“Vincoli” di Kent Haruf e l’annullamento buddhista del sé

Vincoli è uscito in Italia il 5 novembre scorso, edito da NNEditore e tradotto dal sempre impeccabile Fabio Cremonesi. È il primo romanzo (apparso negli Stati Uniti nel 1984) del Kent Haruf della Trilogia della Pianura (Benedizione, Canto della pianura, Crepuscolo) e de Le nostre anime di notte. Leggendolo, si nota quanto la prosa harufiana fosse ancora acerba, molto descrittiva e dunque più incline alla ricchezza lessicale. Inoltre, Vincoli ha un narratore che è sia interno che esterno alla vicenda e interagisce con il lettore – cosa che negli altri romanzi di Haruf non avviene: essi, scritti con uno stile essenziale eppure empatico, ricordano vagamente il naturalismo francese della seconda metà dell’800.

Vincoli racconta di Edith Goodnough, nata alla fine del 1800 nei pressi di Holt, l’immaginario paesino in Colorado dove tutte le opere di Haruf sono ambientate. La storia parte dal 1976: Edith è un’ottantenne che si trova ricoverata in ospedale in attesa d’essere processata per un presunto crimine. Ma, a questo, Haruf ci arriva pian piano. Prima è necessario occuparsi del passato di Edith e dei suoi genitori, Roy e Ada, emigrati in Colorado dall’Iowa poco prima della sua nascita. Nella contea di Holt i Goodnough hanno messo in piedi da zero una fattoria fatta di animali da allevare e campi da coltivare – instancabilmente, inesorabilmente. A due anni di distanza da Edith nasce Lyman, destinato a diventare un ragazzone semplice ma indolente, per nulla dedito alle attività agricole. Ancora adolescenti, i due fratelli perdono la loro madre e si ritrovano da soli con un padre intransigente, burbero, insopportabile, che resterà vittima di un incidente il quale ridurrà drasticamente il suo margine di manovra come uomo di fatica.

È la giovane Edith a sobbarcarsi di tutto («Era come se avesse le redini del mondo intero nelle sue mani»), vincolandosi a suo padre, a suo fratello (che ella mette su un piedistallo ignorando il suo egoismo capriccioso), alla memoria di sua madre e alla fattoria, rinunciando così a se stessa.

Non è certo un caso che il titolo del romanzo sia proprio Vincoli: esso non parla, infatti, di semplici relazioni, bensì di legami intrisi di obbligatorietà, senso del dovere e di colpa. Edith s’impone un duro martirio, un calvario costellato di scelte sbagliate e di continui “no” a se stessa urlati a gran voce. La donna annulla il suo sé e rinuncia – si potrebbe dire consapevolmente – ai suoi desideri, compresi quelli amorosi.

Viene da pensare al Dhamma-Pada, testo del V secolo a.C. facente parte del Canone buddhista. Edith ricorda il Brāhmana ivi descritto, ossia il sacerdote, il degno che fa parte della prima delle quattro caste e può raggiungere il Nirvana poiché è distaccato dal mondo, non possiede nulla e non vuole nulla. «Colui che, innocente, sopporta insulti, percosse e vincoli, avendo la pazienza come sua fortezza, forte come un esercito in campo, costui io chiamo brāhmana»1..

Tuttavia, a uno sguardo più attento, le rinunce di Edith appaiono dettate non da una spirituale volontà di abnegazione, bensì dalla paura e da un lacerante senso di colpa. La figura del sacerdote cara al Buddhismo deve rinunciare a qualsiasi vincolo umano, cosa che Edith proprio non riesce a fare. Anzi: il distacco da sé stessa si compie proprio esercitando una totale dedizione nei confronti degli altri. L’identità della donna si riassume in quella di sua madre morta sola, lontana dalla sua casa e in una terra che considerava ostile; in quella di suo padre, menomato nel corpo e nell’impianto emozionale; in quella, infine, di suo fratello Lyman, l’eterno bambino non conscio di sé né di ciò che lo circonda, il quale ha vissuto felicemente proprio grazie a quest’inconsapevolezza.

Pare che il solo vincolo che Edith sia stata in grado di spezzare (probabilmente quando sua madre se n’è andata) sia quello con se stessa. Un legame che andrebbe al contrario curato e difeso gelosamente e ferocemente, poiché è attraverso esso che si compie il nostro personale destino. Esso è il fil rouge che ci conduce ai nostri desideri, i quali sanciscono chi siamo e cosa è giusto per noi. Un vincolo che, per restare in vita, si nutre di un coraggioso e trionfante egoismo. Dice anche, infatti, il Dhamma-Pada: «Non si scordi il proprio bene per quello altrui, per quanto grande esso sia: riconosciuto il proprio bene, si sia tutto intento a questo».

Ma questo, forse, Edith lo capisce quando ormai è troppo tardi.

 

Francesca Plesnizer

 

NOTE:
1. Dhamma-Pada (I versetti della legge), in Buddha, I quattro pilastri della saggezza, a cura di K.E. Neumann e G. De Lorenzo, Newton Compton editori, Roma, 2013, p. 116.

[Photo credit Vladimir Kramer su Unsplash.com]

 

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Occidentali’s Karma: chi è la scimmia nuda?

C’è poco da fare, d’ora in poi capiterà spesso di avere nelle orecchie il motivetto del brano vincitore del festival della canzone italiana. Una di quelle canzoni che entrano in testa senza chiedere il permesso, prive di riguardo. In molti si ritroveranno a canticchiarla, più o meno consapevolmente.

Critica in musica pop degli aspetti controversi della società digitale, Occidentali’s Karma dichiara sin dal titolo di voler riflettere sul destino della civiltà occidentale, su quello che l’uomo moderno potrà raccogliere, considerati i semi che sta seminando.

Lo fa cospargendo il suo testo di un retrogusto intellettuale: attinge con ironia al linguaggio delle filosofie dell’ovest e dell’est, all’arte e alla letteratura, costruendo una costellazione di easter egg colti.

A chi non è capitato di provare un misto di invidia malcelata e di fastidio per la saccenteria, davanti a qualcuno che con naturalezza riesce ad accostare al proprio pensiero le citazioni di personaggi illustri? Sapevatelo, oggi Gabbani regala a tutti la possibilità di sfoggiare una folta sequenza di rimandi culturali.

Ecco l’origine del significato di dieci riferimenti presenti in Occidentali’s Karma, dieci punti da leggere per cantare la canzone, citando responsabilmente:

1.
Essere o dover essere
Il dubbio amletico

Il principio della canzone si spiega da sé: richiama l’opera, anche se tralascia l’autore. Ma la fama della citazione è tale che la spiegazione suona quasi superflua: è naturalmente il «To be, or not to be», tratto dall’Amleto di William Shakespeare, la battuta che apre il soliloquio in cui il protagonista pondera sull’indecisione tra azione e inazione.

2.
Comunque vada panta rei

Pánta rêi: aforisma greco che si traduce come “tutto scorre”. È l’espressione utilizzata per riassumere il pensiero del filosofo greco Eraclito, il filosofo del divenire, che concepisce il l’esistenza del mondo che ci circonda come un continuo mutare, un flusso sempre diverso in cui la realtà di ogni istante è in perenne evoluzione.

3.
And singing in the rain

Con pánta rêi, fa rima e c’è, stacce, direbbero Lillo e Greg. Riferimento proveniente dall’ambito della settima arte. È il titolo del film e della canzone protagonista della pellicola: stiamo parlando di Cantando sotto la pioggia, il film del 1952 diretto e interpretato da Gene Kelly. Inserito nel testo di Gabbani, richiama anche un’altra celebre frase, attribuita all’artista Vivian Greene: «Life isn’t about waiting for the storm to pass… It’s about learning to dance in the rain».

4.
Lezioni di Nirvana
C’è il Buddha in fila indiana
La folla grida un mantra
Occidentali’s Karma
Namasté Alé

Carrellata di terminologia in sanscrito, la lingua dei testi classici della religione e della filosofia indiana. Uno per uno in fila (fila indiana, appunto):
Nirvana: Associato ai significati di “estinzione”, “libertà dal desiderio”. È lo stato finale dell’esistenza professato dalla dottrina buddhista, lo stato di cessazione di ogni dolore.
Buddha: Significa “risvegliato”. È l’essere che ha raggiunto il più alto grado dell’illuminazione.
Mantra: formula verbale rituale, composta dai versi tratti dai testi sacri dell’induismo, recitata con una funzione mistica, di preghiera o di meditazione.
Karma: traducibile come “azione”, si riferisce all’interpretazione induista del principio di causa-effetto, a cui è associata una connotazione morale.
Namaste: saluto di origine indiana che significa “mi inchino a te”.

5.
Per tutti un’ora d’aria, di gloria

Ricorda le parole profetiche rese celebri da Andy Warhol: “Nel futuro, ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità”.

6.
L’evoluzione inciampa

Seconda delle tre grandi umiliazioni inferte all’umanità e alle concezioni che descrivono il posto dell’uomo nel cosmo (assieme a quelle firmate Copernico e Freud). La teoria dell’evoluzione, del naturalista inglese Charles Darwin, fissa l’origine della specie umana nella realtà animale dei primati.

7.
La scimmia nuda balla

Nel 1967 lo zoologo Desmond Morris pubblica il saggio La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo. Nel testo descrive l’uomo come una delle 193 specie di scimmie esistenti, primate tra i primati, animale nella sua essenza, e diverso per lo più per il fatto che la sua pelle è sprovvista di peli. Per questo appare nudo rispetto alle bestie sue simili.

8.
Piovono gocce di Chanel
Su corpi asettici

Questa volta l’ambito è quello della cultura generale, che rievoca la risposta di Marilyn Monroe alla domanda di una storica intervista. Al quesito del giornalista: «Cosa indossa per andare a letto? Un pigiama? Una camicia da notte?» rispose «Due gocce di Chanel N°5».

9.
Coca dei popoli
Oppio dei poveri
 

Karl Marx, autore del Manifesto del partito comunista accosta la pratica religiosa all’assimilazione di sostanze che confondono l’intelletto. Scrive in una delle sue opere: «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli».

10.
Quando la vita si distrae cadono gli uomini

In questo ultimo passo possiamo intravedere una reminiscenza delle parole del filosofo Friedrich Nietzsche, che in un passo di Cosí parlò Zarathustra, il testo dove viene espressa la dottrina del superuomo, scrive: «Io amo coloro che non sanno vivere anche se sono coloro che cadono perché essi sono coloro che attraversano».

I versi della canzone attingono a un patrimonio di sapere che attraversa le epoche, le culture e le regioni del mondo. Forse nel successo di questo brano si può intravedere un desiderio inappagato di profondità culturale, compensazione della pratica continua della superficialità che tanto critica il testo di Occidentali’s Karma. O forse è stata innalzata sul podio solo perché ci piace vedere una scimmia ballare su un palco. Probabilmente le due cose non si escludono.

O forse ancora, se l’essere è, e il non essere non è, è semplicemente perché Sanremo è Sanremo.

P.S. La scimmia nuda, sei tu.

 

Matteo Villa

 

Link YouTube per riascoltare la canzone

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