Alla (ri)conquista della contemporaneità tra Sorrentino e Cioran

Il cinema italiano può considerarsi orgoglioso di cineasti come Paolo SorrentinoIl regista, infatti, è riuscito a rinnovare con le sue eccentricità e spinte esistenziali al limite del drammatico corso umano, quello che abbiamo perso da ormai molto tempo: la sfumatura nei riguardi della contemporaneità. 

Nondimeno, la capacità d’interpretare il presente è riservata a pochi eletti. Tutto quel susseguirsi d’istanti, uno dietro l’altro, senza scopo alcuno; serve più di un muro per poterne rallentare il corso e capirne qualcosa che abbia almeno un minimo di significato. Come scrisse il filosofo francese per adozione Emil Cioran nell’opera Sommario di decomposizione, «gli istanti si susseguono gli uni agli altri: nulla conferisce loro l’illusione di un contenuto o la parvenza di un significato; si svolgono; il loro corso non è il nostro; prigionieri di una percezione inebetita, li guardiamo passare; il vuoto del cuore dinanzi al vuoto del tempo […]»1

Volendo riassumere il passaggio appena citato, si potrebbe usare una sola parola: tragicità. Abbiamo paura del tragico, forse, perché non può essere modificato o perché piomba all’improvviso. Comunque sia, è la nostra percezione del contemporaneo che ne paga le conseguenze.

Evocando uno dei monologhi migliori che il cinema ci abbia regalato negli ultimi anni, tratto dal film di Giuseppe Tornatore, La leggenda del pianista sull’oceano, il giovane Novecento affronta la morte del tempo, del suo tempo. Rimprovera la nostra incapacità di comprendere la moltitudine di esperienze, attimi, luoghi, scelte che compiamo e compiacciamo di cogliere e sfruttare nell’atto presente. 

«Non è quello che vidi Max che mi fermò. È quello che non vidi. C’era tutto in quella città, ma non c’era una fine. La fine del mondo. Cristo! Anche, soltanto le strade ce ne erano a migliaia! Ma dimmelo, come fate voialtri laggiù a sceglierne una. A scegliere una donna. Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire»

Ciononostante, non è una novità se ci dicessero che siamo costantemente sovrastati da espedienti e distrazioni. 

Però, se qualcuno ci imputasse colpevoli di negligenza, di menefreghismo o persino d’accidia? Come potremmo anche solo difenderci con parole sensate sopra il chiacchiericcio di sottofondo. 

In altre parole, dove abbiamo potuto nascondere l’interpretazione della vita, la sfumatura senza fondo del mondo? Infine, cosa può farci (ri)piombare nella consapevolezza del nostro tempo? 

Cioran e Sorrentino senza mezzi termini ribatterebbero con la noia. Anche Novecento lo aveva compreso su quella nave. Dopotutto, anche lì il mondo passava ma non più di duemila persone per volta. «La rivelazione del vuoto»2, infatti come Cioran la descrive, appare il filo d’Arianna nelle varie opere del regista campano, sembra cambiare muta di tanto in tanto: nella Grande Bellezza è rappresentata dalla Costa Concordia arenata sullo scoglio del Giglio, in This must be the place è la piscina inservibile nel bel mezzo degli Stati Uniti, l’insonnia di Servillo nelle Conseguenze dell’amore o le sigarette del Pio XIII in The Young Pope e così via. 

È grazie a quell’«esaurirsi, di quel delirio che sostiene – o inventa – la vita»3 riprendendo nuovamente il filosofo francese, che possiamo avere una speranza contro l’oscurantismo e l’ignoranza del nostro tempo. Peccato che l’inedia non sia contemplata all’interno del sistema educativo. Magari tra l’ora persa nello spogliatoio e in quella per la conoscenza dei tre Magi, ci sarebbe spazio per l’insegnamento del nulla. Dopotutto, non servirebbe neppure dover assumere molto personale. Basterebbe il silenzio interrotto dalla campanella e un pugno di pensieri. 

Non è un caso che l’artista se ne serva costantemente come uno dei tanti strumenti del proprio scrigno. Senza l’impiccio, forse, oggi dovremmo togliere dal mobiletto dei trofei personaggi come Michelangelo, Fontana, Leopardi, Montale. Insomma, non avremmo neppure più lo scaffale. 

«Chi non conosce la noia si trova ancora nell’infanzia del mondo, quando le epoche erano di là da venire; rimane chiuso a questo tempo stanco che si sopravvive, che ride delle sue dimensioni, e soccombe sulla soglia del suo stesso avvenire»4.

Vogliamo veramente rimanere chiusi nelle «nostre dismisure e nelle nostre sregolatezze»5, mirare alla sola nuda sopravvivenza? Oppure, prima di puntare il dito al prossimo capro espiatorio per insabbiare la nostra disattenzione nei confronti della realtà che si svolge, cogliamo l’attimo in compagnia del tedio, magari riscoprendo la vita e aprendoci al mondo che rappresentiamo. Non quello d’ieri o di domani ma del hic et nunc prima della nostra prossima scelta e dopo la lettura di questo scarabocchio.  

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1.E.M. Cioran, Sommario di Decomposizione, 1949.
2.Ibidem.
3.Ibidem.
4.Ibidem. 
5.Ibidem. 

[immagine tratta da Unsplash]

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Sibilla Aleramo: il femminismo che nasce dal racconto di sé

Vi sono argomenti che divengono iconici di un tempo storico. Ai posteri, il nostro tempo diverrà sinonimo delle molte battaglie che abbiamo intrapreso, o anche solo ignorato, come quella del clima, o ancora del femminismo. Il rischio che corrono gli argomenti iconici di un’epoca è che non siano più incisivi e urgenti come dovrebbero essere. La gente diviene come anestetizzata a certe tematiche e restia a continuare ad ascoltare o a formare un pensiero autonomo su di essi. Uno di questi è, indubbiamente, il tema del femminismo. Se, da una parte, sono stati fatti passi da gigante rispetto al passato, ancora si è ben lontani dal raggiungere la piena parità fra uomo e donna. 

L’urgenza dell’argomento è data da due elementi fondamentali: si tratta, anzitutto, della più grande disparità dell’umanità, poiché le donne costituiscono più della metà della popolazione e dunque della più profonda ingiustizia sociale. In secondo luogo, nonostante le vittorie del femminismo, le violenze sulle donne permangono, evidenziando così il fatto che esso non è diventato uso e costume della nostra società. 

Quando un’idea, un’aspirazione, si svuota di senso, sebbene sia necessaria, è bene allora riprenderne le origini e restituire vigore all’argomento.
In Italia, fra le prime donne che hanno intrapreso la lotta del femminismo, vi è Sibilla Aleramo. Semisconosciuta nell’Italia di oggi, nel 1906 pubblicò il su romanzo autobiografico Una donna, in cui racconta le vicende che l’hanno portata al divorzio. 

La storia di Sibilla Aleramo spiega come il femminismo non sia un capriccio, ma un’esigenza per riconquistare la propria dignità di persona. 

Sibilla Aleramo racconta di essere nata e cresciuta in una famiglia borghese benestante, e che il padre si prese cura della sua educazione e dei suoi studi. A seguito di un trasferimento di tutta la famiglia da Torino in un paese non specificato del Sud Italia, Sibilla comincia a lavorare nella fabbrica del padre, conquistando quell’aria di intraprendenza malvista da tutto il paese. Quando fu costretta a sposare l’uomo che aveva abusato di lei, la vita di Sibilla si appiattisce. «Appartenevo ad un uomo, dunque? Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. […] Che cos’ero io ora? Che cosa stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita. Il mio orgoglio di creatura libera e riflessiva spasimava»1.

Dalla consapevolezza di potere essere una persona indipendente, Sibilla si riduce al ruolo di moglie, e in un certo senso, conquista un ruolo sociale consentito a una donna; non importa che esso sia causa di una violenza, la figura di Sibilla si normalizza agli occhi della gente del paese. È dunque più scandaloso che una giovane donna lavori in una fabbrica ma non che sposi l’uomo che l’ha stuprata. 

La nascita di un figlio porta finalmente un po’ di luce nella sua vita e in quella del marito, fino a quando quest’ultimo non diventa violento e inizia a segregarla in casa, perché sospetta di un suo tradimento, mai avvenuto in realtà. Sibilla giunge a tentare il suicidio; racconta addirittura che il marito e la cognata la ingiuriano, mentre lei sta per perdere i sensi, dopo aver bevuto un’intera boccetta di laudano. 

Il femminismo, cioè la possibilità di non vedersi negata la propria dimensione di essere umano, affonda le sue radici nel dolore, nelle ferite inferte dai mariti, nel soffocamento delle proprie aspirazioni. Il femminismo nasce come un’alternativa al suicidio, o a una vita sottomessa. Ciò che permette a Sibilla di riscoprire la sua sfera di donna, oltrepassando quella di moglie, è la scrittura. «E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo; affermavo di ascoltare strani fermenti nel mio intelletto, come un presagio di lontana fioritura»2.
Grazie alla scrittura, Sibilla Aleramo riesce a vivere indipendentemente, lavorando per alcune riviste, e a chiedere il divorzio. Riacquistando la sua dignità di persona, perde quella di madre: come conseguenza del suo desiderio di libertà, il marito le porterà via il figlio e Sibilla non riuscirà più a ricongiungersi a lui.

Il significato del femminismo può essere riassunto così nella vita di Sibilla Aleramo, costretta a dover scegliere fra la propria sfera intima e a quella imposta dalla società. Di fatto, l’affermazione dei diritti delle donne è la riconquista di una dimensione pluralistica della propria vita, in cui è possibile essere moglie e non cosa, lavoratrice e madre. Il ruolo sociale della donna, come è stato inteso nel corso della storia, la riduce a oggetto, a mera funzione che permette l’andamento della società stessa. L’aspetto emotivo o sessuale della donna sono impedimenti all’ingranaggio della civiltà, e per questo devono essere estirpati. 

Sibilla Aleramo sfugge a questo appiattimento grazie alla scrittura, ovvero all’arte che le permette di ricordare la sua profondità; le viene restituita l’autocoscienza. Possiamo così dire che il femminismo nasce come ricordo e racconto di sé, come la capacità di guardarsi da fuori e di decidere della propria vita. 

«Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello […]. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni»3.

 

Fabiana Castellino

 

 

NOTE:
1. S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli Milano 2013, p. 27.
2. Ivi, p. 79.
3. Ivi, p. 80.

 

[immagine tratta da Wikipedia]

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L’impressionismo prima degli impressionisti

Esiste una pur remota possibilità che uno o più artisti abbiano anticipato, nelle forme e nei contenuti, i caratteri fondanti, e spesso inconfondibili, di una corrente artistica di molto successiva? Come già ho avuto modo di dimostrare in un mio vecchio articolo dedicato al pittore genovese Luca Cambiaso, in rarissime occasioni questo può accadere, anche se, di fatto, non si può certo parlare di vera e propria anticipazione, ma, piuttosto, di casuale coincidenza formale, talvolta sorprendente ma comunque destinata a rimanere tale, non potendo essa colmare le abissali distanze concettuali e contestuali che intercorrono tra un dato movimento artistico (o ancor meglio un’Avanguardia) e il suo fantomatico precursore.

Quando si viene a prendere in considerazione la poetica dell’Impressionismo, tuttavia, le cose cambiano radicalmente. Infatti, se da un lato le grandi Avanguardie di inizio Novecento presentano delle caratteristiche ben definite e marcate e, spesso, fanno perno su un manifesto che ne illustra i propositi, l’Impressionismo francese è una corrente dalle basi teoriche meno solide, fondata su assunti semplici e su un’eccezionale immediatezza visiva. L’obiettivo principale dell’arte portata avanti da Monet, Cézanne, Renoir e compagnia è quello di catturare un’immagine della realtà quotidiana così come la si percepisce a un primo e fugace sguardo, e di rielaborarla in pittura con un tocco rapido e brillante. Ciò significa che l’arte di questi maestri presenta un caos di pennellate dense e talvolta grossolane che, una volta viste da lontano, si ricompongono in un magnifico ordine che ci mostra una qualche veduta della Senna o un affollato locale alla moda parigino.

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Ecco che queste caratteristiche generali, e a dire il vero piuttosto generiche, hanno alimentato osservazioni su osservazioni da parte della critica, che presto ha saputo individuare modelli e precursori di questo tipo di pittura. Cosa che, in fin dei conti, non è poi così difficile, visto che la sua qualità fondante è essenzialmente quella pennellata spessa e veloce che si vede soprattutto in Monet e Sisley. È in particolare il cadorino Tiziano Vecellio a essere indicato come il primo grande precursore dell’Impressionismo. Nelle sue opere tarde, vale a dire quelle databili dal 1560 fino all’anno della morte (1576), il grande maestro veneto porta lo sviluppo della pittura tonale a estreme conseguenze, raggiungendo risultati che esteticamente si discostano molto dalla pittura coeva: la Punizione di Marsia di Kromeritz o il Ratto d’Europa di Boston ne sono due ottimi esempi. Questa fase della produzione di Tiziano fu molto apprezzata da numerosi pittori francesi dell’Ottocento, in particolare da Delacroix, artista molto noto agli impressionisti e che in qualche modo può rappresentare il trait d’union tra il maestro veneto e quelli d’oltralpe. Tuttavia, nonostante Tiziano fosse studiato e ampiamente apprezzato nella Parigi di quegli anni, la sua arte è troppo distante sia storicamente sia culturalmente dai risvolti del secondo Ottocento parigino per poter figurare come anticipatrice della corrente impressionista: le basi comuni, che si limitano a una vaga somiglianza stilistica nella stesura del colore, sono davvero troppo deboli.

Tuttavia, alcuni decenni prima, ci fu un altro grande ammiratore della pittura di Tiziano dall’altra parte della Manica, il quale va considerato a mio parere il vero e forse unico grande precursore dell’Impressionismo, l’inglese William Turner. A partire dal 1820 egli adottò un’impronta stilistica sempre più moderna, che giunse progressivamente a quelli che, negli anni ’40 dell’Ottocento, furono dei veri e propri colpi di genio, dipinti al limite dell’astrazione, come dimostra il capolavoro Rain, steam, speed della National Gallery di Londra. Risultati di questo calibro furono raggiunti oltre trent’anni prima rispetto ai capolavori di Monet e Renoir, in un contesto storico, quello contingente alla rivoluzione industriale, del tutto simile: così come in Francia si sentiva il bisogno di un cambiamento, così in Inghilterra Turner lo ha sentito parecchi anni prima, non limitandosi a un approccio di stampo romantico verso i paesaggi inglesi, ben esemplificato dalla pittura di Constable, ma adottando un linguaggio formale che superasse l’immagine oggettiva, pur filtrata da sentimenti personali, e che giungesse alla rappresentazione di una realtà veloce, in continua evoluzione, che l’occhio non fa più in tempo a descrivere con attenzione.

constable-hadleigh-castleQuesto approccio moderno fu adottato in realtà anche dallo stesso John Constable, che in alcuni suoi studi preparatori ha ottenuto delle immagini che, per modernità, non temono il confronto con Turner: basti pensare allo studio a grandezza naturale per Hadleigh Castle, alla Tate Gallery di Londra, per rendersene conto. Tuttavia questi magnifici dipinti, concepiti con grande cura dall’autore (e sicuramente da lui molto amati), non erano destinati ad essere visti pubblicamente nelle esposizioni della Royal Academy, ma restavano un lavoro privato di Constable, che, mosso da impulsi e idee simili a quelli di Turner, non ha però potuto azzardare un passo così audace, che solo qualche anno dopo avrebbe trovato invece terra fertile negli occhi di chi, ormai immerso in un mondo cambiato, avrebbe compreso quell’evoluzione. Ecco quindi che, forse, i primi veri impressionisti non furono francesi, ma britannici, un po’ meno consapevoli del loro essere tali ma certamente altrettanto moderni e innovativi.

 

Luca Sperandio

 

NOTE
Immagine di copertina: opera di William Turner
Immagine 1: Tiziano, Ratto di Europa
Immagine 2: John Constable, Hadleigh Castle

 

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In contatto con il proprio io e con la natura: I Canti Orfici di Dino Campana

Noto come il “poeta visionario”, teso tra una vita errabonda e gli eccessi psichiatrici, Dino Campana è tra i più singolari letterati del primo Novecento, produttore di opere dal sapore simbolista, che si distinguono per gli aspetti evocativi e per le atmosfere. Sebbene in un secolo sanguinoso la sua poesia possa risultare per certi versi anacronistica, tanto si staglia in un panorama che canta l’uomo in preda alle incertezze esistenziali, essa ha ancora molto da insegnare, specialmente a chi si pone con attenzione in ascolto.

«Ascolta: la luce del crepuscolo attenua/ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:/ascolta: ti ha vinto la sorte»1 afferma il poeta nel Canto della tenebra, invitando il lettore a porsi in contatto con se stesso, nel momento della giornata in cui le tenebre iniziano a salire e l’uomo è più incline alla riflessione. Solo chi dedica un po’ di tempo ad ascoltarsi, può infatti «intendere» la voce interiore, che in fondo si accorda con la natura e il resto del creato, almeno per i brevi istanti in cui questo legame viene stabilito.

Si tratta di un nesso profondo ma difficile da far affiorare alla percezione cosciente, per la maggior parte del tempo impegnata ad occuparsi di altro: «non so se tra roccie il tuo pallido/ viso m’apparve, o sorriso/ di lontananze ignote»; «non so se la fiamma pallida/ fu dei capelli il vivente/ pallore»2, difficile dunque abbracciare davvero queste “visioni”, l’io è sempre incerto su ciò che vede, sente e percepisce, in una realtà che conferisce sempre meno valore a ciò che l’uomo prova.

Si tratta di un sentimento, quello della crisi, che spesso ritorna alla luce nella letteratura del periodo, sebbene non tutti gli autori lo affrontino allo stesso modo: c’è chi, come Pirandello, mostra un mondo in cui non esiste più alcuna integrità dell’io; chi, come Ungaretti, ci immerge nella realtà cruda e sanguinosa della guerra, mostrando un uomo che non è più uomo; chi, infine, pur vivendo fortemente la caduta delle certezze, come Dino Campana, propone una realtà altra dove rifugiarsi, un mondo affettato, nato dalla propria mente.

Ciò non significa che tutto quello che propone Campana sia una sorta di deviazione alla vera realtà, ma in qualche modo esso rappresenta un “recupero”, un “ripescaggio” di alcuni elementi che vengono riportati alla coscienza e proiettati all’esterno, fatti vivere davvero, per ricreare il puzzle scomposto, che il secolo corrente ha frantumato.

«Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita […] sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane […] anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente»3. Questo sentimento del lontano, come già affermava Leopardi, permette di fermare per brevi istanti il mondo, di distanziarsi per un momento dai consueti rumori quotidiani, per porci nell’atteggiamento giusto della riflessione e dell’ascolto.

Solo allora, quando il nostro animo è davvero ben disposto, quando abbiamo in un certo senso abbandonato gli schemi mentali della nostra vita, possiamo percepire le melodie che ci legano alla natura e a noi stessi: «era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprii la finestra: era lo Scirocco»4, afferma il poeta in Scirocco, lasciando intendere che, se l’uomo è ben disposto può sentire la voce della natura, in un gioco di scambio reciproco con il creato.

In sostanza, quello che ci vuole dire Campana è che nell’uomo permane sempre qualcosa di profondo, non in contrasto ma in accordo con gli altri, con sé e con la realtà, basta lasciarlo emergere e non aver paura di farlo parlare.

In questo modo, possiamo anche noi fermarci per un attimo «al porto», con il nostro battello che «si posa nel crepuscolo che brilla»5, e sentire quel soffio che ci rende parte dell’infinito creato.

 

Anna Tieppo

 

NOTE:
1. D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, Einaudi, Torino 2014, p. 30, da Il canto della tenebra.
2. Ivi, p. 25, da La Chimera.
3Ivi, p. 9 da La Notte.
4. Ivi, p. 113 da Scirocco.
5Ivi, p.132, da Genova.

 

[Photo credits via Unsplash.com]

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L’arte di domani tra illustrazione e grafica digitale

L’arte figurativa altro non è che una forma di comunicazione non verbale, capace talvolta di trasmettere messaggi e significati più profondi di quelli celati all’interno di un testo scritto, rendendo così la fruizione dell’opera d’arte un’esperienza, al pari di quella musicale, alternativa ma insostituibile per la comprensione di un dato periodo storico o di certe personalità. D’altronde una creazione artistica è allo stesso tempo un libro di storia, un trattato di estetica e il risultato di ricerche tecniche su materiali e proporzioni. Visitare un museo, di conseguenza, permette di compiere un viaggio attraverso diverse epoche e svariati contesti culturali, estrapolandone aspetti legati sia al vivere quotidiano sia al pensiero e alle idee che hanno trainato ciascun periodo storico nelle sue caratteristiche più salienti.

Seguendo questo ragionamento, sorge spontaneo chiedersi cosa vedremo nei musei nel futuro prossimo, e ancor più quali saranno le forme d’arte più rappresentative del nostro presente. Una risposta certa a queste domande non c’è, e non potremmo formularne una nemmeno se analizzassimo con la massima cura l’andamento generale dell’arte contemporanea. Tuttavia alcuni sintomi di cambiamento rispetto alla produzione artistica del Novecento già si percepiscono, in particolare per quel che riguarda i soggetti delle opere, tesi a una maggiore narratività, e la loro destinazione finale. Ed ecco che in questi due aspetti già emerge come l’illustrazione e la grafica digitale, sempre più diffuse su pubblicazioni cartacee ma anche online, si stiano aprendo con decisione uno spazio sempre meno secondario nel mondo della produzione artistica contemporanea.

D’altro canto l’arte astratta e quella informale, nonostante siano ancora molto sfruttate da numerosi pittori e scultori, hanno raggiunto il loro climax a metà del secolo scorso, con l’apporto dei maestri dell’action painting, quali Pollock e, in Italia, Emilio Vedova, degli artisti dello spazialismo, Lucio Fontana in primis, e delle star della pop art. Ma ovviamente queste singolari e geniali ricerche sono uniche nel loro genere, e qualsiasi tentativo di seguire a posteriori le strade tracciate dai loro fautori rischia di essere totalmente svuotata di senso. Con questo non si vuole considerare esaurito questo campo d’azione, ma sicuramente non può più risultare rappresentativo del nostro secolo. Un insperato ritorno al figurativo, in barba ai dadaisti, si sta dispiegando abbastanza chiaramente di fronte ai nostri occhi: la protesta contro l’accademismo e le forme artistiche tradizionali è diventata anch’essa passato, e ora il pubblico, potenzialmente sempre più vasto, sembra avido di immagini semplici, che sappiano risultare di facile lettura e che siano in grado di raccontare qualcosa di legato alla nostra quotidianità o anche alla nostra tradizione, pur mantenendo costantemente un linguaggio attuale.

Non c’è alcun dubbio, quindi, che forme artistiche quali l’illustrazione, il fumetto, la vignetta satirica e la grafica stanno acquisendo una posizione di preminenza che finora non hanno mai avuto. Esse sono sempre esistite e, soprattutto a partire da inizio Novecento, sono state largamente sfruttate su tutti i supporti cartacei. Tuttavia, anche se spesso i disegni venivano forniti da pittori stimati e ben noti nel mondo dell’arte, l’illustrazione e la grafica non sono mai entrate a pieno titolo tra le arti “maggiori”, rimanendo anzi puramente a servizio dell’utilità pubblica e circoscritte al “hic et nunc” di un dato contesto. Oggi, invece, esistono i professionisti del settore, veri e propri artisti che si dedicano esclusivamente a questo tipo di produzione, cui sempre più spesso vengono dedicati eventi espositivi di largo respiro.

A condurre a questo progressivo cambiamento sono stati senz’altro numerosi fattori legati all’intensificarsi delle relazioni dell’uomo con il multimediale e la tecnologia, fatto che ha amplificato enormemente la fruizione di immagini mediante qualsiasi mezzo, da quello cartaceo a quello televisivo e virtuale. E in una società in continua crescita, dove chiunque vive di corsa e deve pensare velocemente, ecco che l’immediatezza iconografica e la semplicità narrativa tipiche dell’illustrazione e della grafica nella sua accezione più “popolare” sono strumenti vincenti e, in alcuni contesti, ormai insostituibili. Ed ecco allora che illustrazione, fumetto, vignettistica e molte altre forme grafiche vengono ad assumere una dignità nuova, via via sempre più riconosciuta in qualità di caratteristica precipua della cultura del nostro presente.

Non credo però sia facile andare a fondo di un fenomeno di questo tipo, soprattutto per il motivo essenziale che esso è ancora in corso e in una fase evolutiva non ancora giunta al suo apice. Lascio pertanto al lettore la piena libertà di riflettere autonomamente sull’argomento, eventualmente contraddicendo le mie ipotesi. D’altronde chi può dire con certezza cosa veramente verrà percepito della nostra epoca dai nostri pronipoti? Tuttavia la mia personale esperienza, per quanto breve e poco allenata, mi suggerisce che forse, tra cento anni o anche meno, potremmo vedere esposti nei musei disegni originali per copertine di libri, bozzetti di vignette comparse in importanti quotidiani e riviste, stampe in alta definizione di importanti progetti grafici digitali e 3D, e persino i cartoni originali che compongono i fotogrammi di famosi cartoni animati. D’altronde non è forse compito dei musei quello di conservare e valorizzare le testimonianze visive (e non solo) della nostra storia affinché nulla vada dimenticato?

 

Luca Sperandio

 

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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Tra mimesis e creazione: Guttuso e Giacometti a confronto

Cosa significhi fare arte e con quali processi concettuali e materiali vada creata un’opera sono domande alle quali, specie nella storia degli ultimi cent’anni, non solo è difficile dare una risposta, ma è possibile darne più di una, senza mai cadere nell’errore. E il motivo alla base di ciò è che ciascun artista contemporaneo intende il proprio operare in modo personalissimo, mai accostabile a quello che caratterizza l’arte di qualunque altro autore.

Sono proprio le testimonianze audiovisive relative a due grandi maestri del secolo scorso che possono facilmente spiegare come tra due modi di intendere l’arte possa intercorrere una differenza talvolta enorme e incolmabile. Da un lato, dunque, abbiamo Renato Guttuso, pittore siciliano di grande successo nel secondo Novecento, noto per i suoi dipinti fortemente impegnati socialmente e politicamente. Dall’altro lato, invece, Alberto Giacometti, grande scultore svizzero le cui opere hanno oggi fatto segnare straordinari record di aggiudicazione in aste di arte contemporanea.

In un documentario del 1972, prodotto da Anna Zanoli e diretto da Luciano Emmer1, Guttuso parla del suo rapporto con la pittura, un rapporto intenso che lo vede attratto da quadri di ogni sorta. Tuttavia l’artista si sofferma sin da subito su un celebre dipinto a lui molto caro, che più di qualsiasi altro lo ha stimolato e influenzato nella sua formazione: il “Marat morto” di Jacques-Louis David. Proprio parlando a proposito del capolavoro dell’artista francese, Guttuso esprime delle considerazioni di grande importanza per la comprensione del suo punto di vista sui valori dell’arte: «Tutte le volte che io vedo questo quadro, o penso a delle interpretazioni diverse, o penso alla possibilità di accentare diversamente certe cose che sono nel quadro, oppure di abbandonarmi proprio alla copia, che poi è la vera qualità dell’arte». Aggiunge poi, citando ciò che lo stesso David sosteneva, che «il dipingere non fosse soltanto avere una tavolozza in mano […], ma essere talmente dentro la cosa che esprimerla diventava un fatto naturale».

È evidente come le affermazioni di Guttuso risentano in qualche modo di una tradizione secolare che, in ambito accademico e non, concepisce la copia di un modello artistico come un passaggio fondamentale e naturale della formazione di un artista, imponendosi anzi come momento essenziale di appropriazione di dati schemi figurativi, di composizioni e di giochi cromatici. E per “appropriazione” si intende proprio quel “essere dentro la cosa” che dice l’artista, che dunque rappresenta uno dei momenti più alti del fare arte, quello in cui l’artista si identifica in certo qual modo nell’oggetto dei suoi studi, per poi riprodurlo, uguale o con qualsivoglia variazione, come se fosse “un fatto naturale”. La ripetizione medesima della copia, dunque, diventa un normale processo di elaborazione personale di un’opera oramai acquisita e fatta propria.

Questo pensiero non poteva certo essere condiviso dall’altro protagonista di questo confronto, lo scultore Alberto Giacometti. Intervistato in lingua italiana da Sergio Genni nel 19632, l’artista dimostra di possedere una concezione del fare arte quasi diametralmente opposta a quella del pittore siciliano. Esordisce parlando dei suoi numerosi tentativi di creare sculture di teste umane, a suo dire scadenti e mai riuscite come avrebbe voluto: «Io vorrei fare teste normali, di figure normali, eh. Insomma, non ci riesco. […] Sono delle ricerche mancate. […] Come ho sempre mancato, si ha voglia di provare, no? Continuare a provare. Vorrei riuscire a fare una volta una testa come vedo, no? Come non ho mai riuscito… continuo». Poi ecco l’interessante domanda dell’interlocutore: «Ma lei a volte non è tentato di riprendere la sua, se possiamo dire, prima maniera?». E la risposta di Giacometti mette in luce una personale visione artistica distantissima da quella di Guttuso: «No no no, per niente! Ho capito di che si tratta e non mi interessa più. Non potrei far che delle ripetizioni di quello che ho fatto, non c’è più… non c’è più avventura. […] Sono cose che sapevo cosa volevo fare prima di cominciare, no? Le vedevo chiaramente finite nella loro materia, e allora per farle non è più che un’esecuzione, no? Senza difficoltà… […] dunque lo rifaccio per forza. E invece una testa non la capisco, e allora lì, come fino adesso non ho mai riuscito, sono molto più curioso di vedere dove arrivo facendo una testa che tutte le sculture possibili».

La ripetizione e la mera esecuzione di un’opera già fatta e riuscita rappresentano dunque per Giacometti una forte limitazione al fare artistico, la morte della ricerca e della creatività in favore di una continua riproposizione di immagini già compiute, con le quali l’artista è già riuscito a raggiungere il proprio obiettivo. Ed è proprio qui che sta la maggiore differenza tra il suo pensiero e quello di Guttuso: l’appropriazione di una certa immagine o di un certo modello rappresentano, per il pittore siciliano, il punto massimo del fare arte, e il momento focale senza il quale la produzione artistica non può avere compimento; per lo scultore svizzero, invece, quell’appropriazione va identificata come il momento in cui il fare arte va a terminare, in quanto in esso automaticamente si esauriscono la ricerca, la curiosità e la creatività.

Non vi è dunque una verità, una definizione, una risposta univoca quando si parla di arte, di processi creativi, di approccio a delle date forme o a degli specifici modelli. Ciascun artista ha una risposta diversa, un atteggiamento personale che nessun critico dovrebbe rinviare a schemi predefiniti. E questo perché, in fin dei conti, l’arte altro non è che comunicazione visiva, che può avvenire a diversi livelli, con i più svariati obiettivi e una moltitudine di destinatari tra loro differenziati. Quello che rimane uguale, in tutti i casi, è l’estro creativo dell’artista, ognuno con le sue ragioni, le sue convinzioni e le sue fonti di ispirazione.

 

Luca Sperandio

 

NOTE:

  1. Il documentario, intitolato “Guttuso e… il ‘Marat morto’ di David”, fa parte del programma televisivo  “Io e…”, mandato in onda dalla Rai nella prima metà degli anni ’70 e prodotto da Anna Zanoli  in collaborazione con diversi registi, in questo caso Luciano Emmer, particolarmente attivo per questo programma
  2. L’intervista è stata realizzata nel 1963 da Sergio Genni, allora regista della televisione svizzera TSI. La trasmissione, curata da Grytzko Mascioni, è poi rimasta nota con il titolo di “Il sogno di una testa”, elaborato da Giorgio Soavi in occasione della pubblicazione dell’intervista in concomitanza con la mostra “Il mio Giacometti. Fotografie di Giorgio Soavi”, Milano, 2000

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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La Terror Haza di Budapest: quando il terrore diventa realtà

Oggi, chi lavora nel campo museale o cura mostre d’arte si trova ad affrontare numerosi problemi di natura estetica e didattica: creare installazioni che valorizzino le opere esposte, rendere la struttura bella ma agevole al pubblico, istituire dei percorsi tematici che aiutino a comprendere gli autori e raggiungere l’osservatore medio, che intenditore d’arte non è. Purtroppo le scelte estetiche che vengono poste in atto, spesso non riescono ad avvicinarsi ai più, i quali, pur rimanendo colpiti sul momento, dimenticano dopo poco il fil rouge della mostra e, passate alcune settimane, non riescono a ricordare nemmeno le opere cardine delle collezioni che sono state esposte.

Un esempio  che contrasta con quest’ultima affermazione è facilmente riscontrabile in un noto museo di Budapest: si tratta della Terror Haza, una sorta di casa-museo nella quale vengono ricordati gli orrori e le vittime del regime comunista.

L’uomo medio che entra per la prima volta in questa struttura viene in primo luogo toccato dall’impianto stesso: una sorta di abitazione, quasi un ambiente familiare, costituito da più piani e diverse stanze. La sensazione che prevale non è quella di un classico museo, freddo e distaccato, istituzionale per così dire, ma di un ambiente raccolto, nel quale l’osservatore non si può perdere.

Il percorso che viene costruito è ad una via e ciò permette di seguire un filo logico, una strada ben definita. Il visitatore è dunque condotto in un’escalation di emozioni, ogni stanza ricorda un pezzo di storia ed è resa suggestiva sia nel gioco di luci, sia negli elementi che la compongono.

Quest’ultimi, in particolare, sono a loro volta disposti in modo da creare una sensazione tridimensionale: abiti d’epoca appesi su normali attaccapanni, scrivanie arricchite con telefoni datati, scartafacci o porta documenti del secolo scorso. L’assetto di questi elementi istituisce una sorta di processo d’inclusione, quasi l’osservatore fosse catapultato in un momento storico che non è il suo, in una realtà che riprende magicamente ad esistere e di cui si sente parte.

Tale idea è a sua volta consolidata da un espediente che rompe il gioco di ruoli: la possibilità di interagire con parte dei pezzi di storia che sono esposti, non solo di “guardare e non toccare”. Ecco che il visitatore comincia allora a giocare diversi ruoli: utilizza i telefoni per sentire la voce delle vittime, guarda filmati di testimonianze seduto tra i documenti dei condannati, osserva le minuscole celle nelle quali morivano i prigionieri. Colui che entra nella Terror Haza si sente in qualche modo parte di quel mondo, a sua volta vittima, prigioniero, perseguitato, quasi fosse stato risucchiato da una macchina del tempo.

Nel caso della Terror Haza di Budapest, dunque, l’installazione diventa in un certo senso parte di ciò che è esposto, la musica, i video, sia pure riprodotti con tecniche contemporanee, collaborano nell’impianto e anche il visitatore meno preparato comprende e viene mosso nell’animo da un groviglio di emozioni.

Forse questo esempio dovrebbe spingere a riflettere sulle scelte che vengono effettuate in diversi musei italiani. Talvolta, pur alla presenza di collezioni o manufatti di valore inestimabile, dimentichiamo di costruire un contorno che possa renderli vivi, che riesca a dialogare con chiunque e, di conseguenza, che faccia realmente apprezzare le opere.

Spesso si dice che l’arte è superata, che gli interessi contemporanei ricadono ormai su altri svaghi, dimentichi delle epoche passate. In realtà bisognerebbe chiedersi se ad essere superato non sia il modo di trattare l’opera più che l’opera in sé, il modo con cui un oggetto viene reso fruibile al grande pubblico e a colui che è davvero l’ultimo interlocutore del nostro patrimonio culturale.

 

Anna Tieppo

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Libri selezionati per voi: giugno 2017!

Il mese di giugno regala a tutti noi un po’ di relax e di tranquillità in più: la fine della scuola, l’avvicinarsi delle ferie, le giornate che pian piano si allungano sempre più. Per molti sarà molto più facile ritagliarsi un po’ di tempo da trascorrere con un libro in mano e con gli occhi fissi sull’inchiostro nero delle sue pagine. Per noi è un piacere suggerirvi qualche testo da acquistare o prendere in prestito in biblioteca per farvi compagnia quando potrete stendervi sul divano, al parco o sotto l’ombrellone ma anche quando continuerete i vostri aller-retour in treno o metropolitana da perfetti pendolari. Non dimenticatevi di proporre qualche sana e divertente lettura anche ai vostri figli, nipoti o fratelli minori: la lunga pausa estiva è il periodo ideale per farli avvicinare al magico mondo dei libri!

Ecco a voi allora i nostri consigli di lettura per questo caldo e soleggiato mese, con la speranza che le nostre proposte riescano ad accontentare i gusti di tutti voi!

 

ROMANZI CONTEMPORANEI

novecento-la-chiave-di-sophia Novecento. Un monologo – Alessandro Baricco

Si narra che sul Virginian, un piroscafo che solcava l’oceano Atlantico nel periodo tra le due guerre, fosse nato qualcuno che non sarebbe mai sceso sulla terraferma. Un bambino che divenne un pianista così abile che, quando suonava, il pianoforte diventava un’estensione del suo corpo e della sua anima, riuscendo a creare musiche meravigliose e irripetibili per gli ospiti della nave. Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento il suo nome. Un nome pazzesco per un individuo dalla storia pazzesca.

amico-ritrovato-la-chiave-di-sophia L’amico ritrovato – Fred Uhlman

Come si costruisce un’amicizia? Quanto può durare? Cosa può spezzarla? Chi sono due buoni amici? Ognuna di queste domande è sottesa alla delicata storia raccontata da Uhlman che catapulta il lettore nella Germania dei primi anni Trenta, dove l’ideologia nazista si insinua nei rapporti umani rendendoli più fragili o minandoli nelle viscere. Questo vale anche per la particolare amicizia che si costruisce tra il taciturno e riservato Hans Schwarz e Konradin, conte di Hohenfels, di famiglia agiata e influente. Saranno proprio i diversi ideali e le diverse prospettive a separarli per molti anni.

 

UN CLASSICO

image_book-la-chiave-di-sophiaUltime lettere di Jacopo Ortis – Ugo Foscolo, 1802

Romanzo epistolare, unitario pur nell’inevitabile frammentarietà del genere, le Ultime lettere di Jacopo Ortis si configurano come un’appassionata confessione della vita del protagonista Jacopo, unico e indiscusso personaggio del racconto. Nella finzione romanzesca, Ortis scrive in prima persona profonde e intime lettere all’amico Lorenzo Alderani, rendendolo partecipe delle proprie giornate e degli eventi che lo toccano nel profondo. Scritto sapientemente, in una lingua dalla rara selezione lessicale, le Ultime lettere di Jacopo Ortis racchiudono i temi cari al Foscolo e alla poetica del romanticismo: dallo struggimento d’amore alla riflessione politica, dagli interrogativi esistenziali alle incertezze sul futuro, il tutto arricchito da insegnamenti universali sui consueti e perenni comportamenti del genere umano. Consigliato a tutti coloro che amano la buona lingua, il romanzo introduce il lettore in un mondo altro fatto di buone maniere, partecipazione politica, cultura e pensiero che induce inevitabilmente a riflettere su di noi e sul nostro presente.

 

SAGGISTICA

9781599869735-us-300Sulla Libertà (On Liberty)  John Stuart Mill

On Liberty di John Stuart Mill è un testo pubblicato nel 1689, il cui peso specifico ha segnato un momento ineludibile nel percorso della filosofia politica occidentale. A dispetto di quanto si potrebbe pensare guardando al titolo, questo testo non tratta della libertà di scelta o d’azione in senso generale (di cui Mill si occupa altrove) ma, più precisamente, della libertà civile e del rapporto che con quest’ultima ha il potere sovrano. Una delle preoccupazioni fondamentali di John Stuart Mill consiste nel focalizzare la necessità che il governo democratico abbia un limite: che la parte maggioritaria del popolo, che legittimamente esercita il potere, non possa sopraffare la minoranza. Qualora ciò accadesse, la libertà del singolo verrebbe violata dall’istituzione di una vera e propria ‘dittatura della maggioranza’. Per questa ragione il testo di John Stuart Mill è particolarmente consigliato a chi sia in cerca di una guida per orientarsi in un mondo che, fintamente plurale, tende a proporre una cultura appiattita e appiattente, totalitaria: guai a chi contraddica ai costumi e alle forme di vita maggiormente in voga o che osi criticare il marmoreo pensiero acriticamente qualunquista spacciato ai crocicchi di strade e aule scolastiche.

 

JUNIOR

6129243_346173-la-chiave-di-sophia Arrivano i Faccioni – Alessandro Gatti

Cercate una storia buffa e strampalata per divertirvi con la lettura? L’allegra famiglia Faccioni fa proprio per voi! Alle prese con il trasloco, genitori, bambini e nonni al seguito sono decisi a fare bella figura con i nuovi vicini di casa. Ma come potrete immaginare, i nostri protagonisti andranno incontro solo a imprevisti, pasticci e figuracce! Una storia veloce, adatta a tutti i bambini di 6 e 7 anni. Buon divertimento!

 

la chiave di sophia 9788807910210_quarta-jpg-600x800_q100_upscale Solo Flora – Stefania Bertola

Se avete voglia di una lettura carica di fantasia, questo libro può fare al caso vostro. Potrete scoprire il mondo dei DP (different people), abitato da fate, streghe, vampiri, gnomi, folletti. Ad essere catapultata nello strano paese di San Mirtillo, uno dei comuni DP presenti nel territorio italiano e pressoché sconosciuto ai NP (normal people) è la giovane protagonista Flora. All’età di 15 anni, in piena adolescenza, Flora non ha dubbi: il trasferimento in Australia della madre, biologa marina, non la riguarderà nemmeno per sogno. Per rimanere vicina al suo ragazzo, Flora preferirà il trasferimento a casa di Zia Limoncina, categoria “fata”, per la precisione. La nuova vita della ragazza sarà un miscuglio di spaesamento, timore per la propria incolumità, e inimmaginabili problemi di cuore. Una lettura leggera e veloce, consigliata per lo più alle ragazze, che sotto l’ombrellone ritroveranno nella surreale vicenda vissuta da Flora alcune domande che riempiono anche la loro adolescenza.

 

Giugno regala anche molti film in uscita nelle sale: trovate qui, come sempre, la nostra selezione.
Buona visione!

Sonia Cominassi, Anna Tieppo, Emanuele Lepore, Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Da cittadini a consumatori: il valore del singolo nella postdemocrazia

Il Capitalismo ha vinto. La collettività soccombe sotto il peso degli interessi individuali, l’incubo descritto in Il Capitale di Marx si sta pienamente concretizzando. Il mondo del lavoro cambia, le identità collettive, che hanno caratterizzato il Novecento, vengono meno. La Democrazia che diamo come dato acquisito sembra oggi sempre più in balia di spinte che provengono da un libero mercato sempre meno controbilanciato da robusti, seppur flessibili, diritti sociali di cittadinanza, che garantiscano una ragionevole redistribuzione della ricchezza.

Il nuovo millennio si apre con un cambiamento radicale: più che cittadini siamo consumatori. Siamo molto più rilevanti come consumatori che come cittadini. Crouch ha coniato giustamente il termine “postdemocrazia” che designa un semplice eppur gigantesco paradosso: i sistemi politici europei e statunitensi sono in una fase di atrofia democratica, la globalizzazione rende questo fenomeno evidente, la democrazia resta nazionale in un mondo globale e cessa di esistere sulla soglia di quei luoghi dove vengono prese decisioni che influiscono sull’assetto mondiale.

L’identità di classe e la religione, che un tempo erano elementi fondanti della politica tradizionale, si sgretolano e con essi i partiti politici ormai sempre più distanti dalla popolazione e in balia del “marketing” politico. La svalutazione della politica e l’idea che il marcio della società si annidi nella classe dirigente ha reso sempre più la democrazia esposta alle pressioni di élite e grandi imprese che esercitano ora un ruolo di primo piano. Il nuovo millennio è una sorta di mondo post-feudale dove il potere non è più in mano agli stati e agli organi democratici, ma in mano a una sorta di nuova aristocrazia formata dalle grandi imprese. Uno Stato ha bisogno di legittimazione democratica, le élite non ne hanno bisogno. La crescente nostalgia per gli Stati-Nazione è appunto nostalgia per un passato che sta passando, quei dispositivi si dimostrano oggi strumenti del tutto inadeguati a organizzare e gestire la vita pubblica rispetto ai compiti politici che abbiamo di fronte.

In questo mondo paradossale abbiamo molto più potere come consumatori che come cittadini, determiniamo molto più il mondo e noi stessi per quello che compriamo piuttosto che per quello che votiamo, dimenticandoci che il mercato senza poteri a controbilanciarlo è destinato strutturalmente a inasprire le diseguaglianze e quindi a catalizzare i malesseri sociali che sfociano a loro volta in politiche protezionistiche, retrograde e difensive, che risultano rimedi peggiori del male che vorrebbero curare. Lo svilimento della classe dirigente e la politica “gratuita” per uscire dai soliti “magna magna” e l’idea che essa non dovesse essere un lavoro ha reso la politica stessa un ambito aristocratico, cioè ristretto a persone benestanti, per non dire ricche, e qui gli esempi si sprecano.

La crisi aumenta, i malesseri agitano le masse contro la classe politica a cui si vogliono togliere i privilegi, il che fa sì che avvenga l’ascesa di una classe politica di ricchi, spesso imprenditori, che rappresentano molto di più la matrice dei mali delle masse piuttosto che la loro salvezza, il paradosso dell’epoca contemporanea sta tutto qui. Gli Stati-Nazione nella loro concezione novecentesca sembrano dei nani mentre a turno sfilano davanti ad essi grandi compagnie che impersonano a turno Biancaneve.

Matteo Montagner

Allied: l’ombra nascosta del divismo contemporaneo

Poteva nascere qualcosa di davvero memorabile dall’incontro tra il regista di Forrest Gump, Ritorno al Futuro, Cast Away e molti altri celebri film, con due degli attori più amati del nostro tempo: Brad Pitt e Marion Cotillard. Nonostante le ottime premesse però, Allied-Un’ombra nascosta non solo è un film poco riuscito, ma è anche un’opera che in qualche modo sancisce la fine del concetto di divismo, inteso nella sua accezione più tipica e tradizionale.

Come riportato da G.L. Farinelli e J.L. Passek nel libro Stars au féminin: naissance, apogée et décadence du star system (edito nel 2000), il divismo è un fenomeno strettamente connesso al Novecento, secolo in cui la civiltà occidentale, dominata dalla complessa interazione tra economia, tecnica e scienza, ha trovato in sé stessa un antidoto allo spirito razionalizzatore nella presenza dei divi. Considerati da sempre come prodotti della cultura di massa e al contempo arcaismo della modernità, i divi simboleggiano la potenza del mito del doppio all’interno della civiltà razionalista. Essi incarnano un bisogno moderno di fede, un bisogno psicologico e affettivo di proiezione e di identificazione dell’individuo con una vita diversa, una vita che potrebbe accordarsi con i suoi desideri, una vita da eroe, da ribelle o da aristocratico, una vita intensa, rischiosa e non soggetta agli obblighi prosaici della banalità quotidiana, fatta d’amore, bellezza, forza, piaceri, felicità e immortalità. Il divo è colui a cui guardare con ammirazione, colui che incarna e rende concreti personaggi ideali sulla superficie di uno schermo cinematografico. La società contemporanea ha lentamente sgretolato quest’immagine, in vari modi e con svariati mezzi, primo tra tutti l’annullamento totale della dimensione privata della vita del divo. Se nel Novecento infatti i grandi attori erano sempre circondati da un alone di fascino e mistero, al giorno d’oggi chiunque può permettersi di conoscere la vita privata delle star dal momento che, sempre più spesso, sono loro in prima persona a raccontarsi attraverso la rete. Il divo d’oggi tende a non separare più la dimensione privata da quella professionale, avvicinandosi così all’uomo della strada, ma al contempo mostrando al mondo tutti i suoi difetti e le proprie fragilità.

Non a caso Allied è balzato agli onori della cronaca non tanto per il suo valore artistico, quanto piuttosto per essere il film che ha portato alla fine del matrimonio tra Brad Pitt e Angelina Jolie, dal momento che in molti avevano ipotizzato una love story (poi smentita) tra il divo americano e Marion Cotillard. Ispirandosi molto all’estetica di un film come Casablanca, Allied mette in mostra tutte le sue debolezze, soprattutto nella parte finale della storia. Pitt e Cotillard sono solo un pallido simulacro dell’indimenticabile coppia Bogart-Bergman e il film, nonostante una discreta messa in scena e un paio di sequenze degne di nota, non riesce mai a convincere fino in fondo. Invece di farli nascere come un tempo, i film d’oggi sembrano distruggere i divi contemporanei, trasformandoli in fragili esseri umani che, provando a dare forma ai sogni degli spettatori, finiscono sempre più spesso per perdersi e nascondersi nel buio della loro ombra artistica.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]