldo della psicanalisi, L’arte di amare (1956), di un amore egoistico, infantile che «segue il principio: amo perché sono amato» e immaturo che «dice: ti amo perché ho bisogno di te» e di certo il furor amoris in quanto tale appunto è potente ma la brama di una qualche fusione erotica «è forse la più ingannevole forma d’amore che esista», perché, continua Fromm, «amare qualcuno non è solo un forte sentimento» o una sensazione che in quanto tale viene e va ma «è una scelta […] un impegno».

Facciamo un passo indietro per chiederci, come Raymond Carver2, «di cosa parliamo quando parliamo d’amore?». Intendiamo delle unioni simbiotiche attivo-passive sadomasochistiche o intendiamo una fusione interpersonale e con il mondo circostante? Ancora una volta Fromm, che nella prima parte del suo saggio ne mette in dubbio il titolo: se l’amore è un’arte e non una più o meno piacevole esperienza casuale, se l’amore significa “amare” e non come ritengono i più “essere amati”, se il focus è sulla funzione di amare e non sull’oggetto da cui essere amati e da amare allora l’amore «richiede sforzo e saggezza» nel senso che l’amore è «un sentimento attivo, non passivo, una conquista, non una resa». Riprendendo la distinzione spinoziana l’amore è un’azione non una passione, quindi l’uomo ama e può praticare il potere umano di amare solo in libertà, l’amore cioè non è la conseguenza di una qualche costrizione ma una «sensazione di vitalità e di potenza» che riempie di gioia ed è nell’atto del dare che trova la sua più alta espressione, un dare non per ricevere ma che è in se stesso traboccante di felicità e in questo senso «l’amore è una forza che produce amore» e non solo una relazione con una persona perché amare veramente significa amare il mondo e amare la vita, le altre sono «forme di pseudo-amore che in realtà sono forme di disintegrazione dell’amore».

Nella società occidentale contemporanea capitalistica, in una civiltà quindi non orgiastica, l’individuo moderno in una routine di lavoro meccanico e di divertimenti passivi, ben nutrito e soddisfatto sessualmente, consuma alcol, droghe e atti sessuali senza amore per produrre uno stato simile a quello provocato dalla trance cioè per andare avanti in modo momentaneo senza soffrire troppo ma senza in realtà riempire il baratro che lo divide dai propri simili da cui resta estraneo tutta la vita. Spiega Fromm che «la felicità odierna consiste nel divertirsi» e «divertirsi significa consumare», tutto è oggetto di scambio e consumo, in realtà palliativi che aiutano a essere, forse consapevolmente, inconsci della propria solitudine perché «gli autonomi non possono amare, possono scambiarsi i loro fardelli di personalità e sperare in uno scambio leale».
Alla base c’è l’errore freudiano di considerare l’amore esclusivamente come espressione dell’istinto sessuale che al contrario è invece una manifestazione di un bisogno di amore, lo spiega sempre Fromm con parole che andrebbero tenute ben in mente: «L’amore non è la conseguenza di un’adeguata soddisfazione sessuale ma la felicità sessuale – e la conoscenza della cosiddetta tecnica sessuale ‒ è una conseguenza dell’amore».

Innamorarsi è l’emozione più meravigliosa della vita, è un attimo, è una freccia che scocca in direzioni reciproche e che scombussola, disorienta, cambia, è desiderio di uscita da sé e di fusione ma l’intensità del folle amore iniziale va superata con l’intensità del sentirsi permanentemente innamorati, secondo me è questa l’arte, che in sanscrito vuol dire “andare verso”, di amare, l’alternativa è provare l’intensità della solitudine, perché sembra un paradosso ma in amore «due esseri diventano uno e tuttavia restano due». L’amore maturo è unione che preserva l’integrità e dice «ho bisogno di te perché ti amo».

 

Rossella Farnese

 

NOTE:
1. Erich Fromm (1900-1980) sociologo, filosofo e psicanalista tedesco, autore di un saggio di psicologia politica, Fuga dalla libertà (1941), arricchito con il successivo Dalla parte dell’uomo (1947), del best seller internazionale L’arte di amare (1956), cui seguì un altro best seller Avere o Essere? (1976). Nei suoi studi si è occupato soprattutto del processo di formazione e della dialettica tra individuo e società.
2. Raymond Carver (1938-1988) scrittore, saggista e poeta statunitense, autore della raccolta di racconti brevi Di cosa parliamo quando parliamo di amore? (1981, trad it. Garzanti 1987), cui segue Cattedrale (1983, trad. it. Mondadori 1984).

[Immagine di copertina tratta da pixabay]

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Derrida e l’11 settembre. Il terrorismo come malattia autoimmune

L’11 settembre 2021 ricorrono i vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle, uno degli eventi più iconici e drammatici della nostra storia recente. Alle ore 8.45, circa, il primo aereo si schiantò contro la Torre Nord: in pochi minuti quelle immagini fecero il giro del mondo, che incredulo rimase a guardare col fiato sospeso. Tutti si ricordano cosa stessero facendo in quel momento e tutti pensarono più o meno alla stessa cosa, e cioè che era in atto un cambiamento irreversibile.

Per approfondire le implicazioni di questo evento, in particolare, e del fenomeno terrorismo in generale, la filosofa Giovanna Borradori, professoressa del Vassar Collage, intervistò due dei massimi pensatori contemporanei: Jürgen Habermas e Jacques Derrida. I due dialoghi sono stati raccolti nel libro Filosofia del terrore del 2003 e pubblicato in Italia da Laterza.

È proprio grazie a questo incontro che Derrida elaborò, in linea col suo stile suggestivo e simbolico, la definizione di terrorismo come malattia autoimmune. Un’affermazione a primo acchito provocatoria e inaccettabile; è come se il filosofo volesse sminuire questa tragedia e deresponsabilizzare, addirittura giustificare, gli attentatori. Ovviamente si tratta di un’analisi molto più profonda, ma certamente in contrasto con i luoghi comuni del dibattito pubblico post 11 settembre e con la retorica della War on Terror.
Con malattia autoimmune si intende una serie di patologie molto particolari che derivano da un’anomalia del sistema immunitario, il quale, trattandoli come agenti estranei, attacca alcuni tessuti sani del nostro organismo. In altre parole, Derrida ci dice che solo in apparenza il terrorista è un nemico esterno, non rappresenta l’atto di guerra di organizzazioni straniere, ma è il sintomo di una crisi intrinseca nel nostro sistema politico e geopolitico. 

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan, “Blind”, Hangar Bicocca 2021

L’osservazione di Derrida si sofferma sul fatto che gli attentatori hanno utilizzato armi, tecnologie e tecniche tradizionalmente occidentali. Da dove hanno assimilato queste competenze? La risposta non lascia alibi: sono stati gli Stati Uniti che durante la guerra fredda hanno addestrato gli afgani per sottrarre quella regione al controllo dell’URSS. È stato dunque l’Occidente che, in prima battuta, ha preparato le basi per quello che si sarebbe concretizzato nell’11 settembre.
Perciò, secondo Derrida, questo avvenimento non può essere considerato una data storica; non inizia un’epoca nuova, ma si pone in continuità con quella precedente. Non può essere nemmeno definito un major event, ovvero un evento di importanza tale da segnare una generazione intera. Non è stato un avvenimento inaspettato e improvviso, non è stato un “terremoto culturale”, ma la diretta conseguenza di una catena di responsabilità chiaramente attribuibili. Non irrompe nella storia e, in senso arendtiano, non è portatore di novità.

A mio avviso, l’aspetto più interessante dell’analisi di Derrida è il fatto che essa sia una chiave interpretativa valida anche per fenomeni successivi all’11 settembre. Caso emblematico sono i due principali attacchi terroristici che hanno colpito Parigi nel 2015: l’attentato alla sede del periodico satirico Charlie Hebdo, avvenuto il 7 gennaio, e quello al Bataclan del 13 novembre. I fratelli Chérif e Saïd Kouachi, autori del primo attentato, erano nati a Parigi da una famiglia di origine algerina e all’epoca dei fatti avevano rispettivamente 32 e 34 anni. Il loro complice, Amedy Coulibaly, aveva 33 anni ed era nato in Francia da una famiglia originaria del Mali. Il secondo caso ha coinvolto una decina di attentatori, tra questi anche il ventiseienne Salah Abdeslam, nato in Belgio da una famiglia originaria del Marocco. Nelle foto che circolavano durante le ricerche si vede un ragazzo in jeans e giacca, con il gel tra i capelli pettinati all’indietro; un’immagine molto lontana dallo stereotipo di jihadista.

Questi quattro nomi sono quattro esempi di giovani uomini nati e cresciuti in Europa, membri della cosiddetta “seconda generazione” che, per vari motivi, si sono successivamente radicalizzati fino a diventare autori di stragi. Di fronte a questi casi l’allegoria del terrorismo come malattia autoimmune è ancora più evidente. Questi attentati nascondono il fallimento di un preciso sistema istituzionale e politico: la Francia post-coloniale e multiculturale non ha saputo prevedere e prevenire quello che sarebbe successo. 

La riflessione derridiana, per quanto efficace, è mancante almeno in un aspetto: la sua impostazione è prettamente analitica e non risulta capace di proporre soluzioni percorribili. La malattia diagnosticata è una crisi dell’intero Occidente, dalle cause profonde e dai sintomi a lungo termine, ma per quanto riguarda il dopo non viene detto nulla. Qui Derrida si ferma e implicitamente passa il testimone, per uscire dalla lunga degenza spetterà alle nuove generazioni trovare la cura.

 

Leonardo Rosa

Leonardo Rosa (1994) si è laureato in filosofia prima a Trento e poi presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi principali settori di interesse sono la filosofia politica e il pensiero politico contemporaneo. Attualmente lavora come redattore e editor presso alcune case editrici. 

[Photo credit Aidan Bartos via Unsplash]

Individuo e collettività: storia e geografia di un ideale filosofico di vita

Oriente e Occidente sono una grande dicotomia. Al di là della geografia, una profonda faglia culturale li divide da migliaia di anni, a dispetto di alcune recenti tendenze omologanti che hanno perturbato il primo su imitazione del secondo. Nella Cina moderna, così come in Giappone, tanto per citare due paesi orientali competitivi in fatto di modernità, le persone si vestono perlopiù come noi occidentali. Bramano oggetti tecnologici e assecondano smanie consumistiche tanto quanto noi. Eppure, sul piano sociale una grossa differenza permane e per capirla occorre dare una rapida occhiata al momento forse più cruciale della separazione dei destini tra Oriente e Occidente: l’ascesa a potenza della Grecia e l’avvento della filosofia.

Insomma, un balzo di oltre 24 secoli che ci riporta a quando le gloriose gesta delle flotte navali delle città greche, numericamente inferiori ma unite nella causa comune contro lo straniero invasore, sconfissero, con perizia e fortuna, i Persiani.
Come afferma il saggista italo americano Federico Rampini1, la vittoria sui quei barbari plasmò l’immagine che i Greci ebbero di loro stessi nei confronti del mondo. La potenza avversaria era immensa, sostenuta da un dominio dispotico e compatto, a dispetto della Grecia, dove le città-stato erano gelose della propria autonomia ma libere di associarsi nel reciproco interesse.
E nel V secolo, mentre i Persiani perdevano, Socrate spargeva ad Atene i semi della filosofia, quella disciplina che, a differenza di tutto il sapere precedente, affidò poi alla scrittura la sua contagiosa potenza raziocinante.

La ragione come faro e la perenne lotta contro la natura per arginare il suo potere terrificante, sono la forza propulsiva dell’Occidente, con la sua attitudine predatoria, antagonista del caos e delle forze ctonie della Terra. La filosofia e la scienza diventano per l’Occidente le forme di sapere funzionali al potere, che attraverso l’uso disciplinato della ragione cercano di mettere in scacco le forze brute della natura, sancendo la divisione tra bene e male, civile e barbarico, dominio e sottomissione. L’emancipazione dall’animalità attraverso il sapere rappresenta la concreta possibilità che gli individui hanno di riscattarsi dall’essere meri funzionari della specie. La conoscenza illumina la via della libertà come promontorio accessibile all’individuo in virtù delle sue singolari qualità razionali. Nietzsche definisce questo percorso attraverso il concetto di apollineo. Apollo è l’immagine divina del principio di individuazione2. L’apollineo è la concretezza della persona occidentale, la sua emergenza, il suo possesso di libertà, diritti e massima espressione. L’individualismo di massa, per contro, è certamente il suo peccato originale.

E in questi due millenni e mezzo l’Oriente cos’è diventato?
La differenza cruciale, a noi più visibile in un momento in cui la nostra forza come massa appare insignificante di fronte all’urgenza di fare comunità e unirsi nella prudenza, è proprio la capacità stessa di sentirci collettività. Mentre qui a ovest scolpivamo i concetti di persona, coscienza, diritti e libertà, a est le culture religiose celavano il segreto dell’individualità cullandosi nella contemplazione del cosmo, nelle discipline custodi di potenze interagenti, complementari, negli equilibri con la natura, nel potere del silenzio e della meditazione. Non solo, oggi possiamo vedere come i governi più autoritari, forgiati da decenni di ideologie comuniste indubbiamente avverse all’individualità, possono contare su popolazioni educate al culto della collettività, la quale può anche schiacciare l’individuo e calpestarne certi diritti. Una volontà paternalistica decide tutto dall’alto, chiedendo obbedienza assoluta.

Dove non ci sono governi autoritari troviamo comunque democrazie compatte sul concetto di comunità, abituate dalla religione, come il confucianesimo, all’importanza della disciplina e della collettività. Chiaramente ci sono effetti collaterali anche qui: il potere dell’individuo di erigersi sopra gli altri si scontra su un soffitto neanche troppo di cristallo. Il limite è posto, in un caso, dal timore di leggi pericolose per la libertà e l’incolumità degli individui (come in Cina), nell’altro dallo stigma sociale che riceve chi si discosta dai modelli culturali imperanti – come in Giappone, dove la tutela dei diritti umani incontra ancora difficoltà in ambito di parità di genere, minoranza etniche, omosessualità e non solo.

Le religioni orientali offrono spunti di armonia preziosa per entrambi i mondi: lo Yin e lo Yang del buddismo, ad esempio, ci ricordano che maschile e femminile sono potenze interagenti, ma anche che l’apollineo non può celare il dionisiaco (il suo antagonista) troppo a lungo, poiché esso contiene le forze dirompenti della terra, la sua pretesa assoluta di dare la vita e poi riprendersela: l’eterno limite all’individualità tanto bramata da noi occidentali, insomma.
I diritti dell’individualità rimangono sacri, ma in un momento storico come questo, qui a ovest manca drammaticamente un senso di comunità e il culto sfrenato dell’individualismo non ci è di aiuto ora a tutelare il benessere collettivo.

 

Pamela Boldrin
NOTE:
1- Cfr. F. Rampini, Oriente e Occidente. Massa e individuo. Einaudi, 2020.
2- Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, opera del 1872.

(Immagine di copertina proveniente da Pixabay)

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“Il nichilismo europeo”, il frammento di Lenzerheide di Nietzsche

Per questa rubrica sulla riscoperta di un classico della filosofia ho pensato di analizzare il celebre Frammento di Lenzerheide in cui Nietzsche racchiude il fulcro della sua riflessione sul Nichilismo occidentale, ma anche il suo pensiero sull’eterno ritorno, la trasvalutazione dei valori e sull’Oltreuomo che inesorabilmente si collega a una presa di coscienza della condizione nichilistica dell’uomo. Lenzerheide è una località in cui il filosofo si recava spesso per riflettere e fare lunghe passeggiate; lo scritto che prenderò in analisi è una raccolta di brevi frammenti editi negli anni ’60 da Einaudi grazie all’attenta analisi filologica di Colli e Montinari.

Il filosofo si confronta con vari tipi di nichilismo e prende spunto per la sua riflessione dal nichilismo dei valori russo, dal nichilismo religioso e dal nichilismo del senso. Nietzsche si rende conto che oramai cercare una soluzione al nichilismo sembra essere anacronistico, perché la scienza e la presa di posizione dell’uomo nei confronti della natura e del sapere stesso lo ha messo di fronte al nichilismo stesso. Noi viviamo il nichilismo e l’uomo può solo accettare questa condizione e provare a farci conti e a tracciarne una genealogia.

Ma la domanda che il filosofo si pone è: l’uomo può riuscire ad accettare di essere frutto di una casualità, che la sua vita non abbia senso e può accettare di non avere un valore in quanto uomo?

L’indagine del frammento di Lenzerheide si apre con una analisi della morale cristiana occidentale, ragionando per idealtipi si potrebbe dire che l’uomo grazie alla morale cristiana e nella speranza di una vita futura ha dato valore alla sua stessa vita e ha accettato di credere in valori morali divini che segnavano un religamen con Dio.
Il gesto eroico di Nietzsche è nel far rendere consapevole l’uomo che quei valori che aveva creduto divini in realtà sono valori umani troppo umani che l’uomo ha creato per dare un senso, un orientamento alla sua vita rendendosi conto della sua condizione. La trasvalutazione dei valori è ammettere una nuova tavola di valori che si sanno essere umani, valori che si sanno soggettivi perché frutto di impulsi, passioni, desideri e ambizioni.

La morale non ha nulla in sé di oggettivo, ma solo di soggettivo e l’atto eroico dell’uomo sta nell’ammettere questo suo carattere e smascherarla dal suo carattere di veridicità che si è portato dietro per anni, e chi porrà valori nuovi sarà l’Oltreuomo. L’interpretazione dell’Oltreuomo per anni è stata oggetto di fraintendimenti dovuti ad interpretazioni filologiche non corrette e perché troppo spesso associata a teorie politiche successive. In realtà l’Oltreuomo è colui che accetta la condizione umana troppo umana dell’uomo priva di orientamento, è colui che porrà i valori nuovi sopracitati ed è colui che saprà affrontare l’Eterno Ritorno dell’uguale.

La concezione di tempo nietzschiana è sostanzialmente diversa da quella cristiana che prevede una progressione, si potrebbe assimilare ad una retta in cui individueremmo un prima, un ora, un sarà. Quello che invece il nostro filosofo ci prospetta è una visione circolare del tempo, un tempo che non ha fine, non è direzionato e si rinchiude in sé stesso facendo coincidere ogni inizio con la medesima fine.

Come penserebbe il Superuomo l’Eterno Ritorno?

Questa è la domanda con cui si conclude la dissertazione del frammento in analisi; è difficile pensare che esista un uomo che si prenda la responsabilità di sperimentare, vivere ed accettare l’insensatezza della vita giorno dopo giorno. Eppure questo uomo deve volere l’insensatezza della vita, deve volere una nuova tavola di valori. Qui entra in gioco il concetto di Volontà di Potenza che sembra per certi versi essere un fine o l’unico valore incontrovertibile a cui si possa fare affidamento. Ma dichiarare un fine non sembra essere in contrasto con il pensiero di Nietzsche?

È una domanda a cui spesso si è cercato risposta, ma risulta difficile darne una certa.
Ciò che resta è l’eroica riflessione di un filosofo che rompe gli schemi con la metafisica precedente ed è capostipite della Storia della filosofia contemporanea come dirà Heidegger nelle sue celebri lezioni degli anni ’40; Nietzsche ci prospetta un nuovo scenario d’azione dell’uomo e mette l’uomo al centro del suo universo. L’uomo vuole il volere, l’uomo è artefice di sé stesso, l’uomo è libero e consapevole della sua condizione. L’uomo trova la sua forza nell’accettare la sua indeterminatezza: è questo il messaggio che spaventa, ma che fornisce un nuovo motivo di speranza all’uomo nelle sue capacità.

 

Francesca Peluso

 

[Photo credit Breno Machado via Unsplash]

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Bataille e la perdita sacra: quel che l’Occidente ha dimenticato

Secondo Bataille, la continuità tra gli esseri si rivela nella dissoluzione. Nel momento in cui i confini cedono, le essenze, che sono verità, finiscono condivise tra tutte le cose.
Stiamo qui concependo l’ostilità tra conservazione e perdita. La conservazione è l’atto che confina ed è indispensabile all’esistenza. Per esistere occorrono infatti dei riferimenti chiari e utili che permettano di agire e comunicare. Si presentano sotto la forma di nomi, di conclusioni, di direzioni, di sintesi che permettono alla coscienza di proiettarsi positivamente nel suo futuro. La perdita è invece tutto ciò che vorrebbero evitare. La perdita è infatti scioglimento di questi riferimenti, è critica e berlina dei nomi. Perdere qualcosa significa perdere una possibilità per finire trascinati di fronte alla possibilità di creare possibilità. Ma è qui che si rivela la fecondità della dissoluzione.

L’opposizione tra conservazione e perdita è la medesima che intercorre tra risparmio e dispendio. La conservazione isola, crea discontinuità. La perdita invece rimette le cose alla continuità dell’Essere. Quando perdo qualcosa impatto con l’inesorabilità del divenire. Devo allora invertire il senso che accordo alle cose: la pretesa di renderle uniche è illusoria perché esse dilagano le une nelle altre non appena distolgo lo sguardo. L’ampiezza di questa marea mi sovrasta e io incontro il sacro. Ma lo incontro in doppia forma: prima come nuova casa di quel che ho perso e poi come anticipazione di quel che un giorno anche io abiterò.

Il sacro è staccato dalla mia esperienza, sebbene coinvolga eternamente me e insieme qualsiasi altro atomo. Ad esso accedo tramite una porta, che in questo caso si materializza nel vuoto lasciato dalla cosa perduta. A tal proposito Bataille rammenta il sacrificio umano: notando che “sacrificare” significa “rendere sacro”, egli indica nel corpo dilaniato il crollo dei confini, la distribuzione dell’essenza e la manifestazione della continuità. Il sacrificio è per lui il tentativo umano di aprire una porta di comunicazione tra i due mondi, quello della conservazione e quello della perdita. Non si manifesta però solamente nell’uccisione di un vivente: si manifesta anche nella dissipazione, in quei momenti, per esempio, in cui i sovrani di civiltà passate scialacquavano le loro ricchezze per il popolo. Il minimo comune denominatore è l’apertura dell’involucro. La cosa inscatolata, conservata, accumulata, viene riaperta all’esteriore e assolta in una fine gloriosa che ha tutto lo splendore dell’alba.

Questo tipo di sacrificio è, per Bataille, uno spreco. L’essere umano, quando spreca, si avvicina a Dio. Lo spreco, la perdita, il consumo, in quanto sacrifici improduttivi (ci lasciano solo un vuoto), accennano all’eternità. Ma che dire del nostro tempo? Tutte queste parole – spreco, consumo ecc – richiamano infatti la nostra economia. Forse non è mai esistita una società più sprecona della nostra; ma allora possiamo dire che siamo una società sulle soglie del sacro?

In realtà oggi si guarda con orrore alla perdita improduttiva. Anzitutto il consumo di cui siamo fautori produce guadagni per qualcuno. Noi poi lo inseguiamo per impinguire il nostro benessere, non per rinunciarvi. Persino gli eventi sociali che più di tutti dovrebbero sprecarsi (arte, feste, guerre) sono invece commissionati, vincolati, parsimoniosi. Gli stessi ricchi del mondo – possessori di ciò che potrebbe essere dilapidato – accumulano capitale senza farlo muovere.

Se dunque un tempo lo spreco non temeva né la morte né l’immortalità, oggi è tenuto sotto stretta osservazione affinché non si sprechi nulla. Tutto è consumato in nome del profitto e nessun destino può essere inutile. La natura diventa una risorsa, gli animali un prodotto, la ricchezza un trofeo che consente di elevarsi sopra gli altri esseri umani. Il consumo è un guadagno personale, non una distribuzione collettiva.

Questo modo di orientare la consumazione produce ovunque una morte che di sacro non ha nulla. In questo senso credo che l’Occidente sia la bugia del mondo. Esso elude la continuità tra le cose perché non questiona il suo benessere. Dalla perdita agita in pubblico che svegliava le coscienze, si è infine passati a una perdita calcolata mentre dorme chi dovrebbe guardare.

Esistono soluzioni? La più diretta sarebbe un boicottaggio diretto contro i responsabili di questa trasformazione: noi stessi e le compagnie. Si deve cambiare paradigma, rivoluzionare i sentieri, costringere all’etica. Ma gradualmente si può fare altro: 1) il riciclo; si utilizza continuamente la stessa materia e si evita così di consumare ulteriormente altra natura e altra umanità; 2) il dono; l’elargizione gratuita dell’eccedente a chi ne ha bisogno affinché ritrovi la propria autonomia. Queste due soluzioni ristabiliscono il senso antico della perdita: la solidarietà tra effimeri, il sacro e il senso dell’eterno.

 

Leonardo Albano

 

[Photo credit Joshua Eckstein su unsplash.com]

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Il capitalismo nato dalla religione

Quando pensiamo al capitalismo volgiamo lo sguardo sempre all’altro, alla nuova moda, ai nuovi influencer, ai grossi imprenditori, ai finanzieri di Wall Street. È una tensione sempre volta all’esterno, così da potersi sottrarre dal giudizio, individuando le cause ad un passato fatto di scelte sbagliate e dunque non dipendenti da noi, e a un futuro incerto come effetto.
C’è il comunista con il rolex e il libertario con il pugno chiuso. Tutte sfaccettature di una spinta discriminatoria verso l’esterno, ad un nemico immaginario e per questo collettivo.
Ci fu però un pensatore che volle indagarne le cause e i susseguenti effetti senza giudizi di valore o schemi precostituiti, unificando metodo scientifico e indagine sociologica. Un pensatore che vide la causa del capitalismo non tanto nell’esteriorità tra individui o in forze occulte capitanate da élite sconosciute, ma dalla spinta introspettiva degli stessi componenti, cioè noi, alla cui radice fu presente la religione. Max Weber rappresentò tutto questo.

Lo studioso tedesco influenzò più di tutti la sociologia del XX secolo: i suoi studi riguardarono molteplici aspetti della realtà, tra cui uno dei più centrali come l’economia in rapporto alla storia e alle persone. Un’analisi che voleva intrecciarsi tra le caratteristiche essenziali, l’origine e il destino della civiltà occidentale moderna, il cui perno risiedeva come oggi nel capitalismo. Capire cosa fosse, significava comprendere la civiltà europea.

Il punto di partenza è costituito dalla definizione dell’agire economico, come lo stesso Weber scrive nel Osservazione preliminare del saggio l’etica protestante e lo spirito del capitalismo: “un atto che si basa sull’aspettativa di guadagno derivante dallo sfruttare abilmente le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno fortemente pacifiche” 1.

Esso non è uguale dunque al semplice desiderio di accumulare denaro e non è eguale alla rapina, ma al guadagno pacifico e disciplinato razionalmente verso l’aumento del capitale, tutto utilizzando le congiunture dello scambio. C’è alla base un’organizzazione razionale del lavoro fortemente libero in quanto pagato, fino alla costruzione di un sistema di imprese collegate fra loro attraverso il mercato. La società diventa capitalistica quando la soddisfazione dei bisogni privati avviene tramite le merci che le stesse imprese producono, come avviene ora.
Inoltre, la dimensione morale dello sfruttamento che verrà sottolineata da Marx è completamente nulla. Questo perché lo stesso Weber sottolinea come l’analisi dello sfruttamento sia un aspetto, indagare invece sulla razionalità formale del calcolo economico un altro.

La presenza dunque del lavoro libero, l’agire razionale rispetto ad uno scopo, la divisione fra famiglia ed impresa e lo sviluppo del diritto, permisero che la cultura capitalistica da lui chiamata “spirito”, sia stata in grado di espandersi nella sua particolare e accettata forma, costituendo una nuova società.

Ma dove risiede l’origine di tutto ciò? La risposta di Weber risiede nell’etica protestante dopo la riforma di Lutero del 1517.

Il protestantesimo pose l’accento sull’individuo come interprete diretto della parola di Dio. Un individualismo che per alcuni pensatori era all’origine della cultura occidentale.
Ma per Weber la strada era un’altra: l’enfasi particolare sulla vita mondana e la sua rivalutazione nei compiti. Infatti, il volere divino di tipo protestante a differenza del cattolicesimo accolse il carattere di imperscrutabilità e della totale indipendenza dalle azioni degli uomini. Il singolo credente non ha alcun potere sulla propria salvazione, e l’unica cosa che può fare è occuparsi del mondo come creazione di Dio, vietandosi ogni indulgenza nei confronti del piacere. Ciò ebbe ricadute psicologiche rilevanti.
Il risultato è una vita metodica con il lavoro, come glorificazione del Signore e strumento per evitare le tentazioni. Weber la chiama “l’ascesi intramondana” ovvero la rinuncia al godimento del mondo e propria presenza attiva nel creato tramite il lavoro.
In tal senso, soprattutto nella cultura calvinista, permetteva che il capitale detto da Karl Marx il surplus derivante dall’attività economica non fosse sperperato, ma piuttosto reinvestito per una maggiore produzione. Il fine non risiedeva dunque nel consumo, ma nella crescita sistematica della stessa ricchezza. Per ingordigia? No, per amore di Dio e della vita eterna. Sembra quasi un paradosso.

Eppure, a ben guardare le cose sono diverse.
Oggi non penseremo mai a tali meccanismi, non volgiamo la nostra attenzione sul profitto ma sul bene di consumo. Non vediamo redenzione ma solo tentazione. Ci sembra paradossale e lo stesso Weber lo ammette. Nell’Etica protestante scrisse:

«Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via (…), la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli eletti. Ma il destino ha fatto del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia. Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre, da questa gabbia» 2.

Una volta avviato, il capitalismo procede meccanicamente, quasi per forza di inerzia come una sorta di valanga – non dimentichiamo che nasce dall’agire razionale e una cosa razionale se funziona si trasforma in macchina pur di avanzare. Chi nasce al suo interno – come tutti noi – vi si trova inserito come in un mondo naturale, e per questo il male ci appare all’esterno.
Si vengono a perdere i propri fondamenti culturali, come se la modernità capitalistica distruggesse le forze che hanno contribuito a farla nascere.

C’è soluzione? Per il pensatore forse si, forse no; non gli importava. Il suo metodo d’indagine che lo fece penetrare così affondo nella società dell’epoca non comprendeva valori morali o soluzioni alternative, ma l’accettazione del mondo così com’era tramite un metodo d’indagine avalutativo. Poteva così indagare senza pregiudizi, in modo oggettivo in una scienza come la sociologia, che poco ha di distaccato rispetto al mondo, perché in società tutti ci viviamo e ne siamo modificati psicologicamente.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE

1. M. Weber, Etica protestante e la nascita del capitalismo, 1905, p. 67.
2. Ivi, p. 305

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Equilibrio tra idee e corpo: Giangiorgio Pasqualotto sulle filosofie d’Oriente

Mi sono avvicinata al mondo orientale nel modo più classico con cui lo può fare un ragazzino occidentale: tramite i manga e quelli che qui, in modo quasi sprezzante, chiamiamo ancora “cartoni animati”. Eppure, anche da quelle finestre colorate, chiassose e un po’ assurde, filtra chiaramente qualcosa di quella società per molti versi affascinante che è il Giappone. Crescendo mi sono accorta di quale buco ci sia nell’istruzione e nella cultura italiana (ma oserei dire occidentale) sul mondo orientale: dal salto in lungo sul capitolo di storia dedicato alla formazione dell’Islam e all’espansione araba nel VII secolo, sino alla comparsa delle massime di Confucio esclusivamente all’interno dei Baci Perugina. Eppure un confronto curioso e aperto con pensieri e forma mentis diverse a noi occidentali (oggi forse più che mai) farebbe più che bene.

Sono cresciuta e ho studiato architettura e arte, altre discipline in cui s’ignora ciò che sta dall’altra parte del mondo (ma anche sotto di noi). Ho voluto scoprire davvero che cos’è questo zen con cui tutti si riempiono la bocca e così, incrociando l’arte e la filosofia, sono arrivata ai testi del professor Giangiorgio Pasqualotto, esperto di filosofie orientali e per molti anni docente di Estetica e Filosofia delle culture presso l’Università degli Studi di Padova. È stato un grande onore poterlo intervistare e poter accogliere un suo scritto all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello: in questo numero volevamo indagare non tanto il significato di bello quanto piuttosto le esperienze che facciamo della bellezza, vagliare il suo carattere esperienziale e generativo. Nella risposta dell’estetica giapponese, raccontata dal professore, ho trovato lo spunto più interessante e profondo di questa nostra ricerca.

 

Professore, molti dei suoi libri si propongono come strumenti e invito ad avvicinare culture diverse: basti pensare a Per una filosofia interculturale (Mimesis 2008) o il più recente Alfabeto filosofico (Marsilio 2018), che racconta alcuni concetti filosofici chiave spiegandoli da entrambe le prospettive. Per quale motivo ritiene urgente questa comparazione tra mondo occidentale e mondo orientale e che cosa s’intende per filosofia interculturale?

L’urgenza è data dal fatto che ormai va considerata conclusa l’epoca del predominio assoluto delle culture occidentali, anche perché non possono più vantare primati e monopoli in settori cruciali come quelli delle tecnologie avanzate e degli investimenti finanziari internazionali. Di qui la necessità di conoscere e di confrontarsi con principi e valori diversi da quelli che hanno sostenuto per secoli le culture occidentali. Se questa necessità non viene riconosciuta, l’alternativa sarà fatta di nuovi conflitti, probabilmente assai peggiori di quelli finora sperimentati.

A partire da tali constatazioni, le filosofie occidentali devono innanzitutto cominciare a conoscere approfonditamente quelle orientali; in secondo luogo devono confrontarsi con esse senza pregiudizi, ossia senza più considerarsi superiori, ma aprendo un dialogo costante sui temi cruciali dell’esistenza umana e delle condizioni ambientali che la rendono possibile. Questo dialogo non dovrà limitarsi ad un semplice scambio di opinioni, ma dovrà porsi come un dialogo radicale, ‘socratico’ o – come l’ha denominato Ramon Panikkar – ‘dialogale’, dove nessuno degli interlocutori pretende di possedere, a priori, la Verità. In tal senso l’orizzonte della filosofa interculturale non coincide con la prospettiva della filosofia comparata, ma la include come momento e strumento preliminare.

 

La sua formazione e il principio della sua vita accademica l’hanno vista impegnata nello studio e approfondimento dei filosofi della Scuola di Francoforte e di Nietzsche. Che cosa l’ha portata da questo alla filosofia orientale?

Durante gli anni ’80 del secolo scorso mi sono convinto che oltre le ‘vette’ – tra loro assai diverse, quasi opposte – raggiunte da Hegel e da Nietzsche, la moderna filosofia occidentale non esprimeva più alcunché di originale. Non solo: anche quando essa ha tentato di farlo, è sempre rimasta a livelli esclusivamente intellettuali. Per un po’ di tempo, quindi, ho smesso di occuparmi di filosofia europea, ed ho cominciato ad esplorare più a fondo due filoni del pensiero orientale che avevo conosciuto superficialmente e frammentariamente: il taoismo filosofico (Dàojiā, 道家) e il Buddhismo in alcune sue fondamentali espressioni: la Scuola Theravāda e le Scuole zen (Rinzai e Sōtō). L’intento principale era quello di scoprire come pensieri astratti possano avere consistenza e significato in relazione a fattori corporei elementari come, per esempio, l’attenzione alla respirazione richiesta in ogni forma di meditazione. Ho potuto verificare come questo intreccio fecondo tra pensiero e corpo, tra riflessione ed azione sia il punto di riferimento basilare di molte pratiche artistiche (ed artigianali) presenti nella cultura giapponese: della calligrafia (shodō), del tiro con l’arco (kyudo), della poesia haiku, della ceramica raku, del bonsai, dell’ikebana, dei giardini secchi (karesansui), del teatro Nō, dell’architettura tradizionale, ecc.

 

Da studiosa di arte ho letto con molto interesse i suoi studi nel campo dell’estetica, soprattutto orientale, che ha anche gentilmente raccontato nel suo contributo per la nostra rivista La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello. In un mondo sempre più globalizzato, ritiene possibile il mantenimento di una fruizione del bello così personale ed “esistenziale” come da tradizione (nello specifico) giapponese?

Non solo penso che sia possibile, ma ritengo che sia necessario, proprio per resistere e sopravvivere alle spinte sempre più violente verso ogni tipo di omologazione. Il problema sta nel fatto che tali spinte sono talmente forti e pervasive che tentano di appropriarsi anche dei prodotti creati sulla base delle tradizioni spirituali d’Oriente, e cercano con ogni mezzo di trasformarli in oggetti di consumo di massa. Il grave è che, in questa trasformazione mercantile, opere e manufatti perdono il loro ancoraggio ai pensieri ed alle discipline da cui e per cui sono nati: in tal modo diventano oggetti senza radici, alla pari di una basilica di S. Pietro in miniatura usata come fermacarte, o degli affreschi della Cappella Sistina usati come sfondo di una palla di vetro con neve finta.

 

L’uomo occidentale sembra apparentemente volersi avvicinare sempre di più alle tradizioni orientali, a volte tuttavia scivolando in pratiche definite “New Age” che sembrano banalizzare il senso profondo con il quale nascono: dallo yoga per bambini al proliferare dei mandala da colorare fino ai manuali per il riordino; in generale si percepisce un certo abuso del termine zen, associata ad un’infinità di cose diverse e a volte poco attinenti (persino una linea di vestiti per la pratica dello yoga ad esempio). Secondo lei a cosa è dovuta questa tensione spasmodica all’orientalismo?

È vero, diverse suggestioni orientali condizionano oggi molti aspetti delle mode occidentali (dai cibi agli abiti, dall’arredamento all’oggettistica); ma questo, in qualche misura, è sempre accaduto: basti pensare alle suggestioni indiane e cinesi nella Francia e nell’Inghilterra del XVIII secolo, o a quelle giapponesi nella Francia di fine ’800. Del resto, in tempi e per aspetti diversi, è accaduto anche il contrario con l’influsso dell’Occidente nei paesi orientali: basti pensare all’introduzione del cemento armato in tradizioni architettoniche abituate all’uso quasi esclusivo del legno, in particolare del bambù; o ai modi occidentali di vestire, di costruire macchine e meccanismi elettronici. Senza parlare degli influssi occidentali più macroscopici come l’economia capitalistica, il parlamentarismo e il socialismo. Questi fenomeni di influsso reciproco costituiscono la normalità dei rapporti tra culture diverse: nessuna cultura si è mai sviluppata allo stato puro, senza contaminarsi. Certo, le semplificazioni alla New Age possono far sorridere o anche irritare. Ma è anche probabile che, tra migliaia di individui ipnotizzati dal suono di un mantra o dalla visione di un mandala, ci sia più di uno che comincia ad approfondire i loro significati e le loro funzioni, scoprendo le straordinarie visioni del mondo da cui provengono.

 

Parallelamente uno studio serio e approfondito (anche all’interno delle università) della cultura orientale non sembra particolarmente incoraggiato e ogni tipo di ricerca e di sapere ha il suo perno nel mondo occidentale. Riterrebbe utile che nelle varie facoltà fosse inserito come obbligatorio l’insegnamento della cultura orientale? Intendo letteratura indiana/cinese/giapponese/coreana per le facoltà di lettere, arte indiana/cinese/giapponese/coreana per i beni culturali e così via.

Questo è un problema assai complesso. Lo studio di un argomento a livello universitario comporta lo specialismo. Quindi, ad esempio, lo studio della filosofia indiana o cinese comporta, prima di tutto, lo studio delle lingue in cui sono state scritte le opere di quelle filosofie. Quindi, concretamente, in un Dipartimento di studi filosofici non si potrebbe rendere obbligatoria la conoscenza delle filosofie orientali senza rendere nel contempo obbligatoria la conoscenza delle lingue orientali corrispondenti. Ciò detto, va però denunciato il fatto che, per esempio, negli insegnamenti universitari di Storia della filosofia non si fa mai nemmeno cenno all’esistenza di pensatori indiani o cinesi, con il presupposto e nella presunzione che la storia della filosofia sia soltanto storia della filosofia occidentale. Lo stesso vale per la storia delle letterature occidentali: per esempio, quando si parla di letteratura medievale, non si ricorda, nemmeno a titolo informativo, che uno dei capolavori della letteratura mondiale, Genji monogatari, è stato scritto in Giappone da una donna, Murasaki Shikibu, all’inizio dell’XI secolo.

 

Il buddismo ha tra i suoi fondamenti il concetto di vacuità. Che significato può assumere e quale prospettiva può dare questa visione all’interno della cultura odierna basata invece sull’abbondanza?

Il termine ‘vuoto’ traduce in realtà il termine buddhista anattā che significa letteralmente ‘non sé’, ovvero “privo di autosufficienza”. Quindi quando nel Dhammapada si trova scritto “tutte le realtà sono vuote” ciò significa che nessuna realtà può esistere in modo isolato. Questo significato fondamentale si conserva anche nel buddhismo più tardo (buddhismo Mahāyāna) che usa i termini śūnya (vuoto) e śūnya(vacuità). Pertanto il ‘vuoto’ buddhista non indica il nulla o l’assenza di tutto, ma la relatività di ogni cosa, nel senso che ogni cosa, per esistere, ha bisogno di qualcos’altro di diverso da sé. L’interesse che tale idea può avere per noi oggi è dato dal fatto che stiamo da tempo verificando i disastri umani ed ambientali a cui conducono visioni del mondo fondate su idee opposte a questa, come quelle di ‘identità’, ‘purezza’, ‘autonomia’, ‘divisione’, ‘separazione’ che sono tutte – in modo più o meno consapevole – alla base di ogni sorta di conflitto, da quelli di carattere personale a quelli di natura sociale e politica.

 

In uno dei suoi ultimi libri ha avuto modo di spiegare come ci siano delle somiglianze molto evidenti tra il metodo socratico e quello utilizzato dai maestri zen. In cosa consiste questo interessante parallelismo tra due giganti del pensiero geograficamente molto distanti?

La somiglianza consiste nel valorizzare al massimo l’idea del “sapere di non sapere”, ovvero un atteggiamento critico e non dogmatico nei confronti di ogni verità. Socrate ha insegnato questo mediante il suo incessante porre domande; i Maestri delle tradizioni zen mediante l’uso di paradossi linguistici (kōan) e di comportamenti paradossali.

 

In che modo secondo lei la filosofia può avvicinarsi e mostrare la sua decisiva importanza per la vita quotidiana di ciascuno di noi e della collettività? Ritiene che le discipline orientali siano state in grado di mantenere con più evidenza questa aderenza alla vita quotidiana?

La filosofia occidentale dovrebbe ritrovare l’equilibrio tra le idee e il corpo, tra il pensare e l’agire ritornando alle proprie radici greche, in particolare a quelle di Eraclito e di Epicuro. Questa direzione, nell’Europa contemporanea, è stata indicata con forza da Nietzsche, ma la sua è rimasta una testimonianza drammaticamente fallita.

Non c’è dubbio che in Oriente questo equilibrio è invece perdurato a lungo ed è ancora presente, anche se appare sempre più minacciato da alcuni modelli di pensiero e di azione importati dall’Occidente. E’ tuttavia da precisare che si è sviluppato (e si sta ancora sviluppando) un movimento in senso contrario, ossia un diffuso influsso di conoscenze e di pratiche orientali nelle culture occidentali (ovviamente con i rischi di superficialità e di commercializzazione che comportano simili trasposizioni).

 

La domanda forse più difficile di tutte: che significato ha per lei il termine filosofia, detto in due parole?

Esercizio critico ed autocritico della ragione.

 

 

Non posso che ringraziare di cuore il professore per il suo tempo e gli interessanti spunti di riflessione offerti.

Giorgia Favero

 

[Il ritratto in copertina è stato fornito dall’intervistato]

Odia il prossimo tuo come te stesso

Qualcosa sta cambiando nel mondo. Serpeggiano venti strani che ci spingono sempre di più a guardarci con diffidenza. La tesi che sosterrò in questo articolo è che abbiamo iniziato ad odiare molto di più gli altri nella misura in cui odiamo noi stessi.

Del resto risulterebbe altrimenti inspiegabile l’accanimento che stiamo riversando costantemente verso quattro (proporzionalmente sono pochi, andate a guardarvi le statistiche) disperati che decidono di salire sui barconi mettendo in gioco le loro vite, e poco cambia che siano migranti economici o rifugiati: da qualcosa scappano.

L’argomento che mi interessa veramente affrontare è perché noi scappiamo da noi stessi. Scappiamo da ogni legame di fratellanza o di vicinanza verso la nostra stessa specie, indulgiamo di più nel mettere il cappotto al cane, magari pure di marca, al posto di metterlo a un nostro simile, che è simile in tutto: organi interni, dentatura, sguardo, labbra, mani, ogni tanto differisce solo per il colore della pelle, ma credo che lì sia solo una questione di melanina.

Riusciamo a dare amore incondizionato ai nostri “simili” o a ciò che percepiamo come tali, compresi i nostri affetti animali, che comprendo, ma non giustifico. Avendo due gatti capisco bene che ci si possa pure affezionare, ma ciò non giustifica un dato fortemente inquietante: stiamo forse diventando tutti schizofrenici? Credo e spero proprio di no, considerato che la matrice della schizofrenia (dal greco schizein σχίζειν, “dividere” e phrēn φρήν, genitivo φρενός, “mente”) è sostanzialmente una «dissociazione come limitazione, distorsione o perdita dei comuni nessi associativi nello svolgimento logico del pensiero»1 che riguarda anche il comportamento verso gli altri. Il punto vero è che ormai tale dissociazione rischia di insinuarsi nel nostro selettivo modo di essere, cioè nella capacità di riconoscere anche i nostri simili come tali e noi come specie.

Come siamo arrivati a questo punto?

Come abbiamo potuto, nonostante le nostre radici cristiane, dimenticarci di noi stessi?

L’Europa cristiana che vorremmo contrapporre ad altri modelli si basa sul Vangelo, cioè un racconto dove si intrecciano volti, storie, la potenza e la fragilità degli incontri. C’è un luogo che Gesù predilige per i suoi incontri: la tavola. Vi si siede insieme con le persone più diverse, con puri e impuri, con amici e perfino con gli avversari. Ed è in quegli incontri nelle case, intorno al cibo e al vino, che Gesù propone sogni di futuro, immagini di Dio e di un mondo nuovo dove l’umanità sia più forte e numerosa che in qualsiasi altro luogo.

Se apriste il Vangelo invece di giurarci sopra vi accorgereste che la tavola non è per l’alimentazione, ma per la condivisione, quella vera. L’evangelizzazione stessa passa da quello strumento lì: la convivialità, lo stare insieme, il sedersi gli uni accanto agli altri. Secondo qualche autore il 50% del Vangelo di Luca si svolge intorno alla tavola (così sostiene J. Tolentino Mendonça2). La tavola in questo caso non è solo luogo di approvvigionamento di sostanze nutritive, ma luogo privilegiato per gli incontri, incontri che hanno il sapore buono dell’amicizia.

Seduti alla stessa tavola noi ci nutriamo di cibo, ma soprattutto ci alimentiamo gli uni gli altri, della presenza degli altri. La tavola comune è una invenzione antropologica fondamentale che ha come obiettivo le relazioni, non la nutrizione, il dare spazio a quegli incontri che costruiscono la nostra identità. Tutti abbiamo bisogno di essere curati e custoditi nelle nostre differenze, ma senza la relazione con l’altro da noi non abbiamo speranza salvo la prigionia inarrestabile delle nostre convinzioni. Senza turbamento non sussiste nemmeno il concetto stesso di normalità. Senza dialettica, senza confronto, non esiste il movimento: tutto resta fermo, statico e inerte.

Alla fine resteremo soli, carichi delle nostre invidie, in un mondo che diventerà sempre più piccolo − e forse meno significante, più semplice − ma meno stimolante.

Odiamo il prossimo ma dimentichiamo che l’amicizia di Gesù è quella che accoglie tutti prima della loro stessa conversione; un modo di essere che non cerca seguaci, ma gente che stia con lui. Forse qualcuno si convertirà, forse nessuno. Ma Gesù non fa calcoli di questo genere. Il suo sguardo non si posa sulla dignità o meno delle persone, sulla loro fedina penale, sulla purezza rituale, sul colore della loro pelle. La forza dell’Occidente e delle sue origini cristiane è quella di scavalcare le norme e le clausole acquisite, raggiungendo davvero l’essenza della “creatura”, del suo bisogno e della sua povertà, della sua strutturale imperfezione.

La forza dell’Occidente è che non si avvicina alle persone con una griglia di classificazioni morali ma offre un’amicizia che abbraccia l’imperfezione; mostra il suo bisogno nativo, divino, di abbracciare l’imperfezione di questa esistenza.

L’amore è esigente, bruciante; l’amicizia è benevola e indulgente. E poter tornare a parlare di amicizia tra i popoli al posto dell’odio imperante di questi tempi ha un vantaggio enorme; amore e passione di unirsi, irruenza di fusione. L’amicizia cammina per la via umile della gratuità, abbraccia l’imperfezione, prende tempo, ammette che un rapporto possa essere strutturalmente imperfetto. La vita è così: una relazione con l’Altro da noi reale e imperfetto.

Una delle particolarità del Vangelo di Luca è di raccontarci ben tre incontri di Gesù ospite alla tavola dei farisei: «Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola.» (7,36); «Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola.» (11,37); «Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.» (14,1).

Tutto parte da un invito, da un gesto di rispetto, di attenzione, forse nei confronti del giovane rabbi o forse nel riconoscimento che tutti siamo stati bambini, che tutti in un certo modo siamo uguali e viviamo e conviviamo ogni giorno con le nostre imperfezioni. Odiamo gli altri perché sono poveri, miserabili, fragili senza accorgerci che odiamo in loro esattamente quello che siamo noi stessi. Odiamo noi stessi come odiamo gli altri.

 

Matteo Montagner

 

NOTE
1. U. Galimberti, Dizionario di Psicologia, UTET, Torino, 2008, p. 835.
2. José Tolentino Calaça de Mendonça è un arcivescovo cattolico, teologo e poeta portoghese; dal 26 giugno 2018 arcivescovo titolare di Suava.

[Credit Tobi Oluremi]

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