Libertà d’opinione is not diritto alla cazzata

«Quali sono i confini dell’universo?
Avrò chiuso il portoncino?
Però i confini dell’universo esistono perché non riuscirei ad immaginare l’infinito…
Sento il mio cuore battere, non mi addormenterò prima delle tre, sicuro come la morte.
E poi sono libero di pensarla come voglio, cioè se alla fine dell’universo trovo, che so, un cartello con scritto “arrivederci” posso dirlo a voce alta no? No dai, si sente che è una cazzata…
Ma quale sarà il confine tra la libertà di opinione e il diritto a dire una cazzata?
Comunque il portoncino non l’ho chiuso…»

Questi sono i pensieri-tipo che affollano la mia mente durante una normalissima nottata in attesa di prender sonno e molto probabilmente – con leggere modifiche al contenuto – sono gli stessi pensieri di milioni e milioni di persone. Ad un certo punto succede qualcosa, scatta un meccanismo che trasporta queste elaborazioni campate in aria dal crepuscolo della notte alla realtà quotidiana; alcune diventano burle, altre diventano chiacchiere da bar, altre ancora si trasformano in scherzi più complessi, del resto con internet tutto è possibile: la cazzata diventa notizia, la notizia corre alla velocità di un click, viene condivisa, e diventa magicamente vera.

Tuttavia esistono gradazioni (o degradazioni?) molto più fosche di quelle appena descritte: sto parlando dei casi, anche recentissimi, in cui pensieri reconditi dal dubbio gusto e dalla dubbia natura, dimenticano di essere cazzate spacciandosi per oculati pareri che devono essere sempre giustificati in nome della libertà di opinione.
Nel concreto la maggior quantità di novelli pensatori gravita attorno alla galassia dell’immigrazione, un tema scottante che necessita una conoscenza adeguata per poterlo affrontare con l’efficacia che merita.
Con la scusa delle grandi fallacità organizzative, molte persone si sentono in dovere di sguazzare nella terminologia più animalesca, invocando – naturalmente con la super benedizione di Dio – la morte per delle persone che la fuggono o, nel peggiore dei casi, di esultare, di gioire quando essa effettivamente ha luogo.

È vero, esistono dinamiche che difficilmente possiamo comprendere a prima vista traendole da social, dal sentito dire, da quel famosissimo ‘cugino che dice cose‘; esistono evidenti punti oscuri in un fenomeno che tocca molti Paesi del mondo e vite di molti uomini.
Esistono problemi legati all’integrazione, alla compatibilità tra culture, alla deriva della ghettizzazione provvisoria – che poi diventa definitiva – alla creazione di due o più società parallele destinate a non incontrarsi mai.
Ma ha davvero senso rincarare la dose con atteggiamenti ostili, con commenti disgustosi volti principalmente alla speranza della morte altrui?

A metà gennaio era trapelata la notizia del licenziamento di una professoressa di Venezia che aveva espresso, sulla piazza di Facebook, la necessità di eliminare anche i bambini musulmani colpevoli di essere futuri delinquenti.
Ovviamente la maggior parte delle persone ha reagito come ci si aspetta reagiscano le persone normali, ma un nutrito manipolo di illustri, al posto di accorgersi dell’opportunità mancata dell’insegnante quindi educatrice – per dimostrare la propria adeguatezza al mestiere, fece notare di come fosse venuta meno la libertà di pensiero, la libertà di esprimere una propria opinione, e che il crudelissimo Politburo sovietico che governa le nostre menti brillanti aveva ignobilmente fatto sospendere dal lavoro una persona.

La libertà di opinione è preziosa, permette il confronto e il confronto permette la crescita, il cambiamento, oppure il rafforzamento delle proprie idee. Attualmente basta affacciarsi sui social, o per la strada, o nelle università, o in qualsiasi luogo di incontro, per poter esercitare questo diritto, ma non è sempre stato così.
Probabilmente, proprio perché non abbiamo l’esatta percezione di questo potere, abbiamo dimenticato di come esso sia stato il frutto di lotte portate avanti da chi la dittatura, intesa come pensiero unico e totalizzante, la visse e la subì davvero.

Questa notte, dopo esservi assicurati di aver chiuso il portoncino, e dopo aver finalmente deciso cosa c’è alla fine dell’universo, pensate pure a tutte le cazzate che vi vengono in mente, ma se avete dubbi sul loro gusto, se avete dubbi sull’opportunità di renderle di dominio pubblico sottoforma di commento “serio”, se avete un qualsiasi tentennamento, significa che potete tenervele per voi.
Vi assicuro che non è reato.

Alessandro Basso

[In copertina: Diego Rivera, Agitazione e confusione, 1933. Immagine tratta da Google Immagini]

Verità e informazione: il fenomeno del Clickbaiting

<p>Abstract background on risk business concept, metaphor to small fish being in danger among many hooks.</p>

C’è una questione che negli ultimi tempi ha invaso prepotentemente le nostre vite virtuali e non.
Sta aumentando esponenzialmente la circolazione di notizie false. Non sto parlando di frasi o testi ambigui, di letture palesemente di parte volte ad ingannare il lettore per il tornaconto di chi scrive o di chi commissiona l’autore del testo, ma di vere e proprie notizie INVENTATE.

Prima parola chiave: Clickbait o Clickbaiting. Si tratta di un contenuto web il cui unico scopo è quello di attrarre l’attenzione del lettore in modo che ci clicchi sopra. Con ciò aumenterà il numero di visite per quella determinata pagina che vedrà accrescere i suoi introiti dovuti alle inserzioni pubblicitarie. Grande veicolo di diffusione sono i social network, nei quali spesso le “persone” non danno molta importanza al contenuto – anzi: spesso proprio il testo non viene letto ma ci si sofferma solamente sul titolo – poiché l’unica cosa che ha veramente importanza è se quel determinato titolo condivide il mio stato emozionale nei confronti di un problema o di una situazione.
Esistono siti che lottano contro questo fenomeno: quelli di debunking, che cercano appunto di smentire le notizie false che si possono trovare in rete. Ma – diciamocelo francamente – chi e quante volte va a controllare una notizia prima di condividerla? Dà molta più soddisfazione scrivere uno stato indignato – come minimo – contro un qualsiasi bersaglio attaccandolo per una certa notizia, anche se questa sia falsa.
Anzi, molto spesso nel caso in cui vengano smascherati, questi individui hanno anche il coraggio di continuare imperterriti la loro battaglia campale contro «l’informazione ufficiale e quindi falsa», sostenendo le proprie tesi dall’alto di posizioni espresse da siti autorevoli come “piovegovernoladro” o “grandecocomero” (e non sono nomi inventati).
La cosa triste è che ultimamente sembra che anche i media tradizionali stiano iniziando a seguire questa tendenza per riuscire a sopravvivere nello spietato mondo dell’informazione virtuale. Certo, non sono ancora arrivati a pubblicare notizie inventate di sana pianta, per ora si limitano a gonfiare i titoli, diffondere contenuti che spetterebbero a quotidiani di gossip o riviste di animali domestici e scrivere gli stati con quel metodo di utilizzo della punteggiatura e del BlockMaiusc che ci ricorda un’abile manovratore di ruspe che tutti conosciamo.
La cosa divertente – invece – è che spesso certi siti erano nati come pubblicanti bufale di una inconsistenza reale palese che suscitassero l’ilarità del mondo virtuale e – chissà – forse anche per prendere in giro i siti che di questa idea malata fanno il proprio scopo di esistenza nella rete. Ma il lavaggio di cervello a cui siamo sottoposti tramite internet, ormai, ha portato certi personaggi a condividere pure quelle notizie, e di indignarsi anche per il loro contenuto!

E siamo arrivati alla seconda parola chiave: l’alienazione virtuale.
Prendo come esempio le elezioni presidenziali americane. Premetto fin da subito che non voglio giudicare i candidati o le loro idee, ma semplicemente indagare i metodi con cui si è svolta.
Prima di tutto la partecipazione. Internet permette di connettere un sacco di persone che non si conoscono e che nella vita reale non si sarebbero potute quasi mai conoscere. Tante belle parole e tante potenzialità, non c’è dubbio. Durante la corsa per la White House sembrava che tutto il mondo fosse collegato e partecipe di quel momento. Fin qui, forse, nulla di male si potrebbe dire. Il punto è che tutte queste persone collegate davano il proprio giudizio. I non americani hanno giudicato un fatto americano basandosi su ciò che avevano a disposizione, e cioè le notizie presenti su internet, in larga scala Facebook e Twitter, due dei terreni più fertili per la nascita di notizie se non false almeno fuorvianti. Il problema ulteriore è che anche chi aveva in casa le elezioni è stato letteralmente bombardato da questo tipo di informazione. Aggiungiamoci poi le notizie false diffuse dai candidati stessi (in maggioranza da quello repubblicano, e non è un giudizio ma un fatto dimostrato) ed otteniamo un minestrone dal gusto decisamente ambiguo.
Certo, ci sono stati i comizi, ci sono stati i confronti televisivi, ci sono stati gli appelli, ma nella quotidianità dove si pescavano le notizie? Queste sono state le elezioni più “social” della storia, e sebbene ciò abbia contribuito positivamente alla visibilità non sono sicuro che il passaggio da dibattito reale a dibattito virtuale sia privo di conseguenze negative. Negative non per un partito o per l’altro, ma per la politica stessa e soprattutto per chi la determina, cioè – almeno in teoria – gli elettori.
Non è una novità che in qualsiasi campagna elettorale si cerchi di accaparrarsi voti tramite la diffusione di notizie non del tutto vere: non sto dicendo questo; sto cercando di mettere alla luce un presentimento che da qualche tempo mi tormenta. Ci sono troppe notizie false e pochi mezzi, o forse poca volontà, per stanarle e contraddirle: cosa dobbiamo attenderci nel futuro?

Il filosofo tedesco K. Popper aveva proposto una patente per poter apparire nei programmi televisivi, perché si era reso conto di come questo strumento di informazione di massa potesse condizionare la vita dell’uomo. Ora con internet il discorso è elevato all’ennesima potenza – basti pensare al deep web. Proporre una patente per utilizzare internet o per potervi inserire notizie, però, è ormai un’idea ridicola, andava pensato come condizione di internet stesso; però una soluzione a questo fenomeno deve essere trovata.
Facebook ha cominciato a muoversi per ridurre il clickbait, modificando l’algoritmo della sezione notizie. Il problema, però, non sta secondo me nel clickbaiting, che potremmo chiamare “soft” (del tipo: «Quando ha guardato sotto il cuscino del divano e ha visto QUESTO…è stato uno SHOCK!»); ma in quello che mira a cambiare le idee delle persone, o quantomeno a contaminarle. gli algoritmi qui hanno poco a che fare, bisogna lavorare sull’educazione all’utilizzo di questo strumento dalle mille potenzialità, perché tra i tanti pericoli di internet questo è uno che secondo me influenzerà enormemente il futuro prossimo.
Abbiamo di fronte l’Everest e siamo attrezzati per una passeggiata al parco.

Massimilaino Mattiuzzo

[immagine tratta da Google Immagini]

Reddit e un romanzo horror: un mistero social o un caso letterario?

Di misterioso in questa storia c’è molto. A partire dal social network in questione: Reddit. Un oggetto non indentificato credo per la maggior parte degli italiani, ma non siamo soli, dato che la stragrande maggioranza del traffico che registra proviene dagli Stati Uniti, ma pare che anche in Australia vada forte. Intanto Reddit non è propriamente un social network, ma un social news. Si autoproclama the front page of internet per la velocità con cui propaga le notizie ed è un aggregatore dei più svariati contenuti. Gli utenti registrati (in maniera anonima solo con un nickname) possono postare link, messaggi di testo, gif animate o foto che in base all’indice di gradimento dato dagli utenti scalano la classifica della home page. Le cose giudicate più interessanti diventano quindi più visibili. Portate pazienza, all’apparenza non è così semplice ma dopo un po’di abitudine il meccanismo diventa comprensibile. La caratteristica di Reddit sono i subreddit, e cioè delle specie di forum creati dagli utenti e dedicati alle più diverse, e in molti casi specifiche cose. Ce ne sono moltissimi e per ogni gusto, letteratura, cinema, matematica, ma la cosa sorprendente è come un macro tema venga segmentato in tanti aspetti più particolari così da poterne discutere meglio.

Reddit è un social veramente strano ma, da neofita estremamente stimolante, perché si può leggere e imparare di tutto, volendo postare idee e contenuti e interagire, commentando, con persone che molte volte sanno quello che dicono (si non proprio come Facebook). Ah Reddit è la contrazione di Read e Edit (leggi e scrvi).
Questo excursus per dire che io neppure (seppur sapendo della sua esistenza) mi ero mai avvicinato a Reddit, ritenendolo una cosa troppo da nerd anche solo da provare, fino a che una storia non mi ha fatto incuriosire.

Andando a cercare e a leggere di qua e di là ho scoperto che non è la prima volta che da questo strano prodotto dell’internet emergono storie strane. Alcune molto inquietanti, e hanno a che fare con video lugubri pieni di segni e simboli macabri, altre che si sono rivelate essere solo campagne pubblicitarie sempre opera di quei geni degli americani. Insomma non è una novità che dalla front page di internet emergano cose curiose, ma questa storia è particolare, almeno finché non si scoprirà anche questa appartenere a un nuovo format di pubblicità.

Il 21 Aprile un utente che usa come nickname il nome  _9MOTHER9HORSE9EYES9, inizia a postare nei commenti ad alcune discussioni quella che sembra una storia. Commenti apparentemente slegati, e non inerenti ai temi di cui si tratta. Si parla di un programma segreto della CIA che prevedeva la somministrazione di LSD come base di studio, della guerra del Vietnam, della seconda guerra mondiale e del campo di concentramento di Treblinka, tra le moltissime altre cose. Ma soprattutto l’utente anonimo cita le flesh interfaces, ovvero interfacce di carne: dei portali (fatti di carne appunto) che permettono il passaggio, non senza conseguenze, ad un’ altra dimensione, e di come furono creati e usati. Una storia di sci-fiction, dalle punte horror, apparentemente sconnessa, e narrata da vari punti di vista e ambientata in diversi contesti temporali. Molto misteriosa, molto intrigante. Alcuni utenti di Reddit la trovano molto interessante e vi si appassionano, e nel frattempo gli episodi di quella che è stata ribattezzata The Interface Series continuano. Il racconto riunisce teorie del complotto, elementi di terrore e altri di fantascienza; alcuni dicono sia ispirato a Lovecraft, a Phil K. Dick, altri che sia solo un racconto del genere creepypasta: ovvero un tipo di storie horror che hanno a che fare con leggende metropolitane o controversi episodi storici che girano molto su internet. Sta di fatto che il numero di post cresce di giorno in giorno così come gli appassionati, che creano un subreddit per seguire lo sviluppo della vicenda e organizzare i commenti di 9M9H9E9 in ordine cronologico, commentarli e scambiarsi opinioni. La storia ora consta di 82 mini episodi e la community conta seimila iscritti.

Mistero alimenta mistero e il nostro fantomatico autore si mostra egli stesso con un messaggio, sempre su Reddit, poi cancellato, nel quale dichiara di essere un normale uomo americano sulla trentina, con un passato (e un presente?) di droghe. In un altro quasi chiede scusa per il modo in cui la sua storia sta emergendo dalle pieghe della rete ma, dice, non ha trovato nessun altro modo per far leggere il suo racconto in modo che la gente ne fosse incuriosita, e aggiunge che le cose che scrive non sono finzione, sono fatti accaduti veramente o molto verosimili.

Ecco, a prescindere dal valore letterario della scrittura, che io non mi sento in grado di giudicare, ma che alcuni ritengono di buon livello e altri  solo di medio, quello che racconta (per quello che ho letto finora) è estremamente interessante. Sembra un viaggio nel tempo nella storia, da quella più remota a quella più prossima, in un turbine di invenzioni, cambiamento di luoghi, tempi e narratori. Come ha scritto qualcuno: pare di leggere un racconto enciclopedico, Wikipedia che si è fatta un acido. L’elemento più sorprendente e catalizzatore, ovvero queste interfacce-portali di carne, probabilmente è un novello Mc Guffin: un trucco con il quale si concentra l’attenzione su un oggetto secondario per poi parlare d’altro, e cioè di quello che interessa davvero (tecnica usata da Hitchcock e Trantino per il cinema).

Comunque stiano le cose e di qualsiasi cosa tratti veramente questo racconto, se diventerà un caso letterario o solo le esternazioni di un pazzo, la sua peculiarità è stato il modo con cui l’autore ha deciso di raccontarsi. Semplicemente ha sfruttato un social e la passione e la curiosità dei suoi utenti, famosi per essere amanti dei misteri e un po’ paranoici delle cospirazioni. In questa tecnica io ci vedo un po’ l’antico romanzo a puntate, che usciva sui giornali, aggiornata ad un’era in cui i nuovi quotidiani sono in rete. Inoltre questo modo permette di mantenere alta l’attenzione del pubblico, come una serie tv, che però diventa parte del romanzo in formazione, impegnandolo a scovare e rimettere insieme i pezzi della storia. Poi una storia così frammentata, senza una vera trama lineare, si presta bene di per sé a questa segmentazione: si possono contare fino a sedici narratori diversi e molteplici cambi di prospettiva. I fan hanno anche creato un audio libro e un ebook per garantire una migliore e più semplice lettura.

La domanda a questo punto è: è questo il futuro della letteratura o solo un caso isolato e particolare? Propenderei per la seconda, ma l’interesse che ha suscitato fa pensare che non si possano escludere emulatori o altri innovatori. Intanto c’è solo una cosa da fare: aspettare che venga messo il punto all’ultimo capitolo di questa strana storia.

Tommaso Meo

(immagini tratte da Google immagini)

 

Giornalismo e Filosofia: interazione o rivoluzione?

Per Foucault, che considerava il proprio lavoro più affine a quello del giornalista che a quello del filosofo, giornalismo e filosofia si intrecciano e modellano a vicenda, dando vita, alla fine, alla soluzione della problematica sull’oggi e il rapporto tra l’evento del momento e l’attualità. Proprio Foucault è il punto di partenza (già alla fine del XVIII secolo) per analizzare il fatto che “non ci sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: Chi siamo noi adesso? Ma penso che tale domanda sia il fondamento di chi, forte della sua etica e deontologia professionale, dedica la sua vita al giornalismo”. Ecco che, al momento, la domanda da porsi, sia esso un filosofo o un giornalista è quale significato acquista, oggi per noi, il cosiddetto “giornalismo filosofico”.

La risposta va ricercata su entrambi i fronti, ascoltando la voce del “filosofo” e quella del “giornalista”, analizzando il tutto da entrambe le prospettive. L’obiettivo è proprio quello di capire in cosa consista la differente angolatura tra le due e dove risieda la loro specificità. In altri termini: cosa significa praticare giornalismo filosofico dal punto di vista di un giornalista e da quello di un filosofo. Ruolo importante, in entrambi i casi, lo svolge la pratica del dire la verità all’interno del giornalismo filosofico e di che tipo di verità eventualmente si tratta. Insomma, il “giornalismo filosofico” consiste in una sorta di “battaglia a colpi di verità” contro il potere o produce piuttosto uno slittamento della posizione, della funzione e anche del significato di “verità” (spostando il problema sul piano della visibilità, ovvero, in termini prettamente e squisitamente filosofici, rendendo visibile ciò che non lo è (tornando indietro nell’antichità la sostanziale differenza tra noumenon e phenoumenon)? In questo caso diventa fondamentale, per produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità. La verità intesa in senso oggettivo, senza giudizi personali, secca, così come è realmente accaduta. Entra, solo dopo, in gioco il rapporto tra “giornalismo filosofico” da un lato e critica dall’altro, e in che modo la critica può aprire concretamente nuovi spazi di resistenza. Partendo dall’Illuminismo, Foucault utilizzava l’espressione “ontologia critica di noi stessi“ per indicare un atteggiamento in cui “la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei nostri limiti e prova del loro superamento possibile“.

Un pensiero che sottintende al fatto che la pratica del “giornalismo filosofico” vada inserita all’interno di un processo di trasformazione e cambiamento rispetto al contesto, sempre specifico e politicamente determinato, in cui agisce. Questo non vuol dire alterare la verità piegandola al “volere” della politica trasformandola quindi in una “non verità”, ma analizzarla con oggettività e obiettività come base per una discussione finemente politica che faccia emergere problemi e conseguenti soluzioni. Diventa, se etica e deontologia vengono rispettate come dovrebbe un giornalista, inutile parlare o discutere di “militanza” nel caso della pratica del “giornalismo filosofico”, non additando, dunque, il “giornalismo filosofico” come modalità di “engagement” politico o di resistenza. La posta in gioco principale consiste, concludendo, nella capacità di superare definitivamente l’opposizione tra lavoro teorico ed “engagement” individuale, introducendo nuove possibilità per colui che pratica il giornalismo filosofico di essere coinvolto in prima persona rispetto al proprio presente. In parole più semplici, la verità inconfutabile come base per la discussione politica/filosofica su basi concrete e non su voli pindarici. Compito, quest’ultimo, che ritroviamo proprio nel pensiero di Foucault. “Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale – diceva il filosofo – e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data”. All’interno di questa prospettiva di indagine, diventa fondamentale allora chiedersi, concretamente, quali siano le connessioni più efficaci e realizzabili che il giornalismo filosofico può intessere con gli specifici contesti sociali: in quali campi, oggi, la pratica del giornalismo filosofico abbia maggiori margini di manovra e possa dare luogo a trasformazioni significative al livello dei rapporti di forza esistenti.

La risposta sta nel giornalismo di indagine e nel lavoro di ufficio stampa e portavoce nel quale (se svolto con correttezza, etica e professionalità) l’indagine conclusa o l movimento politico (inteso anche come persona fisica che “vive” di politica) siano solo lo specchio pulito di una realtà oggettiva che, a quel punto, viene comunicata solo con un messaggio meno tecnico e accessibile a tutti. Per chi lavora nel capo della filosofia come nel campo del giornalismo, dunque, bisogna sempre tenere presente il detto che narra che “se tu non ti occupi di politica, prima o poi sarà la politica a occuparsi di te”. E se dunque, di necessità virtù, l’argomento va affrontato, questo avvenga senza alcuna negazione o mistificazione di una realtà oggettiva e narrata in modo cronistico.

Gian Nicola Pittalis