Ritornare a casa

Agosto è il mese per eccellenza delle ferie del periodo estivo, proprio in questi giorni vi state forse apprestando a fare rientro a casa. Casa, un termine inflazionato, che fa parte in maniera intuitiva della vita di tutti i giorni, così dato per scontato e tutto sommato banale da rendere ogni spiegazione ulteriore superflua.

L’Italia è un Paese fortemente legato alla dimensione abitativa, siamo infatti tra i maggiori possessori di casa in Europa, se pensiamo anche al linguaggio comune “la casa” è quasi sempre presentata preceduta da un articolo determinativo a sottolineare l’importanza di questa dimensione di affetti, in tanti altri paesi invece non c’è un legame affettivo con appunto “una” casa.

Ma da dove viene questo termine?

Partiamo dall’inizio, il prefisso bet in ebraico significa casa, come la seconda lettera dell’alfabeto. La sua forma grafica (ב) suggerisce intuitivamente la dimensione di un riparo chiuso su tre lati, ma con lato aperto, cioè la porta che si apre sul mondo e mette quello spazio chiuso in relazione con l’esterno. La casa ha due funzioni: accogliere e custodire. C’è chi come Annik De Souze si è spinto a dire che la casa è in un qualche modo “simbolo del femminile”. La casa è quindi strutturalmente aperta a una relazione con il mondo, come del resto la lettera bet ha un lato aperto che mette in contatto il dentro e il fuori, come una soglia da varcare, un andare e venire. E così dovrebbe essere la casa, non un luogo in cui ci si esclude dal mondo e dalla vita, ma un posto sicuro e amorevole dove si elabora una esistenza piena e ricca nella relazione tra sé e gli altri. Quella quarta parete aperta sembra, come canta una celebre canzone, il “cielo in una stanza”. Non si può abitare creativamente il mondo se non sei ben inserito nel cortile di casa e, al tempo stesso, non mantieni le porte e le finestre aperte ai grandi cambiamenti della vita collettiva.

Casa nel linguaggio biblico ha un doppio significato: indica l’edificio dove si abita e l’insieme delle persone che lo abitano, quindi la comunità di riferimento. Il Profeta Natan dice a Re Davide che non sarà lui a costruire una casa al Signore, ma sarà il Signore che gli farà una casa, generazione dopo generazione (2 Sam 7).

L’idea che sottende il testo biblico è quella non solo di far crescere demograficamente un determinato gruppo umano, al fine di garantirsi al suo interno protezione e mutuo soccorso, ma anche per fare “casa” insieme, cioè abitare la vita insieme, per “stare con” all’interno di una comunità. Stare con la persona amata o con l’amico sono esperienze che da sole dovrebbero bastare a riscattare le giornate più negative, i momenti vuoti o portatori di amarezze. La cultura giudaico-cristiana, dalla quale tutto il mondo occidentale è fortemente influenzato, è impregnata da questa dimensione abitativa della casa e quindi se pensiamo al prefisso ebraico che significa “casa” abbiamo: Betsaida (“casa della pesca”), Betlemme (“casa del pane”), Betania (“casa di povertà o di afflizione”), Betfage (casa dei fichi).

Questo motivo ritorna anche nel Nuovo Testamento: «ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,14-15), ma solo dopo l’esperienza di aver fatto casa insieme, dopo la costruzione di legami che sono l’essenza della natura umana, e quindi i discepoli sono mandati a predicare senza beni materiali, ma non senza dei compagni. La casa come forza della comunità è quel bastone per appoggiarvi la stanchezza dell’esistenza, un amico per trovare conforto ai propri sentimenti quando si è troppo gravati da esperienze traumatiche o che ci hanno ferito, quindi non solo casa come infrastruttura materiale, ma casa come comunità di mutuo soccorso e reciproco aiuto.

Infatti si fa riferimento alla “casa comune” quando si vuole rappresentare una città, una regione o l’intera nazione, ma anche il proprio quartiere, la strada o anche solo il condominio in cui si abita.

Aprire la propria casa a qualcuno, accoglierlo, significa farlo entrare nella dimensione di coloro che sono stati con noi, in quella casa senza pareti che è la dimensione dell’esperienza e della vita. Abilitiamo qualcuno facendolo accedere al luogo dove passiamo gran parte del nostro tempo, dove dormiamo, dove abbiamo condiviso gioie e dolori, lacrime e abbracci, che forse non corrisponde sempre alle nostre aspettative, ma comunque ci stima o ci ama molto se ha deciso di seguirci fino a quella soglia.

La nostra epoca ha finito per dimenticare da dove vengono le sue parole finendo per usarle in maniera confusa, abbiamo ridotto la dimensione della casa a qualcosa di relegato al mercato immobiliare, quasi sempre se una persona giovane pensa a casa pensa a come potersela permettere, pensa a come accedere ad un mutuo, non pensa a una dimensione di comunità e di solidarietà tra pari.

Confido invece che riscoprire le nostre parole, le parole da cui veniamo, con un metodo genealogico che ci ha ben indicato Nietzsche, ci aiuti anche a essere più consapevoli di noi stessi, di questa esperienza che chiamiamo vita, e magari aver riscoperto il concetto di “casa” ci aiuterà un po’ a fare rientro dalle ferie pensando che le relazioni e i legami che abbiamo stretto durante queste vacanze estive vengono con noi perché ormai fanno già parte della nostra casa, una dimensione che va oltre le quattro mura di mattoni, e che ci accompagna sempre anche quando ci sentiamo soli.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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HUMILITAS. In ricordo di Albino Luciani nell’anniversario dell’elezione

Chissà cos’avrà pensato, quel lontano 11 gennaio 1959, il 46enne don Albino quando, giungendo alla stazione di Vittorio Veneto sotto la neve, scese le scalette del convoglio e si trovò innanzi la terra della sua nuova diocesi; la descrisse così, più tardi: «Di qua il Piave, di là il Livenza, sopra si arriva alle porte di Belluno, sotto fin quasi al mare. In cima monti, in mezzo colli, in basso fertili piani, che vanno abbellendosi sempre più di nuove strade, nuove fabbriche, vite e frutteti, e un mantello di chiese che la copre da capo a piedi».
Albino Luciani – nativo di Forno di Canale, nell’Agordino – aveva per sé altri progetti: avrebbe voluto continuare a insegnare in seminario a Belluno, ma papa Giovanni XXIII lo sceglie come successore di san Tiziano sulla cattedra di Vittorio Veneto, una diocesi che – da patriarca – Roncalli aveva ben conosciuto, recandosi in villeggiatura sulle colline di San Pietro di Feletto. Il papa supera le perplessità della Congregazione: Luciani è troppo giovane, è troppo malaticcio … e commentò: «Vuol dire che morirà vescovo».

Lo stemma e il motto di Luciani, che oggi campeggiano nella Sala del Trono del castello vescovile, sembrano dire tutto di lui: tre stelle in campo azzurro, una sola parola sul cartiglio: “Umiltà”; quelle stelle bastano: rappresentano le virtù, la Trinità, la Madonna: il resto è superfluo.
A Vittorio, Luciani iniziò subito la visita pastorale; nello spirito del Concilio, cui partecipò attivamente, condivideva le parole di Paolo VI, che nel 1965 aveva affermato: «Chi appartiene a quella società che si chiama oggi “il popolo di Dio”, deve sapere che questa comunità è organizzata, e non può vivere senza l’innervazione di un’organizzazione precisa e potente che si chiama Gerarchia»; uomo di mitezza e obbedienza, don Albino le pretendeva anche dal prossimo: prova ne è lo strano caso dello “Scisma di Montaner”.

Nel 1969 giunge la nomina patriarcale a Venezia, nel 1973 l’elevazione al cardinalato; nel 1977 incontra suor Lucia a Fatima: questo evento giace a metà tra la storia e la leggenda: il patriarca, in pellegrinaggio a Cova da Idria, incontrò la suora per due ore; il fratello, Edoardo, disse di avere visto il cardinale tornare molto scosso: era diventato silenzioso pensieroso e quando gli chiese cosa avesse, Albino rispose: “Penso sempre a quello che ha detto suor Lucia”. Che gli avesse rivelato l’elezione papale o addirittura il contenuto del terzo mistero è impossibile da verificare; resta solo la certezza che le parole di suor Lucia segnano profondamente l’animo del patriarca.

Nell’agosto 1978, Paolo VI muore e Luciani, il 26 agosto, al quarto scrutinio, è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di Pietro. Il responsabile della sua elezione ha un nome e un cognome: Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, che sperava di ottenere una nomina in curia – forse addirittura la Segreteria di Stato – con l’elezione del patriarca di Venezia al Soglio. Ma non è lo Spirito Santo che sceglie il papa, potreste chiedermi? A questa domanda rispose, non senza una certa dose di bavarese ironia, il cardinale Ratzinger nel 1997, quando di lavoro faceva il custode dell’ortodossia: «Lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto ci lascia molta libertà, senza abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico. Probabilmente l’unica sicurezza che offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata».

Trentatré giorni di pontificato; trentatré, come gli anni di Gesù, come la durata di un ciclo lunare secondo i medioevali. Sembra perfetta la profezia di Malachia che, riguardo al 263° vescovo di Roma diceva: De medietate luna – della durata media d’una luna. Il papa di settembre non presiedette mai Messa in San Pietro, e parlò al mondo di sé con termini di disarmante umanità, toni simili a quelli di un parroco di provincia che non a quelli d’un vicario di Cristo: «Io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa». E ancora: «Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri».

Considerato conservatore in termini di morale sessuale, Giovanni Paolo I è uno strenuo difensore dei diritti dei poveri: animato dal fuoco della Populorum Progressio di Paolo VI, durante un discorso disse: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio sono opprimere i poveri e defraudare la giusta mercede agli operai», frase che provocò qualche imbarazzo ai redattori dell’Osservatore Romano, impegnati a trascrivere.
Vero scandalo creò, invece, la dichiarazione della maternità di Dio del 10 settembre: «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre» – per i teologi è un colpo basso. Dio è, nel Nuovo Testamento, sempre descritto con tratti maschili: Gesù ci ha insegnato a chiamarlo “Padre” e raramente, nell’Antico Testamento, Jahwe è accostato ad attributi femminei. Eppure il suo amore è tenero come quello di una mamma, è più caldo di quello – leggermente più formale – di un buon papà … come conciliare le due cose? Il cardinale Ratzinger risolse la diatriba nel 2001: «La Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono racchiusi in lui – e lui è al di là di entrambi».

Alla sua ultima udienza generale, il 27 settembre, un uomo gli grida: “Lunga vita!” … lui alza la mano, sorride, sembra imbarazzato. Forse, sa.
Quattro sole udienze, ma il filo del discorso è chiaro, le quattro catechesi hanno senso perfetto, e sembra abbiano concluso un ciclo di insegnamenti sulle virtù: umiltà, fede, speranza, urgenza della carità; nello stile di Luciani, il superfluo va rigettato: sembra quasi che un’altra udienza sarebbe stata solo un orpello inutile, perché al cristiano bastano queste cose: sufficit tibi gratia Mea.

Il sorriso, la semplicità di un parroco veneto chiamato a Roma, sono i tratti che più rimangono a noi, che non lo abbiamo conosciuto se non dai filmati d’epoca e dalle testimonianze di chi lo conobbe da vescovo o cardinale, e nel ricordo commosso dei suoi successori sul Trono di Pietro.
E forse la morte di papa Luciani, così fulminea e rapida, inaspettata e triste per tutti i fedeli del mondo, non è altro che l’ovvia conclusione di una vita dimessa, lontana dagli eccessi: “Scritta nella polvere, affinché il merito rimanga tutta a Dio”.

David Casagrande

[Immagine tratta da Google Immagini]